Classici del cinema – Metropolis

Un film di Fritz Lang (Germania 1926)

Milano, 6.7.2020

Regia: Fritz Lang – Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou – Fotografia: Karl Freund, Günther Rittau – Musiche: Gottfried Huppertz, Giorgio Moroder, Peter Osborne, Bernd Schultheis, Wetfish, Alloy Orchestra, Club Foot Orchestra – Interpreti: Alfred Abel, Gustav Frohlich, Brigitte Helm, Rudolf Klein-Rogge, Fritz Rasp, Olaf Storm, Theodor Loos, Erwin Biswanger, Heinrich George, Hans Leo Reich, Heinrich Gotho, Margarete Lanner, Max Dietze – Produzione: Ufa – Distribuzione: Cineteca di Bologna – Durata: 148’.


“Metropolis” è una città del 2000, orgogliosa dei suoi grattacieli e delle sue sopraelevate, abitata da gente ricchissima e in buona parte sfaccendata. Ma sotto le sue fondamenta vi è un’altra città, quella operaia, dove turbe di uomini-schiavi attendono a macchinari giganteschi ed a colossali centrali. Un giorno Freder, il padrone di “Metropolis”, licenzia per negligenza uno dei propri collaboratori, il quale, in un accesso di scoramento, tenta il suicidio, ma John, il figlio del borghese tiranno, lo impedisce. L’uomo svela allora al giovane il mistero della città sotterranea, nella quale John si avventura, da prima incredulo ed attonito, poi sconvolto. Per meglio immedesimarsi nell’inattesa e terribile disumanità di quel mondo, John decide di prendere il posto di un operaio, sottoponendosi così a fatiche e condizionamenti fino allora per lui impensabili: conosce Maria, una bionda e giovanissima ragazza che, nelle catacombe, invita gli operai alla preghiera ed alla sopportazione. Ma notizie sull’apostolato di Maria giungono presto alle orecchie del Potere: il signore di “Metropolis” obbliga allora uno scienziato (Rotwang), che è al suo servizio, di rapire la donna, trasferendone su di un automa le fattezze e l’anima. Con un tale “robot” sarà così estremamente agevole manipolare e dominare la classe operaia. Mentre invano John cerca la ragazza, di cui si à innamorato, la Maria-“robot” si scatena, sobilla i lavoratori e si mette alla loro testa. Tutti la seguono come affascinati dal suo carisma, le fabbriche sono prese d’assalto e danneggiate, finchè un attacco collettivo e decisivo alla più grande delle centrali energetiche provoca il disastroso allagamento dei quartieri dove vivono le donne ed i bambini. (…) Per fortuna la vera Maria, fuggita dalla casa dello scienziato e raggiunta da John, mette in salvo i bambini, ormai quasi travolti dalle acque. Tutti si ritrovano davanti alla porta della Cattedrale. John, assumendosi il ruolo di mediatore e con accanto a sè la giovane donna, persuade il padre che è solo con la comprensione e l’amore che la Mente ed il Braccio potranno operare uniti per una società libera e giusta.


Una rappresentazione della lotta tra bene e male, progresso scientifico e oscurantismo in una città immaginata oltre il 2000 ove la classe operaia è schiava e rassegnata in oscuri sotterranei mentre nel quartiere dei padroni tutto è splendore. Un capolavoro futurista immaginato quando il cinema era ancora muto che ha avuto diverse versioni (compresa una colorizzata) con montaggi anche discutibili e sonorizzazioni differenti.


