I classici del cinema – La grande illusione

Un film di Jean Renoir (Francia 1937)

Milano, 8.9.2020

Regia: Jean Renoir – Soggetto: Jean Renoir, Charles Spaak – Sceneggiatura: Jean Renoir, Charles Spaak – Fotografia: Christian Matras – Musiche: Joseph Kosma – Montaggio: Marguerite Renoir – Scenografia: Eugene Lourié – Interpreti: Jacques Becker, Julien Carette Cartier, Marcel Dalio, Jean Dasté, Werner Florian, Pierre Fresnay, Jean Gabin, Sylvian Itkine, Gaston Modot, Rita Parlo Elsa, Georges Peclet, Claude Sainval, Michel Salina, Erich Von Stroheim – Produzione: Frank Rollmer e Albert Pinkovich Per Rac (Realisation D’Art Cinematographique) – Distribuzione: Cineteca Griffith – Durata: 113′.

Nel 1917, durante la penultima guerra mondiale, alcuni ufficiali francesi prigionieri sono chiusi in un campo di concentramento tedesco. La loro principale occupazione e preoccupazione è preparare la fuga. Ma quando il lavoro è a buon punto, vengono trasferiti in un altro campo. Questa disavventura capita loro più volte, finchè il comando tedesco, con l’intento di rendere impossibile ogni velleità di fuga, li trasferisce in un vecchio castello, trasformato in fortezza. Comandante della fortezza è un maggiore, ufficiale di carriera, di nobile famiglia, che ha sul corpo i segni di gravi ferite. Egli disprezza i prigionieri di bassa origine e serba le sue simpatie per un capitano di stato maggiore francese, nobile anch’esso.

Il film di Renoir rimane uno dei più importanti manifesti pacifisti della storia del cinema. Quando viene girato metà Europa è occupata dai nazisti ma il regista, pur dando voce alle paure collettive, riesce a descrivere la fine della società aristocratica dando spazio alle persone comuni nelle quali alberga la speranza per il futuro.

LA CRITICA

Un capolavoro di J. Renoir, e dell’umanesimo al cinema. La verità dei fatti, dei personaggi, dell’atmosfera si fa poesia in un accorato messaggio pacifista più che antimilitarista che non trascura le differenze sociali. Scritto da Renoir con Charles Spaak, possiede una generosa ricchezza ideologica che nasce dalla sua ambiguità. Grande galleria di personaggi: P. Fresnay, J. Gabin, E. von Stroheim, M. Dalio. Molte sequenze memorabili tra cui la più famosa è quella dei prigionieri francesi, travestiti da donna che cantano la “Marsigliese”. Premiato a Venezia, fu proibito in Italia e Germania. Insieme a La passion de Jeanne d’Arc (1928) di Carl T. Dreyer, è il solo film francese che figura stabilmente nelle classifiche dei “dieci migliori film della storia del cinema”. Col medesimo titolo The Great Illusion nel 1910 uscì un libro dell’inglese Norman Angell, amico di Bertrand Russell, che s’interrogava sui vantaggi che i vari paesi europei avrebbero ricavato da una guerra tra loro.(Morando Morandini)

