Kolya

Milano, 5.6.2015
 
REGIA: Jan Sverák  SCENEGGIATURA: Zdenek Sverák, FOTOGRAFIA: Vladimír Smutný MONTAGGIO: Alois Fisárek, MUSICHE: Ondrej Soukup INTERPRETI: Zdenek Sverák, Andrej Chalimon, Libuse Safrankova, Ondrej Vetchy’, Stella Zazvorkova, Nella Boudova, Ladislav Smoljak, Irena Livanova, Lilian Mankina, Petra Spalova PRODUZIONE: Biograf Jan Sverak – Centre National  Cinematographie – Cinemart – Czech Tv – Eurimages – Pandora Cinema – Portobello Pictures – Space Films  DISTRIBUZIONE: Lucky Red – DURATA: 105 Min
 
A Praga nel 1988 il violoncellista Frantisek ha avuto un alterco con un funzionario del partito comunista ed ora non lavora più, ridotto a suonare esclusivamente in occasione di funerali. Ha bisogno di soldi, e un giorno un amico gli propone di sposare una giovane russa che ha bisogno di documenti cechi per espatriare. In cambio riceverà una buona somma di denaro. Dopo molte esitazioni, Frantisek accetta, ma poco dopo il matrimonio, ha una sgradita sorpresa: la moglie è scappata in Germania dove c’è il suo innamorato ma ha lasciato a Praga il figlioletto di cinque anni che viene depositato davanti alla porta di casa di Frantisek. Questi è all’inizio disperato e smarrito, il bambino parla solo russo, i due non si capiscono e lui non sa come fare per accudirlo. La polizia lo interroga ripetutamente, ma Frantisek riesce a non cedere, tiene con sè il piccolo e, dopo un periodo iniziale difficile, tra i due nasce un rapporto caloroso ed affettuoso. Ora Frantisek capisce di dover pensare alla felicità e al futuro della creatura che gli è capitata, e così insieme fanno un viaggio attraverso la campagna ceca. Quando arriva il 1989, con la caduta del muro di Berlino, la mamma di Kolya torna a Praga per riprendersi il figlio e chiedere il divorzio. Tutto va come previsto, ed anche Frantisek riprende il suo posto all’orchestra Filarmonica. Ma il ricordo di Kolya lo accompagnerà per sempre.
 
Film sulla paternità ma anche sul rapporto con la burocrazia alla vigilia della caduta del regime comunista dove una risposta irriverente porta al licenziamento.
 
LA CRITICA
 
“Realizzato in famiglia perchè Jan è figlio di Zdenek Sverak, sceneggiatore ed eccellente protagonista del film (benissimo doppiato dal nostro Omero Antonutti) Kolya è il prodotto di un’identità nazionale riconquistata dopo decenni di repressione. La chiave è leggiadra: ci sono parecchi spunti umoristici in quella tipica vena cecoslovacca che ritroviamo anche nei titoli americani di Milos Forman, un’accattivante voglia di tenerezza e un’ottimistica capacità di tradurre il dramma in commedia.” (La Stampa, Alessandra Levantesi, 23/3/97).
 
“Se volete scoprire il segreto perduto della commedia all’italiana, vedetevi il delizioso Kolya. Arriva dalla lontana Praga ma ha tutte le qualità che avevano le nostre commedie migliori. Grazia, ritmo, leggerezza, capacità di cogliere “l’aria del tempo”, perfetta fusione fra grandi temi e piccoli personaggi. Più una finezza tutta cèca; eredità dei vari Forman e Menzel.” (Il Messaggero, Fabio Ferzetti, 23/3/97)
 
