Cinema e lavoro – Emotivi anonimi

Un film di Jean Pierre Améris (Francia/Belgio, 2010)

Milano, 13.5.2020

Regia: Jean Pierre Améris – Soggetto e sceneggiatura: Jean Pierre Amérie, Philippe Blasband – Fotografia: Gérard Simon – Musiche: Pierre Adenot – Montaggio: Philippe Bourquel – Scenografia: Sylvie Olivé – Interpreti: Isabelle Carré, Benoît Poelvoorde, Lorella Cravotta, Lise Lametrie, Swann Arlaud, Pierre Niney, Stéphan Wojtowicz, Jacques Boudet – Produzione: Nathalie Gastaldo, Philippe Godeau – Distribuzione: Lucky Red – Durata: 80′.

Angélique Delange è una maestra cioccolataia con un forte disturbo emotivo: ha paura di tutto, e frequenta un gruppo di sostegno per persone come lei, chiamato Emotivi Anonimi. Jean-René, che possiede una piccola fabbrica di cioccolato, ha anche lui paura di molte cose, ma soprattutto è terrorizzato dalle donne e in particolare dall’intimità con loro.
Nel tentativo di superare le sue paure, Angélique si presenta per un lavoro presso la fabbrica di cioccolato di Jean-René, che la assume come rappresentante di vendita. Angélique pensa stiano cercando una cioccolataia, ma quando scopre il vero ruolo che dovrà ricoprire si sente mancare, perché parlare con le persone è sempre stato un grande problema per lei. Quando si accorge che l’azienda fallirà se la qualità del cioccolato non verrà migliorata, la donna aiuta i dipendenti a creare nuovi prodotti con innovative combinazioni di ingredienti. I nuovi cioccolatini hanno un notevole successo presso la loro clientela maggiore e Angélique e Jean-René vanno ad una fiera internazionale del cioccolato per pubblicizzare i loro prodotti. Nell’hotel viene data loro per errore una camera matrimoniale. In breve i due si innamorano, ma hanno notevoli difficoltà ad esprimere i loro sentimenti, sviluppando la loro relazione in conseguenza delle loro paure. I due passano la notte insieme facendo l’amore e, quando Angélique esprime il desiderio di sposarsi e avere figli, Jean-René scappa dall’albergo in preda al panico. Quando torna, lei è già andata via, intenzionata a non tornare più al lavoro. Il cioccolato di Angelique vince il premio come miglior prodotto alla fiera, e la fabbrica riceve subito molte ordinazioni. I dipendenti della fabbrica accompagnano Jean-René a casa di Angélique, seguendola verso la sede in cui si svolgono gli incontri degli Emotivi Anonimi: sedutosi nel gruppo, lui le rivela che la ama e vuole sposarla, ma lei tentenna. Il suo gruppo di sostegno la incita a buttarsi e seguire i suoi sentimenti. Così i due si riconciliano e tentano di sposarsi, ma fuggono per la paura perfino il giorno delle nozze, questa volta insieme.

Una commedia sull’amore che incontra l’ansia ma anche sulla capacità professionale ed organizzativa delle donne. In questo caso si tratta di una cioccolataia alla quale è affidato il compito di risollevare le sorti di una piccola azienda, in quanto nuova responsabile delle vendite.

LA CRITICA

Le proprietà terapeutiche del cioccolato diventano poteri taumaturgici quando toccano il territorio francese. E quel sapore avvolgente e ravvivante che nelle “favole” cinematografiche scalda il cuore e risveglia la bontà d’animo di ognuno, diviene un vero e proprio deus ex machina quando si dischiude nelle petites villes d’oltralpe. Una presenza densa e burrosa che addolcisce le storie con un tono carezzevole e un retrogusto favolistico.
Rispetto al passato degli anni Cinquanta in cui era ambientato Chocolat di Lasse Hallstrom con la strega Juliette Binoche e lo zingaro Johnny Depp, in Emotivi anonimi siamo formalmente nel presente, ma tutto lascia ancora una volta intendere quella cornice fuori da ogni tempo tipica del realismo magico. A cominciare da due personaggi affetti da una timidezza cronica che non conosce cause specifiche né conseguenze patologiche, ma solo la levità degli imbarazzi più candidi e fanciulleschi. E proseguendo con una storia démodé che è come una scatola di cioccolatini dove sai in ogni momento quello che ti capiterà di vedere, piena di snodi sottilissimi, di incomprensioni prevedibili e di comprimari gentili e senza spessore. Con questo ripieno di ingenuità ricercata e di furbizia nascosta dietro al gusto della giovialità infantile, se Emotivi anonimi alla fine non stucca è solo grazie alla bravura dei suoi due protagonisti, due ottimi caratteristi che riescono a misurare con delicatezza i turbamenti interiori dei loro personaggi e quel dissidio fra desiderio amoroso e chiusura ermetica nelle personali insicurezze. Fra rossori, impacci e goffaggini che la ripetitività delle situazioni potrebbe facilmente far degenerare in una farsa puerile, Benoît Poelvoorde e Isabelle Carré non accumulano ruffianerie ma lavorano su piccoli tic e idiosincrasie, facendo scorrere placidamente verso il finale al sapor di confetto una sceneggiatura assai elementare. Commedia tanto emotiva quanto anonima nello spirito e nella struttura, la fiaba di Jean-Pierre Améris è come se soffrisse di quello stesso eccesso di timidezza che attaglia i suoi protagonisti e avesse continuamente paura di deludere le aspettative di quel tipo di spettatore in cerca solo di addolcirsi la bocca dopo troppe amarezze. Fortuna che i suoi due pasticceri sono meglio della qualità degli ingredienti. (Edoardo Becattini – MyMovies)