Renoir visse con passione l’avventura di questo film “pacifista” (la definizione è sua) girato quando già l’Europa si avviava alla seconda guerra mondiale. La grande illusione  è la parabola di tre personaggi in guerra: il tedesco barone von Rauffenstein, asso dell’aviazione, i francesi capitano de Boïeldieu e tenente Maréchal, aviatori anch’essi. Abbattuti da Rauffenstein in combattimento, BoïeIdieu e Maréchal sono trattati civilmente. Il tedesco li vuole conoscere. Ma le loro strade subito si separano. Gli ufficiali francesi sono internati in i campo di concentramento, insieme a soldati di diverse nazionalità. Maréchal, piccolo borghese patriota (meccanico nella vita civile), ha una segreta aspirazione, quella di evadere e di tornare a combattere. Con un gruppo di compatrioti della più varia estrazione sociale (le caratterizzazioni sono puntuali e spiritose: c’è un artista di varietà, il professore, un ingegnere; e ci sono i loro piccoli problemi, le preoccupazioni per la famiglia, le speranze), organizza un tentativo di fuga. Scavano una galleria sotto la baracca in cui sono alloggiati, superano coraggiosamente i momenti di panico (uno rimane intrappolato sotto terra), giungono quasi ai bordi del campo. Tutto questo mentre continua la vita monotona della reclusione, rallegrata una volta da una rappresentazione teatrale allestita dai prigionieri. Sono i giorni in cui si combatte furiosamente intorno a Douaumont: un manifesto affisso al muro annuncia che i tedeschi l’hanno conquistata. Proprio durante lo spettacolo si apprende che i francesi l’hanno ripresa e Maréchal irrompe sul palcoscenico per dare la notizia e intonare con i compagni la Marsigliese. Il tenente è messo agli arresti. Quando torna nella camera, dopo aver scontato la pena, ritrova gli amici sul punto di evadere. È ridotto assai male; persino Boïeldieu, che l’ha sempre trattato con distacco, si impietosisce. Ma non c’è tempo né per la commozione né per l’ansia della fuga imminente: i tedeschi annunciano loro che saranno trasferiti in un altro campo. In una fortezza inaccessibile ritroviamo Rauffenstein. Comanda un campo di prigionia: ha accettato un mestiere che gli ripugna per poter continuare a servire la patria (è mutilato: un corpetto metallico gli sostiene la colonna vertebrale e sorregge il capo sotto la gola). Gli conducono i prigionieri appena arrivati, fra cui Boïeldieu, Maréchal e l’ebreo Rosenthal. Con il nobile francese ritrova immediatamente quella cordialità che già gli aveva dimostrato. Con gli altri è diverso, sono soltanto nemici. Mostra a tutti la fortezza, luogo tanto isolato e protetto che ogni tentativo di fuga sarebbe una pazzia. Ma Maréchal non si arrende. Occorre una corda per calarsi dai bastioni, e per questo è sufficiente arrotolare le lenzuola. Ma occorre anche distrarre le sentinelle, ed è più difficile. Boïeldieu – che s’è incontrato più volte con Rauffenstein (scambi di cortesie fra i due gentiluomini: “perché mi ricevete nei vostri appartamenti?”, “perché voi vi chiamate de Boïeldieu, ufficiale di carriera dell’esercito francese, e io von Rauffenstein, ufficiale di carriera dell’esercito imperiale tedesco”) – è pronto a sacrificarsi: terrà lui occupata la guarnigione organizzando una sommossa, mentre i due salteranno dal muro. Così avviene. Maréchal e Rosenthal gettano la fune oltre il bastione, Boïeldieu correndo sui camminamenti attira l’attenzione delle guardie. Accorre Rauffenstein, che lo supplica di scendere. Il francese rifiuta, e Rauffenstein è costretto a ucciderlo. Il resto (il lungo episodio finale) ha l’aspetto di una variazione incongrua. Maréchal e Rosenthal, dopo aver vagabondato per strade coperte di neve, trovano ospitalità nella casa di una contadina che ha avuto il marito ucciso a Verdun. Vive con una bambina. Rosenthal non può proseguire, ha una caviglia in disordine. La donna li accoglie umanamente. Fra lei e Maréchal nasce un breve idillio. Maréchal, la notte di Natale, abbraccia la piccola (“Lotte hat blaue Augen” nel suo tedesco approssimativo, che la donna dolcemente corregge: un tocco patetico, inserito con sobrietà in una sequenza poco sobria). Rosenthal è guarito, ora possono partire. Raggiungono la frontiera. Un vasto pendio coperto di neve. soldato tedesco (il fucile in primo piano) sta per far fuoco sui due che arrancano poco lontano “Non sparare” gli dice il compagno, “sono in Svizzera.” La grande illusione (3500 metri, oltre due ore proiezione) fu presentato a Parigi nel giugno del 1937 con molto successo. Alla Mostra di Venezia dello stesso anno fu in predicato per la Coppa Mussolini, ma la giuria, sottoposta alle pressioni dell’autorità, dovette ripiegare su un premio minore, istituito per l’occasione. Nel clima del “fronte popolare”, Renoir ave realizzato, l’anno precedente, La vie est à nous prodotto dal Partito comunista. Dopo La grande illusione, farà La Marseillaise. Nel primo si accosta ai valori della solidarietà di classe, in omaggio alla quale sembra rinunciare alla sua ideologia anarco-borghese; negli altri due fa leva sull’interclassismo, unione di tutte le forze progressive (proletarie e borghesi) per fronteggiare il nemico comune. In questo contrasto si riflettono certo le oscillazioni della politica comunista del tempo, ma sopra tutto i dubbi di una personalità contraddittoria come quella di Renoir, libertario, populista e idealista nello stesso tempo. L’ideologia della solidarietà interclassista è quella che prevale in La grande illusione. Ma altrettanto forte appare il sentimento di rispetto (la nostalgia, forse) per le antiche virtù perdute dell’aristocrazia, per una società dove il piacere della vita si era cristallizzato in forme armoniose. Le pagine migliori del film oscillano fra questi due poli e trovano talvolta un equilibrio che, proprio per essere così precario e complesso, produce una grande intensità espressiva. (Fernaldo Di Giammatteo – 100 film da salvare)