LA CRITICA

Se il disegno della “ metropoli ” discende dalle visioni futuriste di Antonio Sant’Elia, la disposizione scenografica degli edifici porta il segno delle architetture industriali di Peter Behrens e dei progetti di Walter Gropius nel periodo del “Bau-haus ”. E se al fondo della caotica ideologia di Thea von Harbou agiscono i fermenti del pessimismo spengleriano e del razzismo dei Chamberlain e dei Rosenberg, alla superficie prende forma un modello utopico di organizzazione sociale che in parte li contraddice e in parte li rafforza, avvolgendoli nello spirito di una messianica attesa dell’ordine definitivo. Al disordine endemico della repubblica weimariana Thea von Harbou oppone il sogno di una rigenerazione apocalittica. “Qui” osserva S. Kracauer “la psiche collettiva paralizzata sembra parlare nel sonno mentale con maggior chiarezza del solito. ” Ma Lang, che ha sempre odiato le teorie, si faceva beffe di certi giudizi (Kracauer – spiegò – “ha cercato tutti gli argomenti immaginabili per dimostrare la verità di una teoria falsa”) e difendeva la propria libertà di artista (“la teoria non conta nulla per un creatore, serve per i morti”). Era la libertà di un visionario ossessionato dall’orrore per le forze oscure che si scatenano nella prigione dell’esistenza, di cui forniva un quadro a volte realistico a volte mitico (Der müde Tod, Dr. Mabuse der Spieler, Die Nibelungen), imprimendo allo stile delle immagini ritmi angosciati di una ribellione impossibile. Con Metropolis gli si presentò l’occasione di esporre in dimensioni gigantesche la sua “titanica” utopia di un ordine universale. La U.F.A., che mirava alla conquista dei mercati internazionali, gli mise a disposizione sei milioni di marchi, migliaia di metri di pellicola, centinaia di attori, 30.000 comparse e la possibilità di costruire, negli Studi di Neu Babelsberg, scene colossali. Lang sentì di avere il mondo in pugno. L’utopia poteva finalmente travasarsi nella realtà immaginaria di un film di cui egli era l’assoluto padrone e “creatore”. Che Metropolis sia il prodotto di una lucida esaltazione lo dimostra, più che la storia melensa di Thea von Harbou, la concezione della regia. Le architetture di geometrica imponenza, le macchine mostruose e razionali della città sotterranea, la disposizione e i movimenti di grandi masse inquadrate, i gesti degli uomini ridotti ad automi, i contrasti secchi dei bianchi e dei neri, l’apparato fantascientifico del laboratorio di Rottwang, la tensione di tutte le linee verso l’alto (verso il cielo invisibile dell’utopia): ogni immagine del film rivela la forza di un progetto figurativo e drammatico di allucinata compattezza. È al lavoro la fantasia di un superuomo dell’era industriale. La storia, per contro, è modesta letteratura di appendice. A Metropolis vivono, nel Duemila, due comunità: i padroni alla luce del sole, in una città ipermeccanizzata; gli operai nelle caverne del sottosuolo. Freder, il figlio del signore della città (Fredersen), vede un giorno la liliale Maria colei che conforta gli schiavi delle catacombe. Per amor suo scende fra il popolo che soffre. Si schiera dalla sua parte. Fredersen, che intuisce il pericolo, ordina allo scienziato Rottwang di creare una donna artificiale in tutto simile a Maria. Lo scienziato esegue ma si serve del robot per gettare lo scompiglio fra le masse che, traviate dal fascino della falsa Maria, si ribellano. È la catastrofe, le macchine si fermano, torrenti di acqua invadono i sotterranei. Freder e Maria salvano i bambini dall’inondazione e placano gli animi esasperati degli schiavi. Rinsaviti, i ribelli bruciano sul rogo la falsa Maria e accettano la mediazione di Freder. Il caposquadra e il signore di Metropolis si stringono la mano. “Fra il braccio e la mente – recita la sovraimpressione in chiusura – è necessario un legame. Il legame è il cuore.” Nel 1959, ricordando Metropolis, Fritz Lang (Vienna, 5 dicembre 1890 – Beverly Hills, Calif. 3 agosto 1976) disse: “Oggi non si può più dire che il cuore sia il mediatore fra il braccio e la mente, perché si tratta d’un problema puramente economico ”. In effetti, né il cuore né l’economia furono in gioco allora. Era soltanto la messinscena di un delirio, che aveva richiesto 18 mesi di lavorazione e che ottenne, quando fu esposta (agli inizi del 1927), più dissensi che consensi.
(Fernaldo Di Giammatteo – 100 film da salvare, Mondadori)

