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Cinema e lavoro – Il gioiellino

Un film di Andrea Molaioli (Italia/Francia, 2011)

Milano, 24.7.2020

Regia: Andrea Molaioli – Sceneggiatura: Andrea Molaioli, Ludovica Rampoldi, Gabriele Romagnoli – Montaggio: Giogiò Franchini – Fotografia: Luca Bigazzi – Musiche: Teho Teardo – Interpreti: Toni Servillo, Remo Girone, Sarah Felberbaum, Fausto Sciarappa, Lino Guanciale, Vanessa Compagnucci, Lisa Galantini, Renato Carpentieri, Gianna Paola Scaffidi –Produzione: Indigo Film, Rai Cinema, BIM – Distribuzione: BIM – Durata:110 min.


La Leda è una delle maggiori aziende agro-alimentari del Paese: ramificata nei cinque continenti, quotata in Borsa, in continua espansione verso nuovi mercati e nuovi settori. Quello che si dice un gioiellino. Il suo fondatore, Amanzio Rastelli, padre padrone dell’azienda, ha messo ai posti di comando i suoi parenti più stretti: il figlio, la nipote, più alcuni manager di provata fiducia – malgrado i loro studi si fermino al diploma in ragioneria. Un management inadeguato ad affrontare le sfide che il mercato richiede a Leda. E infatti il gruppo s’indebita. Sempre di più. Non basta falsificare i bilanci, gonfiare le vendite, chiedere appoggio ai politici, accollare il rischio sui risparmiatori attraverso operazioni di finanza creativa sempre più ardite. La voragine è diventata troppo grande e si prepara a inghiottire tutto.

Si scrive Leda ma si legge Parmalat. Il film di Molaioli non è solo la denuncia di uno scandalo ma anche una riflessione sulla furbizia e sulla illegalità oltre alla incapacità di alcuni nostri imprenditori ad essere al passo con i cambiamenti.


LA CRITICA

Poteva sembrare una scelta facile, quella di Andrea Molaioli. Alla sua opera seconda dopo il fortunato esordio de La ragazza del lago, l’ex assistente alla regia di Nanni Moretti, scegliendo di raccontare il crac della Parmalat, poteva dare l’impressione di voler cavalcare l’onda lunga del nuovo cinema di denuncia anti-finanziaria. Quello documentario alla Enron, per intenderci, o fictional come i vari Michael Clayton, The International o persino Duplicity. Ma così come nel suo primo film Molaioli partiva dal genere (rispettandolo) per parlare d’altro, ecco che saranno delusi coloro i quali ricercheranno in questo Il gioiellino l’invettiva, la polemica, la presa di posizione etico-politica. La rivendicazione popolare contro chi ha colpevolmente rovinato un numero elevatissimo di risparmiatore. Perché Il gioiellino non ha – fortunatamente – l’andamento rabbioso e sincopato del film di denuncia, né il ritmo incalzante del finance-thriller: procede invece riflessivo e introspettivo, ovattato; affascinando senza clamori o sacri fuochi, ma al contrario col gelo dei luoghi e delle superfici, con le flebili luci e le complesse ombre dei personaggi. Personaggi piccoli piccoli, borghesi e provinciali nel senso più puro e variegato del termine. Personaggi immersi in qualcosa di più grande di loro, anche se da loro stessi creato, che annegheranno in loro stessi. Personaggi che sono insieme sintomo ed espressione di dinamiche e realtà socio-culturali, addirittura antropologiche di tutto il nostro paese, ben oltre lo specifico finanziario. Certo, Molaioli riesce comunque a ritrarre con dovizia di particolari e sufficiente inventiva gli aspetti cronachistici di quanto commesso da Tanzi, Tonna e resto del management della Parmalat (qui tutti ribattezzati con nuovi nomi, per dare alle vicende un respiro più generico e per ragioni legali). E riesce a restituire con efficacia il senso di una finanza malata, degenerata come un cancro dentro sé stessa, un cancro che poi colpisce il resto della società.
Ma più che quelle che raccontano le collusioni e le concussioni della politica, le truffe contabili e le società off-shore, le follie delle plusvalenze o i valori sepolti in giardino, a colpire de Il gioiellino sono altre scene. Sono le scene che fotografano i modi di fare e pensare (spesso non necessariamente criminali) di certa imprenditoria e di certa provincia italiane, che mostrano la trama di quel tessuto connettivo che, nel bene o nel male, è il nostro paese. Sono le scene dove si parla della pacata ossessione religiosa dell’Amanzio Rastelli di Remo Girone, delle sue passeggiate domenicali con gli omaggi dei concittadini, degli acquisti in pasticceria con la commessa che si affretta ad aprire la porta al “dottore”, dei dialoghi in cui l’imprenditore sostiene che il latte sarà solo e sempre il core business dell’azienda perché lui se lo ricorda quando, durante la guerra, la gente senza una lira al latte non rinunciava. Sono le scene in cui il rigido e scontroso Ernesto Botta di Toni Servillo si lascia andare alle sue piccole e grandi debolezze, dal vino alle donne, nelle quali parla della Leda come della sua azienda, in cui reagisce con testardaggine e contraddittorietà di fronte alla china di crescente illegalità che quell’impresa ha preso senza possibilità di retromarcia. In questo senso, complice la presenza degli stessi collaboratori (da Servillo a Luca Bigazzi, passando per Teho Teardo), possiamo mettere in parallelo l’operazione fatta da Molaioli e Il gioiellino sul caso Parmalat a quella compiuta da Sorrentino e Il divo su quello Andreotti: entrambi i film, con modi e stili diversi, parlano del loro tema, eppure lo trascendono, quasi lo negano, per toccare corde nuove, più umane e più collettive al tempo stesso. (Federico Gironi – Coming Soon)