Renoir con questa sua opera raggiunge un enorme successo di pubblico e di critica anche se la sua presentazione alla Mostra di Venezia (nata nel 1932) suscitò un forte disappunto nel regime fascista che intervenne sulla giuria affinché non ricevesse il Leone d’oro (che andò a un altro film francese considerato innocuo: Carnet di ballo di Julien Duvivier). Ciò che dava fastidio era il suo dichiarato pacifismo universale in tempi in cui la seconda guerra mondiale non era ancora imminente ma il nazismo non nascondeva più le sue mire. In La grande illusione però è presente molto più di questo. Certamente il riconoscimento dell’altro al di là della razza e della nazionalità è il fil rouge che attraversa il film. Il legame sentimentale che avvicina Maréchal e la vedova di guerra tedesca Elsa ci parla di esseri umani e non di ‘nemici’. Così come non sono ‘nemici’ ma uomini dotati di un’etica le guardie che non spareranno ai due protagonisti ormai giunti in salvo ma ancora allo scoperto. Va al di là delle all’epoca ormai prossime leggi razziali la solidarietà che si instaura tra Maréchal e il compagno di fuga ebreo Rosenthal (il che gli procurò un duro attacco da parte di Céline in “Bagatelle per un massacro”). In questo film (che Renoir co-scrive e dirige sulla base di conversazioni con il maresciallo Pinsard che, nel corso del conflitto mondiale, gli aveva salvato la vita) il soggetto di base erano inizialmente i tentativi di evasione che avrebbero potuto dar luogo a un succedersi di elementi avventurosi. Non a caso una delle scene visivamente più riuscite è proprio quella di un’ evasione ma quello che rimane come elemento ancor più dirompente (anche se meno appariscente) è la lettura della guerra come rafforzamento delle differenze di classe. L’immediata sintonia che si instaura tra De Boïeldieu e Von Rauffenstein (e che travalica le loro opposte militanze) è dettata dall’appartenenza all’aristocrazia. Maréchal appartiene a un’altra condizione sociale e anche se il senso dell’onore del capitano lo spingerà al sacrificio in suo favore la distanza resterà intatta. Nessuna concessione quindi alla facile retorica da parte di Renoir ma una lucida, anche se emotivamente partecipe, analisi delle dinamiche soci-economiche che che continuano a far sentire il loro peso in ambito bellico.
Ciò accade anche grazie alla partecipazione di Erich von Stoheim caduto in disgrazia ad Hollywood e qui perfetto nei rigidi panni del barone (un ruolo minore nella sceneggiatura originale e progressivamente ampliato proprio in seguito alla sua presenza). (Giancarlo Zappoli – MyMovies)