Capolavoro del cinema in assoluto e di quello di fantascienza in particolare Metropolis va collocato nella complessità socio-culturale del periodo in cui venne realizzato. La sceneggiatura è di Thea von Harbou, moglie di Lang, e già questo costituisce un elemento di riflessione perché la scrittrice pochi anni dopo avrebbe aderito al Partito nazista mentre il regista, ebreo per parte di madre, lasciò la Germania per raggiungere gli Stati Uniti. Sta in questo ibrido d’origine una delle possibili cause del fatto che Metropolis venisse, ad esempio, pesantemente criticato da un regista come Buñuel e apprezzato invece da Hitler, che vedeva nello sviluppo della trama e, in particolare nel finale, un sostanziale sostegno alla sua ideologia. Al di là delle diverse letture coeve, il film costituisce una pietra miliare non tanto per la vicenda narrata, che ha molti debiti con il teatro (in particolare con quello di Ernst Toller e di Erwin Piscator) e non manca di elementi retorici, quanto per la visionarietà dal punto di vista scenografico. Lang si avvalse della collaborazione di ben tre scenografi (Kettelhut, Hunte e Vollbrecht) ed è grazie alla continua riflessione sull’immagine che la città avrebbe dovuto avere che il film superò qualsiasi aspettativa. Come doveva presentarsi una metropoli in cui dominavano l’oppressione e lo sfruttamento? Quanto il riferimento biblico (e brugheliano) alla Torre di Babele doveva divenire significativo? Come far percepire il trionfo delle macchine come un Moloch assetato di sacrifici umani? Sono tutte domande a cui la visionarietà di Lang e dei suoi collaboratori offre una risposta con un’opera che subì innumerevoli mutilazioni nel corso degli anni ma che ora gode di un restauro filologicamente accuratissimo. (Giancarlo Zappoli – MyMovies)

I DIVERSI METROPOLIS


La prima a Berlino


Il 13 novembre il film riceve il visto di censura (con divieto ai minori) per una lunghezza di 4189 metri, ossia 153 minuti (a 24 fotogrammi al secondo). La prima si svolge solennemente all’Ufa-Palast am Zoo il 10 gennaio 1927. Il romanzo della Harbou esce poco prima, dopo essere stato pubblicato a puntate sul giornale di Alfred Hugenberg, un politico antirepubblicano che sta per mettere le mani sulla Ufa. “Un’eccitazione, una tensione febbrili regnavano nella sala piena zeppa”, scrive Kettelhut, “il brusio si placò solo quando il compositore Gottfried Huppertz sollevò la sua bacchetta e le luci della sala si spensero lentamente, lasciando solo l’orchestra illuminata. Il pubblico dell’Ufa-Palast seguì con passione lo svolgimento del film. A tratti gli applausi coprirono anche la musica. Alla fine gli applausi furono spontanei ed entusiasti. La troupe, in particolare Lang e la Helm, fu più volte richiamata davanti al sipario. L’atmosfera di festa che seguì la conclusione del film fu proporzionata a tanto successo”. Tutta la critica cinematografica si schiera immediatamente a favore o contro il film, soprattutto a proposito dei suoi aspetti sociali e tematici. Sul “Die Weltbuhne” Hans Siemens si fa portavoce dell’intellighènzia per regolare definitivamente i conti con il regista e la sua opera. Accusa indignato Lang di mostrare uomini schiavi mentre è sufficiente premere un bottone per sostituirne una decina, e cita come esemplare la critica feroce di H.G. Wells apparsa sul “New York Times”: “Ho visto recentemente il più stupido dei film”. Sono poche le recensioni che non si fanno beffe del messaggio, se non addirittura dell’intreccio in quanto tale. Poche al contrario quelle che non elogiano la performance tecnica, opponendo per la prima ma non ultima volta Lang alla moglie-sceneggiatrice.


