Cinema e lavoro – Osama

REGIA: Siddiq Barmak SCENEGGIATURA: Siddiq Barman FOTOGRAFIA: Ebrahim Ghafori MONTAGGIO: Siddiq Barman MUSICHE: Mohammad Reza Darvishi INTERPRETI: Marina Golbahari, Arif Herati, Zobeydeh Sahar, Mohamad Nader Khadjeh, Gol Rahman Ghorbandi, Mohamad Haref Harati, Khwaja Nader PRODUZIONE: Barmak Film, Lebrocquy Fraser Productions, Nhk, Hubert Balls Fund Of Rotterdam Film Festival DISTRIBUZIONE: Lucky Red (2004) DURATA: 82 Min

Durante la dominazione talebana una bambina, per continuare a lavorare e salvare la famiglia dalla miseria, su consiglio della madre decide di travestirsi da maschio per passare inosservata e non essere discriminata. Il nome che sceglie, assumendo la nuova identità, è Osama. E non dovrebbe destare sospetti trattandosi di quello, evidentemente abbastanza diffuso, del ben più noto terrorista internazionale. Inizialmente il trucco sortisce l’effetto desiderato. E con la complicità di un negoziante la bambina riesce a sfuggire al controllo di un giovane e implacabile sorvegliante talebano del quartiere. Ma, una volta arrestata la madre e rimasta da sola, diventa più difficile e rischioso proseguire con questa finzione. A complicare le cose è il rastrellamento dei minori di sesso maschile, obbligati dai talebani a frequentare la scuola coranica. È qui che, dopo aver destato il sospetto dei coetanei, la bambina viene infine scoperta. In seguito a una punizione comune inflittale dopo lo scontro con un ragazzino, appesa ad una corda e calata in un pozzo profondo la piccola Osama non può trattenere il flusso mestruale. Cosicché viene processata pubblicamente e un anziano talebano, salvandole apparentemente la vita, la conduce nella sua ricca dimora per farla diventare l’ennesima moglie giovane dell’harem. Un destino alla quale l’ex bambina non potrà sottrarsi, nonostante la comprensione delle altre donne vittime della collezione del vecchio padrone.

Importante film non solo in quanto prima opera afgana ma per la rappresentazione della condizione femminile e del lavoro sotto il dominio talebano.

LA CRITICA

Realizzato fortunosamente e grazie al supporto della società di produzione del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, il film (che è l’opera prima di un regista lungamente esule) racconta la confusa stagione di passaggio all’Afghanistan post-talebano, che non vede cancellati per miracolo antichi costumi e recenti terrori, attraverso la vicenda di tre donne: nonna, madre, figlia. Senza un uomo, di uomini in famiglia non ce n’è più dopo la desertificazione della dittatura, le tre donne sono condannate dalla giungla di pregiudizi e proibizioni alla morte per fame. Lo stratagemma è allora quello di tagliare i capelli alla più giovane, vestirla con abiti maschili e ribattezzarla Osama come un Tootsie capovolto e poco da ridere perché abbia la speranza di trovare lavoro e mantenere la famiglia.
Trascinata dalla nuova identità in situazioni e ambienti maschili “Osama” finirà per farsi scoprire, umiliare, condannare alla lapidazione. Che le verrà risparmiata in cambio del matrimonio con un laido, disgustoso mullah. Uno spaccato per niente pittoresco o patetico, anzi molto energico. Un altro tassello di quel dovere della memoria che per fortuna non tutti dimenticano. (La Repubblica)

È una parabola sulla fine dell’infanzia e sul conseguente ultimo atto di una civiltà miope, perché conduce la piccola protagonista a smarrire volontariamente la propria identità in una scuola maschile, ma soprattutto perché ne frustra il maldestro tentativo di amalgamarsi all’altro sesso in concomitanza con la definitiva e fisiologica affermazione della femminilità. Come ne Il cerchio di Ja-far Panahi (fondamentale e innovativo film iraniano implacabile ancorché allegorico sull’Iran), Osama si addentra nei meandri di un sottomondo femminile fatto di rassegnazione, complicità e desiderio impossibile di evadere dalla prigione sessista degli uomini. E dimostra, sin dall’allusione onomastica contenuta nel titolo, che al di sotto della superficie esplorata svogliatamente dai mass media sopravvive a stento una minoranza sessuale e culturale non omologabile all’idea globale (e globalizzata) del complesso della società afgana dominata dalla delirante élite tribale talebana.
La sventurata processione iniziale di donne coperte dal burka è un’immagine fatta di pura angoscia cromatica. L’indumento femminile per eccellenza sotto i talebani non funge più, come con i Makhmalbaf e in generale nell’immaginario occidentale, da simbolo di un’identità preclusa o di una libertà avvilita ma da spettro di una devastazione imminente, su vasta scala. Così come la parabola della piccola bambina ribattezzata Osama ne riassume emblematicamente un tassello coerente e modulare. Barman sa benissimo che i feroci talebani, nel suo Afghanistan attraversato e occupato (non soltanto politicamente ma anche culturalmente) da stranieri, sono solo maschere transitorie di una più lunga, storica e grave oppressione che produce altrettante maschere tragiche riproducibili all’infinito, come il burka o gli Osama bin Laden. La bambina del film, in questa cornice straniante che la annulla come individuo e come soggetto femminile, non è che un punto all’interno di una gigantesca tela. Finge, fugge, mente, si agita per sottrarsi ad una Storia che vede ogni volta avvicendarsi nuovi padroni in un paese funestato da presenze ingerenti. Con essi vengono issati nuovi simboli, imposte nuove leggi, nuove ideologie, nuovi indumenti spersonalizzanti, si fanno strada nuovi leader ora eroi ora terroristi (a seconda di come gira il vento della geopolitica). Lei invece è troppo piccola per farcela, troppo fiduciosa di riuscirci, troppo incauta per evitare di correre rischi. In pratica, troppo piccola, ancorché emblematica. E di sicuro, verosimilmente, non è una portavoce del pensiero fieramente intransigente, femminista e sprezzante degli aristocratici Makhmalbaf o degli occidentali commossi e contriti nella Terra di Nessuno. (Anton Giulio Mancini – Cineforum)