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Cinema e lavoro – Mia madre

Un film di Nanni Moretti (Italia 2015)

Milano, 27.10.2021

Regia: Nanni Moretti – Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella – Fotografia: Arnaldo Catinari – Montaggio: Clelio Benevento – Scenografie: Paola Bizzarri – Costumi: Valentina Taviani – Interpreti: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Stefano Abbati, Beatrice Mancini, Enrico Ianniello, Anna Bellato, Toni Laudadio, Pietro Ragusa, Tatiana Lepore, Lorenzo Gioielli – Produzione: Fandango, Sacher Film, Rai Cinema in co-produzione con Le Pacte e con Arte – Distribuzione: 01 Distribution – Durata: 106 min.

Margherita sta girando un film impegnato sulla crisi economica italiana dove si racconta lo scontro tra gli operai di una fabbrica e la nuova proprietà americana che promette tagli e licenziamenti. Oltre a dover gestire la complessità del set corale di un film politico, deve fare i conti con le bizze della star italo-americana che ha scelto per interpretare il ruolo del nuovo proprietario; un attore in crisi, ostaggio della sua maschera di divo, qui esasperata dal provincialismo del cinema italiano.
Margherita è separata, ha una figlia adolescente che frequenta malvolentieri il liceo classico in ossequio alla tradizione famigliare impressa dalla nonna (insegnante di latino e greco), ha un amante, attore nel film impegnato, mollato all’inizio delle riprese, e una vita confusa, solitaria e complicata. La concentrazione, richiesta per girare un film così difficile, tutto spostato verso il lato pubblico e politico, è minacciata dalle istanze del privato e dall’ombra sempre più densa della possibile morte della madre che la costringe a un confronto difficile e doloroso, soprattutto con se stessa e con il fratello Giovanni, un ingegnere posato che si è preso un periodo di aspettativa dal lavoro per accudire la madre malata di cuore, ricoverata con poche speranze in un ospedale della capitale.

Partendo dalle riprese di una fabbrica occupata Moretti, attraverso il film che la regista protagonista sta girando, mostra le difficoltà nel mostrare le lotte operaie indotte dalla crisi economica. Crisi che riguarda anche le vicende familiari in uno dei film più intimi del regista romano

LA CRITICA

La prima scena è uno scontro tra manifestanti operai e poliziotti. Per come è stata girata, prim’ancora di scoprire il film nel film, si intuisce che c’è puzza di “finzione”, ma nel senso (potremmo dire tutto italiano) di fasullo: le botte dei poliziotti non sono così realistiche, l’azione dei manifestanti appare improbabile, l’azione è povera… non è solo una sensazione, presto qualcuno grida “stop” e inizia a lamentare la povertà della scena. È Margherita al centro del suo set che inizia a mietere dubbi nei suoi collaboratori, facendosene carico lei stessa. Parlando al direttore della fotografia che aveva posizionato la camera dentro alla mischia riproducendo un senso di realismo brutale e spettacolare, Margherita esprime il suo dubbio etico: “ma tu stai con i poliziotti o con i manifestanti”? Domande che pochi si fanno, ormai, ma che Moretti continua a fare e non è un caso che le sequenze del film nel film, il racconto della protesta degli operai, siano così maldestre, improbabili, finte (Moretti infatti non girerebbe mai un film così).
Ma c’è dell’altro, se volessimo andare a fondo. La dimensione politica e pubblica, la lotta degli operai, la crisi economica così come s’affacciano nel film sembrano aver perso ogni urgenza e necessità. Non interessa a nessuno della sorte degli operai. In questo senso Mia madre è un film che racconta una stanchezza e una inadeguatezza. L’ingegnere Giovanni (interpretato da Moretti) si è messo in aspettativa per poi dare le dimissioni e la regista Margherita gira il suo film politico senza troppa convinzione, come fosse un dovere, con una certa stanchezza e sfiducia verso il mezzo stesso, verso la finzione. Margherita, come il suo divo americano dopo l’ennesima notte di ciak andati male, vuole tornare alla realtà, che si quella tangibile del privato e qualcosa d’altro in via di definizione.
In questo senso il film è di una cupezza esemplare, quasi senza scampo, perché attraverso l’alter-ego, ci dice che il suo autore non riesce più a credere che iquel cinema (il suo? quello italiano? quello di finzione?) sia il modo più efficace per raccontare il presente politico e sociale. Non per questo, sia ben chiaro, bisogna intendere Mia madre come un’opera che si rifugia nell’intimismo e nel privato. Anzi proprio nell’attivare questa dialettica così stringente tra individuo e società, privato e pubblico, personale e politico, attore e regista, uomo e icona… il film s’appresta ad essere un manifesto del nostro tempo complesso e problematico. (Dario Zonta – MyMovie)

