Euronote – Rischi economici e sociali per disoccupati e occupati

Milano, 5.3.2018

Nei Paesi dell’Unione europea si stimano circa 17,9 milioni di disoccupati e quasi la metà di essi rischia di essere in condizioni di povertà di reddito.

È quanto emerge da uno studio pubblicato da Eurostat alla fine di febbraio e basato su dati riferiti al 2016, secondo cui il 48,7% dei disoccupati di età compresa tra i 16 e i 64 anni nell’Ue è a rischio di povertà monetaria dopo i trasferimenti sociali. L’Ufficio statistico europeo stima che tale rischio tra le persone disoccupate sia circa cinque volte superiore a quello registrato tra chi un lavoro ce l’ha (9,6%).

Le conseguenze della crisi economico-finanziaria sono evidenti, dal momento che negli ultimi 10 anni la percentuale di disoccupati a rischio di povertà è aumentata continuamente, passando dal 41,5% nel 2006 al 48,7% nel 2016.

Eurostat precisa che le persone a rischio di povertà monetaria sono quelle che vivono in una famiglia con un reddito disponibile inferiore alla soglia di povertà, stabilita al 60% del reddito disponibile mediano nazionale (dopo i trasferimenti sociali).

Tra gli Stati membri dell’Ue, nel 2016 il più elevato tasso di disoccupati a rischio di povertà è stato rilevato in Germania (70,8%), seguita a distanza dalla Lituania (60,5%). Nella stessa condizione si trovava oltre la metà dei disoccupati in Lettonia (55,8%), Bulgaria (54,9%), Estonia (54,8%), Repubblica Ceca (52,3%), Romania (51,4%) e Svezia (50,3%). L’Italia (46%) era leggermente al di sotto della media Ue, mentre in quattro Stati membri il rischio di povertà colpiva meno del 40% dei disoccupati: Cipro e Finlandia (entrambi al 37,3%), Francia (38,4%) e Danimarca (38,6%).

Mettendo invece in relazione le percentuali di disoccupati e occupati a rischio di povertà monetaria, nel 2016 le differenze più ampie sono state registrate in Germania (70,8% tra i disoccupati rispetto al 9,5% tra gli occupati, con uno scarto di 61,3 punti percentuali), Lituania (51,8 pp), Repubblica Ceca (48,5 pp) e Lettonia (47,3 pp). Al contrario, le differenze erano invece meno pronunciate a Cipro (con un gap di 28,9 punti percentuali), in Francia (30,5 pp) e in Portogallo (30,8 pp).

I «salari perduti» secondo la Ces

Anche per chi un lavoro ce l’ha, però, la situazione è decisamente peggiorata negli ultimi anni. Secondo un calcolo della Confederazione europea dei sindacati (Ces), infatti, se la percentuale del Pil costituita dai salari fosse la stessa dei primi anni Novanta i lavoratori nell’Ue avrebbero guadagnato ben 1.764 euro in più nel solo 2017.

La percentuale del Pil costituita dai salari, sostengono i sindacati europei, è in declino dalla metà degli anni Settanta: mentre nel 1975 i salari rappresentavano il 72% del Pil europeo, nel 2017 hanno rappresentato meno del 63%.

«Calcolare i salari perduti da una “quota salariale” fissata ad un tasso molto moderato del 66% del Pil (il livello raggiunto nell’Ue all’inizio degli anni Novanta) darebbe a tutti i lavoratori nell’Ue un supplemento medio di 1.764 euro nel 2017» rileva la Ces, indicando poi le cifre calcolate per alcuni Paesi: 4.107 euro per la Repubblica Ceca, 3.354 per l’Italia, 2.806 per la Spagna, 2.777 per la Polonia, 2.169 in Germania, 2.122 in Ungheria e 1.890 in Portogallo.

Si tratta di «un furto di salari» ha dichiarato la segretaria confederale della Ces Esther Lynch, secondo cui «i ricchi stanno diventando più ricchi a spese delle persone che dipendono dai salari per vivere. Le aziende mantengono una percentuale maggiore di entrate come profitti a scapito dei salari. I profitti dovrebbero essere reinvestiti in attività e in formazione per la forza lavoro, invece gli investimenti sono addirittura diminuiti in proporzione al Pil».

I sindacati europei ritengono che l’Europa abbia bisogno di aumenti salariali per ridurre la disuguaglianza e guidare la crescita economica: «Mentre i ricchi investono il denaro in banca, i lavoratori invece spendono i loro salari in beni e servizi che avvantaggiano le imprese e creano posti di lavoro». I politici e gli economisti sono spesso preoccupati dei costi salariali, ha aggiunto Lynch, «ma il vero problema degli ultimi 25 anni sono stati i costi di capitale: l’ammontare corrisposto agli azionisti. La risposta è una rinnovata contrattazione collettiva per ottenere salari più equi».

Rete anti-povertà: protezione sociale per tutti i lavoratori

C’è poi un ulteriore elemento di difficoltà sociale legato ai cambiamenti verificatisi nel mercato del lavoro. Secondo stime della Commissione europea, quasi il 40% degli occupati nel 2016 lo era in forme «non standard o autonome» e circa la metà di questi lavoratori rischia di non avere un accesso sufficiente alla protezione sociale. «Le nuove forme di lavoro altamente flessibili, così come i molteplici cambiamenti di lavoro durante la propria carriera e l’aumento del lavoro autonomo, lasciano sempre più persone al di fuori delle reti di sicurezza, in situazioni di incertezza economica, precarietà, disuguaglianza, povertà ed esclusione sociale» osserva la Rete europea anti-povertà (European Anti-Poverty Network – Eapn), che ha avanzato alcune raccomandazioni in materia di accesso alla protezione sociale in tutte le forme di occupazione.

La protezione sociale, sostiene l’Eapn, «non dovrebbe essere limitata a coloro che lavorano, ma coprire i rischi di tutto il ciclo di vita, indipendentemente dallo status professionale. Un’adeguata protezione sociale per tutti è la pietra angolare di un’Europa inclusiva nonché di una ripresa sostenibile». Inoltre, «tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo di accordo contrattuale, devono beneficiare degli stessi diritti di lavoro e di una copertura obbligatoria con un’adeguata protezione sociale» e non deve esistere alcun compromesso tra copertura e adeguatezza: «Tutti i benefici devono essere fissati ad un livello che permetta ai riceventi e alle loro famiglie una vita dignitosa, evitando che fornire prestazioni a più persone si traduca in livelli più bassi di sostegno al reddito».