Dopo aver girato un’opera di genere che parlava d’altro e provava a scrollarsi di dosso l’ovvio di troppo cinema italiano, Molaioli si trasferisce questa volta in Piemonte, dove torna a guardare la provincia come immagine di una società viziata e sofferente. Se La ragazza del lago avviava un’indagine introspettiva a partire da un corpo senza vita annegato e poi abbandonato sulla riva, Il gioiellino si concentra su una corporation affogata dai debiti e poi costretta alla bancarotta. Ancora una volta al centro della vicenda c’è Toni Servillo, gelido, impenetrabile e in statuaria tensione nell’interpretazione di un ragioniere fraudolento e trattenuto da ogni coinvolgimento affettivo. Il prestigiatore di Servillo, al servizio del ‘candido’ imprenditore di Remo Girone, che si è fatto da sé a colpi di latte, pallone e viaggi esotici, è l’anima pulsante di un film che approfondisce il comportamento sociale e privato di un imperatore del latte, dei suoi cortigiani, dei suoi cassieri, dei suoi contabili, dei suoi figli e dei suoi nipoti, la cui determinazione si volge in spregiudicatezza, degenerando in avidità e assenza di scrupoli.
Molaioli dà allora forma antropomorfa all’insieme di teorie e prassi alla base di una politica finanziaria virtuale e drogata dentro la fotografia onirica e ‘fuori fuoco’ di Luca Bigazzi. L’unità del film è data proprio da questa riduzione del plurale nel singolare, che rivela sognatori megalomani sbrigliati in una cupidigia giocata a tutto campo con gusto del rischio e di una sfrontata sicurezza. Figure esaltate e gonfiate come i bilanci certificati sulle loro scrivanie, che anticipano la caduta e tracciano la parabola di un disfacimento morale. Persone prima che personaggi partoriti dalla benevolenza della provincia, che il regista osserva a distanza, senza simpatie o condanne, producendosi in un discorso sulla condizione dell’uomo che non concede tempo alla sua coscienza e intraprende un destino di distruzione. Giocatori d’azzardo che avevano tutto da nascondere e una faccia pulita da ‘dichiarare’. (Marzia Gandolfi – MyMovies)

C’è un’immagine – una sola – che fa venire i brividi in Il gioiellino, il film di Andrea Molaioli liberamente ispirato al crac Parmalat. È quella in cui il personaggio del rag. Ernesto Botta (interpretato da Toni Servillo e modellato sulla figura di Fausto Tonna, collaboratore di Tanzi) viene portato via, nel finale, su un blindato della Guardia di Finanza. Il suo gioco è stato scoperto, il suo cartello di carte false è crollato. Fuori, per la strada, qualcuno urla e insulta. Dentro, nel furgone, c’è penombra. Il collaboratore del ragioniere, con un tono vagamente consolatorio, borbotta qualcosa sugli anni meravigliosi che hanno comunque trascorso insieme. Ma il ragioniere non risponde. Fissa gli occhi nel vuoto e inclina il volto leggermente in avanti, fino quasi a scomparire fra le sbarre, nel buio. Lì, nell’immagine che chiude il film, in quel misto di incredulità e inconsapevolezza, ma anche di oscura e confusa percezione della voragine in cui sta precipitando, il ragioniere di Toni Servillo acquista lo spessore tragico di un personaggio di Balzac. Ma solo lì. Per tutto il resto del film ciò che colpisce, sia in lui sia in Amanzio Rastelli, il personaggio interpretato da Remo Girone e ispirato direttamente alla figura di Callisto Tanzi, è la sostanziale inconsapevolezza con cui giocano sporco con i falsi in bilancio e con i trucchi della finanza dopata. Non c’è traccia, in loro, né della rapacità con cui Oliver Stone aveva disegnato gli “squali” di Wall Street né della spavalderia gaudente e cialtrona con cui Gassman e Tognazzi rappresentavano, in passato, il fascino indiscreto e chiassoso della borghesia italiana. I protagonisti di Il gioiellino sembrano reperti archeologici dell’Italia democristiana. Sono grigi, noiosi, abitudinari. Odorano di naftalina e di sacrestia. Hanno una mentalità impiegatizia tutta dedita al lavoro e basata sulla fiducia cieca nell’azienda e nei suoi “valori”. Fanno tardi in ufficio, non vanno al cinema, li vediamo perfino impiegare il loro tempo serale uno per lavare i piatti nella cucina di casa e l’altro per montare e imbullonare una libreria stile Ikea. Eppure, giorno dopo giorno, cucinano nefandezze finanziarie, vanno su e giù per i bilanci come se fossero montagne russe e allestiscono lo spettacolo della finzione per far apparire finanziariamente sano ciò che in realtà è economicamente al collasso. Ma non si sentono in colpa, mai. Non provano vergogna. Sono in assoluta buona fede. Come il vero Tanzi, quando diceva: “A parte il buco di 14 miliardi, l’azienda è un gioiellino”. Incoscienti? Irresponsabili? Espressione emblematica di certa borghesia italiana o deriva patologica e colpevole di un modello virtuoso di imprenditoria? (E&M – Economia & Management n. 5 – 2011)

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