“Fai sentire l’attore, accanto al personaggio,” dice la regista Margherita, lasciandoli interdetti e meditabondi, agli interpreti del suo seriosissimo film sul mondo del lavoro.
E Mia madre è così: un film dove c’è sempre qualcuno accanto, qualcosa. Accanto, di lato alla sorella Margherita, alla madre morente, calmo e capace di accudire, c’è Giovanni: un angelo wendersiano che pare uscito da quel Cielo sopra Berlino proiettato al Cinema Capranichetta, davanti al quale si svolge una delle tante scene oniriche che costellano un racconto che sogna un incubo a occhi aperti.
Accanto a Margherita (Buy), c’è Nanni Moretti, attore (mai così bravo) che sta al fianco del personaggio che ne è un chiaro ma trattenuto alter ego.
Un Moretti che sta sempre, silenziosamente, accanto al suo film, autobiografico quanto basta, o forse no; che lo guarda e lo accompagna tanto da dentro quanto da fuori, alla ricerca di quella giusta distanza che anestetizzi il dolore senza sopprimerlo.
In Mia madre il dolore è accanto alla risata, la vita accanto alla morte, il lavoro al privato, l’inglese all’italiano, la sicurezza alla confusione, la giovinezza alla vecchiaia. Il sogno accanto alla realtà, costantemente confusi da Margherita e da sua madre Ada.
E tutte queste cose scivolano l’una dentro l’altra, si mescolano, si intersecano e si contaminano, creando fluidità e incertezza; quella fluidità e quella incertezza che sono proprie della vita e di Margherita, che non è mai con la mente e con lo spirito nello stesso luogo, per citare la versione di latino tradotta dalla vecchia Ada e dalla nipote Livia verso la fine del film (e un po’ anche Grosso guaio a Chinatown).
Scivola via, Mia madre, scivola via con le musiche di Olafur Arnalds e la voce di Leonard Cohen, con la leggerezza dell’acqua che allaga casa di Margherita, e come l’acqua che scorre lascia i segni più profondi: i segni di un dolore ineludibile, di un peso insopportabile sotto il quale perfino l’angelo Giovanni sembra condannato a perdere le ali e le parole, seppur solo per un attimo.
Toglie il fiato, il dolore raccontato in Mia madre, quel dolore che Moretti, con una scena di straziante bellezza e cristallina semplicità, fa tirar fuori in tutte le sue lacrime solo alla piccola Lidia, dopo una fatidica telefonata arrivata nel cuore della notte e ascoltata da sotto le coperte di un letto da bambina.
Toglie il fiato ma non toglie le risate, che arrivano numerose attraverso le nevrosi morettiane messe in scena dalla Buy, attraverso gli scambi della regista con il bizzoso e incompetente divo americano chiamato sul suo set. Quell’elemento alieno, esterno, disomogeneo, cui Moretti non a caso affida una battuta che è una sorta d'(in)consapevole richiesta d’aiuto sua e dei suoi personaggi, prigionieri dell’incubo di quel che stanno vivendo e di un film che ne è sublimazione e catarsi, e che per Moretti stesso è richiamo all’ordine: “Bring me back to reality!.”
La realtà. La realtà di quello che siamo, di quel che vediamo realmente quando ci guardiamo allo specchio, come Moretti ha voluto fare con Margherita, prendendosela con sé stesso, come dice lui, prima che con gli altri.
La realtà di un domani che non ci sarà, una realtà che spezza il cuore, che lascia casse di libri, ricordi, testimonianze e gesta in un corridoio in attesa che vengano faticosamente ricollocate in nuovi scaffali, nuovi cuori, nuove consapevolezze. (Federico Gironi – Coming Soon)

