Cinema e lavoro – Patria

Un film di Felice Farina (Italia, 2014)

Milano, 9.11.2021

Regia: Felice Farina – Soggetto: Enrico Deaglio (dall’omonimo libro) Beba Slijepcevic Felice Farina – Sceneggiatura: Beba Slijepcevich, Luca D’Ascanio, Felice Farina, Dino Giarrusso – Fotografia: Roberto Cimatti – Montaggio: Esmeralda Calabria – Interpreti: Francesco Pannofino (Salvo) Roberto Citran (Giorgio) Carlo Giuseppe Gabardini (Luca) – Produzione: Nina Film, Amaro Produzioni – Distribuzione: Cinecittà Luce – Durata: 87′.

La fabbrica chiude e licenzia, l’ennesima nel torinese. Addio posti di lavoro, addio identitŕ, addio certezze. Salvatore Brogna, operaio, si arrampica sulla torre della fabbrica, per protesta o forse solo per rabbia cieca, minacciando di buttarsi giů. Giorgio, operaio rappresentante sindacale, di carattere e fede politica del tutto opposti, arriva per salvarlo dalla caduta. Il terzo, ipovedente e autistico, custode assunto come categoria protetta, si aggiunge scalando eroicamente la torre per fare loro compagnia. Nell’arco di una notte, abbandonati da tutti, nella disperata attesa che arrivi qualche giornalista, questi tre punti di vista cosě diversi sul mondo ripercorrono gli ultimi trent’anni della vita del Paese, gli anni che li hanno portati su quella torre pericolosa. Anni di occasioni sprecate, di speranze tradite, di crimini e stragi, di ribaltoni e giochi di potere. Li rivediamo anche noi questi anni attraverso il montaggio del materiale d’archivio e, come contraltare di questa danza perversa degli eventi, quasi a rimarcarne l’assurditŕ, rimane il semplice buon senso di tre uomini senza alcun potere, appesi in cima ad una torre, che aspettano qualcuno, chiunque, mentre senza accorgersene costruiscono un’amicizia.

Presentato in prima mondiale alle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia il film ispirandosi all’omonimo libro di Enrico Deaglio,  rilegge le vicende degli ultimi 30 anni con gli occhi dei tre protagonisti. Un racconto, dal punto di vista operaio, dell’Italia odierna come la storia ce l’ha trasmessa