Emotivi anonimi narra l’incomunicabilità del nuovo millennio che diventa malattia, ha un’aria sognante e melanconica grazie alla sorprendente, calda fotografia di Gerard Simon che cattura un’atmosfera squisitamente atemporale nella sua modernità. Quello di Jean Renè e Angelique è una dimensione alternativa che li fa assomigliare alla coppia del laccato Chocolat , Binoche/Depp ma con meno glamour e con qualche anno in più. Il modello evidente è la commedia anni ’50 ma aggiornata al nuovo linguaggio multimediale, le gags comiche hanno il compito di stemperare quell’aura patologica che incombe sui due protagonisti, entrambi perfetti per i loro ruoli. Film terapeutico per timidi e solitari, fragile come cristallo , suadente come cioccolato finissimo e leggero che accarezza le papille gustative abbandonandole furtivo senza lasciare retrogusti spiacevoli, Emotivi anonimi è la via alternativa al film di Natale. (bradipo68 – FilmTv)

APPROFONDIMENTI

INTERVISTA A JEAN PIERRE AMÉRIS


Come è nato questo progetto?
Ho la sensazione di averlo sempre avuto dentro. Tra i miei film è sicuramente il più personale e autobiografico. Ho sempre saputo che un giorno avrei raccontato una storia sulla mia iper emotività, sul panico che talvolta mi prende fin da quando ero piccolo.
Mi ricordo che da bambino, quando dovevo uscire di casa, sbirciavo prima attraverso il portone semiaperto per accertarmi che non ci fosse nessuno per la strada. Se arrivavo tardi a scuola, non riuscivo a entrare in classe. E la cosa si è aggravata durante l’adolescenza e questo, tra l’altro, è uno dei motivi che ha scatenato la mia passione per il cinema. Protetto dal buio delle sale, ho potuto finalmente provare paura, tensione, gioia, speranza, ho potuto lasciarmi andare a tutte le emozioni più forti, senza preoccuparmi di essere visto dagli altri.
Eppure ha girato molti film e quella del regista è una figura abbastanza esposta.…
Il mio desiderio di fare film è derivato da questo amore per il cinema, ed è stato proprio il cinema a permettermi di superare le mie paure. Con il tempo ho cercato di trasformare il panico in un alleato. E’ diventato uno stimolo, un motore. E’ così che ho osato girare i miei primi cortometraggi, mettendomi sul serio nei panni di un regista, con tutto quello che comporta. A pensarci bene, mi rendo conto che in effetti la paura è sempre stata una protagonista nei miei film: la paura di impegnarsi in Le bateau de mariage, la paura di lasciarsi andare alla passione per la recitazione in Les aveux de l’innocent, la paura della morte in C’est la vie, la paura della sessualità in Mauvaises fréquentations. Le paure dei miei personaggi sono il prisma attraverso il quale li osservo ma, dato che la mia natura è positiva, mi piace anche raccontare come poi riescono a superarle e ad uscirne.
Ha mai fatto parte degli Emotivi Anonimi?
Nel 2000 ho scoperto l’esistenza di queste associazioni e ci sono andato. Ho anche fatto parte di un gruppo d’ascolto all’ospedale Pitié Salpêtrière. Ho conosciuto altra gente, ho scoperto altre storie e, soprattutto, mi sono reso conto dell’incredibile numero di persone che soffre di questo malessere. Quello che un iperemotivo teme di più è il faccia a faccia, l’intimità. L’idea di mettersi a nudo, in senso proprio o figurato, gli crea uno stato di panico. Sono rimasto molto stupito nell’ascoltare la testimonianza di giovani donne molto belle che erano totalmente angosciate all’idea di un appuntamento; ho sentito uomini, dei quali avrei potuto invidiare l’apparente sicurezza di sé, raccontare fino a che punto l’idea di fare un discorso in pubblico li terrorizzava. Sono rimasto allo stesso tempo stupito e profondamente toccato da queste quotidiane debolezze.