Moretti, ormai distante dall’autarchia del primo periodo, non è mai stato tanto equilibrato, ponderato, ben temprato quanto in “Mia madre”. A volte il senso di un film è nascosto nell’incipit. Nella prima sequenza di “Mia madre”, dedicata al film nel film che sta girando la protagonista Margherita (interpretata da Margherita Buy in una performance finalmente degna di una duttilità interpretativa altrove sacrificata), viene posta una questione di linguaggio cinematografico. Sul set dove sono contrapposti polizia e manifestanti, Margherita critica un operatore che sta troppo dentro la scena, troppo vicino alla violenza. Ne fa una questione etica: “Tu stai coi poliziotti o coi manifestanti?”. Stare dentro un conflitto con riprese pseudodocumentarie che montano l’adrenalina è stilema adottato dal cinema statunitense (mutuato dal cinema d’autore europeo), e fra gli altri proprio da quella Kathryn Bigelow (“The Hurt Locker”; “Zero Dark Thirty”) di cui Moretti punzecchiò “Strange days” in una battuta di “Aprile”. A un moralista dello sguardo come Moretti immaginiamo non piaccia l’ambiguità di un cinema che da un lato problematizza la guerra e dall’altro la spettacolarizza e la rende seducente. Rispetto al temperamento oggi moderato di Moretti, non potrebbe esservi temperamento più distante di quello intransigente di Godard, eppure “Adieu au langage” pone una questione analoga: come fare in modo che il cinema sia ancora veicolo di autenticità, capace di decifrare la realtà, invece di innescare ambiguità e generare finzioni. Difficoltà di comunicazione. Sono significative quelle con Barry Huggins, l’ingestibile attore americano interpretato da John Turturro, così come i suoi inceppamenti linguistici. E i problemi con il latino di Livia, la figlia quattordicenne di Margherita. “Perché è importante, il latino?” chiede alla madre. Per la logica, si sente rispondere. La nonna, professoressa di latino (come era davvero la madre di Moretti), le suggerirà che tutto sta a saper interpretare il verbo, senza fermarsi al primo significato in cui ci si imbatte nel vocabolario. L’analisi logica, dunque. La sintassi del latino come quella del cinema.
Tutto il film s’interroga sul rapporto tra verità e finzione. La preoccupazione di Moretti è di restare aderente alla realtà più autentica. “Odio la retorica”, dice Margherita. Persino una frase d’incoraggiamento su uno striscione dell’ospedale le appare ingannatoria, lontana dalla verità. Le cose van dette per quello che sono, come fa con lei il fratello Giovanni (interpretato da Moretti stesso in un ruolo secondario, in cui si è messo più che mai da parte), quando non usa mezzi termini per spiegarle che “mamma sta morendo”.
“Mia madre” racconta di un lutto elaborato in anticipo, come avviene quando si sa che i propri cari non guariranno da una malattia. E’ un film sullo smarrimento, sul disorientamento. Margherita è disorientata sul set come nella vita. Il film scivola spesso nei ricordi e nel sogno: momenti in cui Moretti gioca a disorientare anche lo spettatore insieme alla protagonista. A controbilanciare il dramma, in un cocktail accuratamente dosato, la vanità gigionesca del personaggio di Turturro – che regala una prestazione di irresistibile verve comica. Non fa che millantare e dissimulare, continuamente: sino alla cena in cui cala la maschera, svelando la sua fragilità. E’ un personaggio iperbolico, ma riflette bene le menzogne che spesso raccontiamo a noi stessi. (Stefano Santoli – Ondacinema)

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