LA CRITICA

La fabbrica chiude e licenzia, l’ennesima nel torinese. Tre uomini, per protesta, per rabbia, per solidarietà, si ritrovano insieme una notte a occupare una torre della fabbrica. Sono Salvatore Brogna (Francesco Pannofino), operaio, Giorgio (Roberto Citran), operaio rappresentante sindacale, e Luca (Carlo Giuseppe Gabardini), impiegato ipovedente e autistico. Tre percorsi, caratteri, visioni politiche, del tutto opposti. Abbandonati da tutti, nella disperata attesa che arrivi qualche giornalista, forse una tv, questi tre punti di vista così diversi sul mondo ripercorrono gli ultimi trent’anni della vita del Paese, gli anni che li hanno portati su quella torre pericolosa. Anni di occasioni sprecate, di speranze tradite, di crimini e stragi, di ribaltoni e giochi di potere. Li rivediamo anche noi questi anni, in una veglia che unisce racconto e memorie d’archivio, documenti e sogni. E come contraltare di questa danza degli eventi, rimane il semplice buon senso di tre uomini senza alcun potere, appesi in cima ad una torre, che aspettano qualcuno, chiunque, mentre senza accorgersene costruiscono un’amicizia. Salvo Borgna, operaio siciliano trapiantato a Torino, sale sulla torre più alta della sua fabbrica quando l’azienda annuncia la chiusura e il licenziamento in tronco dei dipendenti. Giorgio Bettenello, rappresentante sindacale, segue Salvo per impedire che si butti di sotto, e finisce per diventarne ostaggio – o almeno così pensa il padrone della fabbrica. In realtà Salvo e Giorgio, che hanno etichette politiche opposte – Salvo è un berlusconiano e prima ancora un “fascista”, Giorgio un “depresso di sinistra” e prima ancora un “comunista” – sono accomunati dalla disperazione non solo per aver perso il proprio posto di lavoro, ma anche per lo stato in cui il lavoro si è ridotto, negli anni della crisi. Entrambi in qualche modo addebitano la colpa del presente allo sfacelo politico ed etico degli anni precedenti, a cominciare da quel 1978 in cui Moro fu assassinato. Nel ’78 è anche nato Luca Ottolenghi, il guardiano ipovedente e borderline autistico che Salvo soprannomina “assunzione obbligatoria”. Luca, ispirandosi al saggio di Enrico Deaglio Patria (cui è a sua volta ispirato il film), ha memorizzato tutti gli eventi drammatici della storia italiana recente, e procede a ripercorrerli insieme a Salvo e Giorgio, dopo essere salito anche lui in cima alla torre. Noi spettatori a nostra volta rivediamo quegli eventi attraverso immagini tratte dalle Teche Rai oltre che da numerosi altri archivi e dal Centro Sperimentale di Cinematografia. L’idea di Patria è accattivante, e la scelta di rendere protagonisti tre “sfigati di cui non importa niente a nessuno” è nobile. Purtroppo però l’esecuzione filmica della storia è debole e poco chiara nell’identificare un rapporto di causa-effetto fra gli episodi storici e la situazione dei tre uomini sulla torre. Chi non conosce il passato recente dell’Italia – leggi: i giovani – avrà difficoltà a capire a quali eventi e quali personaggi si riferiscono le tante immagini reali che inframmezzano la narrazione fictional creata da Felice Farina come filo conduttore. Le scritte sui titoli di coda come compendio storico-politico arrivano troppo tardi a sostituire un vuoto drammaturgico, così come le ipotesi sul destino futuro dei tre protagonisti fanno venire voglia di vedere quel film, invece di quello che abbiamo appena visto. Se da un lato è interessante dare una struttura teatrale (e specificamente “beckettiana”, cui contribuisce soprattutto lo stralunato personaggio di Luca) ai dialoghi fra i tre, dall’altro sarebbe necessario “usarli” meglio per spiegare i collegamenti fra i vari eventi che hanno portato allo stato di degrado contemporaneo: in questo senso La trattativa di Sabina Guzzanti compiva lo stesso sforzo in maniera più comprensibile ed efficace (benché dichiaratamente di parte). Farina azzecca invece il tono postatomico delle inquadrature (la fotografia è di Roberto Cimatti) e l’accompagnamento musicale straniante (Valerio C. Faggioni), ricco di stridori industriali. Se la narrazione fosse rimasta altrettanto essenziale, sfrondata delle polarizzazioni ideologiche fra i personaggi e della recitazione gridata di Pannofino nei panni di Salvo, Patria ne avrebbe sicuramente giovato. Così invece la sacrosanta indignazione del regista rischia di sconfinare nel qualunquismo e nella banalizzazione di una realtà, ahimé, quotidianamente sotto gli occhi di tutti. (Paola Casella – MyMovies)