 
Nel 1988 a Praga si consumano gli ultimi bagliori del comunismo, la gente è “spenta”, rassegnata, mascherata in ruoli sociali che sclerotizzano la vita. Anche l’esistenza di Louka Frantisek è intrisa di segni di morte: dopo aver offeso un funzionario del partito, si guadagna da vivere suonando ai funerali e sistemando le decorazioni delle lapidi di un cimitero. Scapolo e donnaiolo odia cordialmente i russi e i bambini. La “provvida sventura” gli affibbia un bimbo russo di cinque anni, Kolya. Louka non parla il russo, Kolya non parla il ceco, intanto la polizia comincia ad indagare sullo strano matrimonio. Inizia un cammino che dall’incomunicabilità porta progressivamente ad un rapporto tenero ed affettuoso, un’apertura alla vita e alla paternità da un lato, la scoperta di una figura adulta significativa di riferimento dall’altra. Kolya, al suo apparire, è inquadrato vicino alla statua di un angelo, quasi a suggerirne la chiave di lettura più suggestiva e simbolica. Il percorso individuale di Louka, coincide con quello della Nazione che riesce ad abbattere il regime comunista e a riconquistare la dignità e la libertà. Allegro e brillante, ironico e commovente, sarcastico e toccante, il film ritrova gli spunti del miglior cinema ceco. Strano ma vero: anche dalla Repubblica Ceca i bambini ci guardano. (Sentieri del Cinema)
 
Praga, 1988. L’anziano Louka (Z. Sverak), esimio violoncellista disoccupato, indebitato e scapolo sottaniere, accetta per denaro di sposare una russa (L. Safrankova), madre di Kolja (A. Chalimon) di cinque anni, per permetterle di acquisire la cittadinanza ceca. Ottenutala, la donna se ne va in Germania, lasciando Kolja alla nonna che, però, ha un infarto e muore. Kolja passa a Louka. Rapporto difficile: il musicista non parla il russo, il bambino non sa il ceco. Intanto la macchina burocratica si mette in moto. Si vorrebbe mandare Kolja in un brefotrofio russo, ma è ormai la fine del 1989, il regime socialista crolla. Finale logico e agrodolce. Opus n. 4 di J. Sverak, figlio del protagonista Z. Sverak, noto attore ceco di commedia, è un film – piccolo, in apparenza, ma ricco a livello tematico e stilistico – sul mestiere (l’arte?) della paternità. Qui è acquisita e provvisoria, ma pur feconda di cambiamenti: nella vita del violoncellista Kolja è un segno straordinario che si manifesta nel quotidiano e ne permette la mutazione. “È fatto di spostamenti progressivi del “sentire” l’emozionante avvicinamento tra il vecchio e il bambino. Per il musicista si tratta di scoprire il luogo della comunicazione da dove arrivano i messaggi del bambino: la reticenza, il dolore, la solitudine, l’istinto al gioco” (Silvio Danese). (…) Oscar 1997 per il film straniero. (M. Morandini)
 

 

Passando dal piano personale a quello politico-sociale, ci si trova di fronte all’ossatura portante della narrazione, ossia alla critica nei confronti dei totalitarismi. Al di là del personaggio di František, che ha perso il lavoro a causa di un burocrate di partito, è proprio Kolya a essere vittima di un sistema politico incapace di comprendere le esigenze di libertà e di iniziativa dell’individuo. Le difficili condizioni di vita in Unione Sovietica costringono infatti all’emigrazione la donna e il bambino, che trovano rifugio in Cecoslovacchia, ed è solo con un matrimonio combinato che diventa possibile per la madre di Kolya quella fuga in Germania che le consentirà di mantenere il figlio, seppure a distanza. Durante la permanenza a casa di František, la vera minaccia per Kolya è lo Stato, che indaga sul matrimonio del musicista e che prospetta l’ipotesi del brefotrofio. I due, quindi, finiranno per diventare sempre più legati l’uno all’altro, sempre più solidali e complici, proprio perché costretti alla fuga da un regime sordo e violento. La caduta del muro di Berlino e la conseguente crisi dei governi socialisti restituirà a entrambi la libertà: a Kolya quella di crescere con la madre e a František quella di lavorare e, magari, di costruirsi un futuro con la donna che sta per dargli un figlio. (Stefano Boni – Aiace)