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Gertrud

Un film di Dreyer (Danimarca, 1964)

REGIA e SCENEGGIATURA: C. Th. Dreyer (dal dramma Gertrud di Hjalmar Soderber) FOTOGRAFIA: Henning Bendsten, Arne Abrahmsen; SCENOGRAFIA: Kai Rasch; MUSICA: Jorgen Jersild; MONTAGGIO: Edith Schüssel; INTERPRETI: Nina Pens Rode (Gertrud Kanning), Bendtrothe (Gustav Kanning), Ebbe Rode (Gabriel Lidman), Baard Owe (Erland Jansson), Axel Strobye (Axel Nygren), Anna Malberg (madre di Gustav), Edouard Mielche (il Rettore magnifico), Vera Gebuhr (cameriera dei Kanning), Karl Gustav Ahlefeldt, Lars Knutzon, William Knoblauch, Valso Holm, Ole Sarving; PRODUZIONE: Palladium Film; DURATA: 113’.

A Stoccolma all’inizio del secolo, Gertrud, infelicemente sposata con un avvocato con ambizioni politiche, ama un giovane compositore, Jaansson. Quando Gertrud ritrova un noto poeta che aveva amato un tempo questi le aprirà ghli occhi sulla vera natura dell’amore del giovane musicista. Getrud sceglierà infine di vivere sola. Molti anni dopo, ormai vecchia – in un epilogo aggiunto da Dreyer – riceve la visita di un amico psichiatra al quale confida quanta importanza abbia avuto l’amore nella sua vita.

L’ultimo film girato da Dreyer doveva essere l’ambizioso progetto di un film sul Cristo, film del quale Einaudi ha pubblicato la sceneggiatura. L’impossibilità materiale di realizzarlo lo ha dirottato su Gertrud, un film teatrale ambientato nell’alta borghesia dell’ inizio ‘900, che parla di amore e solitudine, rifiutando i compromessi. Ne è nato una specie di testamento di un uomo per il quale il cinema è la meravigliosa forma descrittiva delle persone in cerca di una verità che merita di essere vissuta e raccontata con una essenzialità che sfiora la bellezza assoluta. Un film lento ma tenero nell’indagare l’anima di una donna di fronte all’amore.

LA CRITICA

Importanti le pose dei personaggi nella sorvegliata e classicissima cornice disegnata dalla macchina da presa che sottolinea l’impossibilità dei rapporti tra loro, perché, come dice la frase forse chiave del film: “Esistono solo i desideri dei sensi, il resto è la solitudine delle nostre anime”. Predominano i dialoghi, gli ambienti sono pochissimi e calibrati al millimetro: la casa di Gertrud e del marito, l’appartamento dell’amante, l’Università dove un rito solenne onora il poeta d’amore nel giorno del suo fallimento, e la casa della solitaria e serena vecchiaia di Gertrud. Splendida figura di donna con i suoi sbagli, ma anche il suo coraggioso abbandono di un mondo di gelida onestà e dove la parola è facile paludamento di sentimenti non compresi nella loro assolutezza e confusi con impulsi privi di vera comprensione e autentico inter-esse per l’altro. Facile dire che che la purezza dei sentimenti cozza con ogni istanza del cosiddetto vivere civile e in ultima analisi lo rende impossibile. Ma Gertrud ha capito e agisce di conseguenza. Ha capito anche l’inconsistenza dei travestimenti dei nostri desideri e la loro straordinaria capacità di falsificarsi in splendide vesti, ma, fedele alla sua scelta di amare, si ritira con dignità, testimoniando nella solitudine la sua coerenza che non chiede altro. (Grigiotopo – sito Dbaser)

Dopo Godard, Dreyer; dopo Il bandito delle 11, Gertrud; dopo i fuochi d’artificio, la veglia funebre. Eppure, tutti e due sono modi d’intendere il cinema. Con questo di diverso: che .il primo ci sbriglia e solletica, e il secondo ci blocca e allucchetta; e i vizi del primo derivano da giovanile entusiasmo, e quelli del secondo -da senile sclerosi. Il rispetto dovuto a un maestro che ci ha dato Giovanna d’Arco, Dies irae e Ordet, di fronte a uno scavezzacollo cui dobbiamo tanto meno, non potrà infatti impedirci di dire che al Dreyer di oggi preferiamo il Godard di ieri, perché il regista danese guarda indietro, verso un illusorio matrimonio fra cinema e teatro, e l’autore francese almeno tenta, sia pure con esiti disuguali, di affrancare il cinema da antiche servitù letterarie….. L’ultimo film di Dreyer è forse il sogno di un poeta rapito nell’astratta contemplazione della tragedia, una risposta definitiva al realismo: bisogna accettarla o respingerla in blocco. La tentazione di accoglierla è fortissima, perché tutta percorsa di un brivido magico. Ma per nostro conto Gertrud resta una palinodia del cinema, un rimpianto del palcoscenico. Dite voi se quando l’immagine s’appoggia sulla parola un film può essere un capolavoro. (Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 21/12/1964)

È una riflessione e un testamento artistico (visto che si tratta del suo ultimo film, premiato a Venezia dalla critica), questo di Dreyer: afferma senza spazio per i compromessi quel che nella vita, alla fine, conta. E decide di far passare le sue parole sopra tutto: gli attori dialogano senza guardarsi mai, quindi senza dare intensità ed emozione. (Raffaella Beltrami – Vita.it)

Questo dramma d’anime è l’ultimo film di Dreyer che lo realizzò a 75 anni, portando alle estreme conseguenze l’austerità ieratica del suo linguaggio scarnificato con un’operazione stilistica (inquadrature fisse, piani-sequenza, suono in presa diretta, recitazione quasi atonale) che rimanda al cinema di Bresson e Straub. “Ricorda in follia e in bellezza le ultime opere di Beethoven” (J.-L. Godard). Questa Gertrud _ che di sé stessa dice: “Ho molto sofferto, e spesso ho sbagliato, ma ho amato” _ è il personaggio femminile più forte del cinema di Dreyer e uno dei più grandi del cinema. (M. Morandini)

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