Come definirebbe il profilo tipo di un iperemotivo?
Non è timidezza, è un’altra cosa. Si tratta di persone che vivono in uno stato di tensione semi permanente, divise tra un desiderio fortissimo di amare, lavorare, esistere e qualcosa che le trattiene e le blocca ogni volta. Sono spesso piene di energia, e non sono né depresse né deprimenti. E’ questo loro tipico stato di tensione che mi ha fatto pensare ad una commedia, perché questa cosa le fa trovare spesso in situazioni incredibili. Nei gruppi d’ascolto ho sentito cose decisamente buffe, delle quali finivamo col ridere tutti insieme.
Gli iperemotivi sono talmente pronti a tutto pur di evitare ciò che fa loro paura, che finiscono col ritrovarsi in situazioni complicatissime e davvero grottesche. E quando osano passare all’azione, possono arrivare a fare cose folli. Funzionano come dei motori a scoppio. Uno spunto formidabile per una commedia.


Come si riconoscono?
Non è così facile. Senza saperlo, sono spesso degli eccellenti commedianti. Dato che devono nascondersi, non devono far trasparire le loro paure, sviluppano un’attitudine ad ingannare e a recitare, spesso impressionante. Non è un caso se molti dei più grandi attori sono in realtà degli iperemotivi.
Come ha deciso di trarne lo spunto per un nuovo film?
E’ stato un processo lento, un desiderio che è cresciuto in me nel corso del tempo. C’è una domanda che mi ha sempre tormentato: di cosa abbiamo paura nella vita? Di una punizione, del ridicolo, del fallimento, dell’opinione degli altri? Quando ho girato C’est la vie ho frequentato molte persone che sapevano di dover morire e tutte mi dicevano la stessa cosa: «Che idiota sono stato ad aver avuto paura. Avrei dovuto parlarle, dirle che l’amavo. Avrei dovuto osare. Adesso è troppo tardi. Di cosa ho avuto paura?». E’ un sentimento abbastanza universale. Tutti ci portiamo dento il rimpianto di non aver tentato qualcosa, e spesso è stupido.
Bisogna lanciarsi, non aver paura di fallire, non temere di andare fino in fondo. L’importante non è riuscire o fallire, ma tentare. Abbiamo troppa paura del fallimento. Viviamo in un’epoca in cui bisogna avere successo e questo aggiunge un’ulteriore pressione che non porta a niente. Bisogna riuscire nella vita e nel lavoro, essere belli, giovani, ma tutto questo distrugge la gente. Nessuno può mai essere all’altezza dei modelli che ci vengono propinati. E questa è un’altra cosa che cerco di dire nel film. Avevo voglia di raccontare una storia su questo genere di paure, ma con leggerezza, in modo da infondere fiducia in coloro che, a diversi livelli, si riconosceranno nelle sofferenze dei protagonisti.

Come ha strutturato la storia?
Ho davvero pensato a questo film per anni, e l’ho nutrito degli incontri che ho fatto e della mia personale esperienza. Le cose hanno cominciato a cristallizzarsi quando mi sono reso conto che si poteva affrontare un tema come questo usando la commedia romantica. Il potenziale delle situazioni che possono crearsi tra due persone affette da iperemotività era enorme. Ho cominciato a raccogliere appunti, a documentarmi. Ho anche letto molto, in particolare l’opera di Christophe André e Patrick Legeron La paura degli altri. Alla fine avevo più di cento pagine di appunti e riflessioni, ma è stato incontrare Philippe Blasband, uno sceneggiatore belga, a permettermi di costruire l’intreccio. Gli ho parlato del desiderio di scrivere una commedia romantica su due grandi emotivi che ignorano di avere lo stesso problema, partendo da tutto il materiale autobiografico che avevo.
Abbiamo iniziato subito a lavorare alla storia. Molte delle testimonianze che avevo raccolto nei gruppi di ascolto riguardavano il mondo imprenditoriale e desideravo che l’incontro avesse luogo in un ambiente lavorativo. Poi con Philippe ci è venuta l’idea del cioccolato, forse perché eravamo in Belgio, lavoravamo a Bruxelles in una sala da thé, ma più probabilmente perché il cioccolato non è certo un alimento insignificante. E’ noto per la sua capacità di far sentire meglio le persone, ha un profumo e un sapore legati all’infanzia, e chi soffre d’ansia spesso ne abusa. Da lì l’idea della fabbrica di cioccolato, della quale il protagonista sarebbe stato il proprietario e lei una cioccolataia.