I tagli e l’uscita americana


Rimontato e tagliato di un quarto del suo metraggio originale, Metropolis esce a New York a fine marzo con un durata di 116 minuti. Nel frattempo la Ufa ha stampato una quarantina di copie per le sale di provincia. Poco dopo la direzione dello studio decide di uniformare il film, per la distribuzione in Germania, alla versione americana. Lang non viene consultato. I suoi rapporti con la Ufa sono al punto più basso. Il konzern Hugenberg sta per prendere il controllo della Ufa e Metropolis diventa il capro espiatorio della nuova dirigenza, che dichiara che i cinque milioni spesi per questo film sono in parte la causa delle difficoltà finanziarie della compagnia. Attraverso il suo avvocato Lang esige un giudizio d’arbitrato in tribunale. La domanda non viene accolta, ma la stampa non si fa scrupoli a parlare di cifre di sei e anche otto milioni. Di sicuro le spese eccessive di numerose altre produzioni Ufa dello stesso periodo sono state attribuite a Metropolis. Oggi il costo finale del film viene stimato intorno ai tre milioni. Lang non si è mai espresso sui tagli. Negli anni Sessanta ha detto a Enno Patalas “di non aver mai visto la versione accorciata, e che alcuni tagli avrebbero anche potuto far bene al film”. Da tempo ormai aveva voltato pagina.
Il 5 agosto 1927 la nuova versione passa la censura: dura 118 minuti, 35 in meno rispetto a quella della prima. Esce, in settanta copie, alla fine del mese. Costernato, il critico Balthasar (Roland Schacht) si trova di fronte a due film differenti: “Questo Metropolis non ha nulla a che vedere, neppure lontanamente, con il film che abbiamo visto meno di un anno fa. Quasi tutto il dramma e un gran numero di brillanti inquadrature sono scomparsi”. Menziona le scene all’interno dello Yoshiwara, le scene dentro l’automobile e “una prostituta su un’auto vicina (figura alla Otto Dix, incredibilmente suggestiva e meravigliosamente fotografata)”, lo smilzo (Fritz Rasp) da Josaphat (Theodor Loos). “Hel scompare, cosa che rende grottesca la folle gesticolazione di Klein-Rogge”. È questa la versione che gli spettatori hanno conosciuto per oltre ottant’anni.


Patalas, il ritrovamento argentino e il restauro 2010


Per molto tempo Enno Patalas ha cercato di ricostruire su pellicola, su carta e in un DVD di studio, la versione della prima berlinese. Le sue ipotesi sono state confermate dal ritrovamento in Argentina di una copia quasi completa che ha consentito infine, nel 2010, di realizzare un restauro di 150 minuti diretto da Martin Koerber. Una coerente costruzione ramificata si sostituisce all’intreccio lineare. La struttura a livelli della città è più complessa, la sua gerarchia stratifica il tempo come lo spazio. Sotto la città dei proletari sorgono le catacombe di un tempo dimenticato, dove gli operai si incontrano in segreto; simmetricamente la città alta dei capi è fiancheggiata da un parte da un grande bordello, lo Yoshiwara, dall’altra da una cattedrale medioevale, il solo luogo comune agli abitanti delle due città. L’intervento dell’occultismo medioevale – con una Bibbia miniata, un predicatore allucinato che annuncia l’apocalisse, una danza di morte – risulta meno dissonante. Lang rimpianse di non essersi spinto oltre in questo senso: “In una scena tutti i ponti crollavano, c’erano fiamme ovunque, e da una chiesa gotica fuoriuscivano fantasmi e demoni. Mi sono rifiutato: ‘No, non fosso farlo’. Oggi lo farei, ma a quell’epoca non ne ho avuto il coraggio. A poco a poco abbiamo cancellato tutta la magia, ed è forse per questo che poi ho avuto l’impressione che Metropolis fosse stato realizzato un po’ così, a caso”. La collocazione di questi episodi rimane in effetti poco giustificata, se non fosse che rimandano alla forte impressione suscitata in Lang nel primo dopoguerra da un manifesto sui muri di Berlino che annunciava: “Berlino, il tuo ballerino è la morte”. (Il cinema ritrovato)