Patria, come altre pellicole presentate alla Mostra del Cinema di Venezia (La trattativa di Sabina Guzzanti, Belluscone, una storia siciliana di Franco Maresco, La zuppa del demonio di Davide Ferrario), cerca a suo modo di ripercorrere parte della recente storia del Bel Paese: una virtuale unità d’intenti, quasi a sottolineare l’esigenza comune di una riflessione definitiva e di un cambiamento necessario. Ma se le premesse sono più o meno simili, tanto da restituirci un viaggio quasi orrorifico negli ultimi tre decenni della barcollante Italia (mafia, bombe, stragi, corruzione, decadimento morale et similia), i risultati cambiano visibilmente. Fatale al lungometraggio di Felice Farina (La fisica dell’acqua, Bidoni) è l’idea di costringere il materiale documentario e il relativo lavoro di analisi ed elaborazione all’interno di una cornice narrativa palesemente fasulla, posticcia, smaccatamente didascalica. La messa in scena di Patria 1978-2010 di Enrico Deaglio sembra un’anima divisa in due, inconciliabile, esteticamente divergente. Se da un lato non possiamo che apprezzare il lavoro sui materiali di repertorio, con un sagace utilizzo dell’audio a enfatizzare la già drammatica e a tratti insostenibile portata delle immagini, non possiamo però sorvolare sulla fiction che dovrebbe fare da collante. Lo script firmato da Luca D’Ascanio, Dino Giarrusso, Beba Slijepcevic e dallo stesso Farina si impantana in un meccanico vis-à-vis tra l’operaio berlusconiano Salvatore (Francesco Pannofino), rozzo e dai modi bruschi, e il sindacalista di sinistra Giorgio (Roberto Citran), consapevole e idealista. Ai due si aggiunge il custode ipovedente e autistico Luca (Carlo Giuseppe Gabardini), che sciorina fatti e misfatti dagli anni Settanta a oggi. E così si saltabecca dalla fabbrica che chiude del trio di sconfitti Salvatore-Giorgio-Luca, arroccati in cima a una torre tra la generale indifferenza (dei padroni, delle forze dell’ordine, soprattutto degli organi di informazione), al sequestro Moro, alla piaga dell’eroina che ha falcidiato una generazione, a Gelli, Ambrosoli, Sindona, a Gardini e al Pentapartito, a Tangentopoli e Forlani, a Berlusconi. Il flusso storico è inutilmente inframmezzato, interrotto, condito da parole banali. Patria ci racconta una storia che conosciamo bene, una ferita aperta, oramai imputridita. Sul grande schermo passano volti colpevoli e ripugnanti, sentiamo suoni insostenibili, vediamo immagini dolorosissime. È l’Italia, è il Bel Paese. Siamo noi.
Ecco, questo noi non sembra appartenere nemmeno al berlusconiano Salvatore, tutto tette, culi e pallone. Nella sua inutile e dannosa cornice narrativa, Patria ci racconta una storia fatta sempre dagli altri, dai cattivi, mentre anche l’ultimo dei berlusconiani è uno spirito in fin dei conti puro, tifoso della Nazionale e di Roberto Baggio. E allora abbracciamoci forte forte nel ricordo di quel rigore sbagliato e attendiamo lo stellone. Inconsapevoli e innocenti. Di Patria, presentato a Venezia alle Giornate degli Autori, ci resterà soprattutto l’audio interminabile e lancinante del maxiprocesso a Cosa Nostra, una mirabile intuizione di montaggio, ben più significativa di qualsiasi possibile commento. Quell’audio attraversa immagini di repertorio e sequenze fiction, le sovrasta. E ci perseguita, oggi come domani. (Enrico Azzano – Quinlan.it)

“Non avevo la più pallida idea però di come tutto questo potesse diventare un film. È come fare un film da un dizionario o da una guida del telefono. Oppure bisognerebbe avere grandissimi mezzi e attori, locations, costumi, comparse, budget illimitati e trasformare tutta l’Italia in un teatro, far rivivere Aldo Moro e i ragazzi che lo uccisero, le masse degli operai licenziati dalla Fiat, le migliaia di morti ammazzati di Palermo. E come si fa? Sarebbe come in quel raccontino di Borges in cui si sviluppa talmente l’arte della cartografia, che la mappa di una regione copre una provincia… Felice Farina ha fatto uno splendido lavoro… ha fatto un film “popolare italiano”, come non se ne facevano più da parecchio tempo. Altro grande pregio: l’ha fatto con pochi soldi”. (Enrico Deaglio)