L’Atalante

Regia: Jean Vigo Sceneggiatura: Jean Vigo, Albert Riéra, Jean Guinée Fotografia Boris Kaufman, Louis Berger, Jean-Paul Alphen  Montaggio Louis Chavance Scenografia Francis Jourdain Interpreti: Jean Dasté, Dita Parlo, Michel Simon, Louis Lefebre, Gilles Margaritis Produzione: Gaumont-Franco Film-Aubert  Durata: 89 minuti.

 

Juliette e Jean (Dita Parlo e Jean Dasté) sono due novelli sposi, a bordo dell’Atalante, nave chiatta lungo la rete fluviale francese, governata di fatto dal marinaio Père Jules (Michel Simon) e dal giovane mozzo. La routine e la noia per la vita in una chiatta subentrano presto alla gioia del matrimonio, mentre Juliette non sa resistere all’attrazione per Parigi e dopo un litigio sbarca e si perde per la grande e luminosa città. Jean, inizialmente in collera, cade in depressione e trascura il lavoro. Père Jules parte per ritrovare Juliette, la ritrova e i due sposi sono nuovamente uniti e felici sull’Atalante.

 

Una pietra miliare nella storia del cinema questa opera di Jean Vigo che fu colpita da censure e difficoltà produttive incredibili come si può leggere nella scheda, che riportiamo, di Diego Capuano. Un film che rappresenta il testamento di un regista, scomparso troppo presto, nato nell’ambito dell’avanguardia ma che sapeva parlare anche allo spettatore tradizionale con i temi dell’amore e della poesia.

 

LA CRITICA

 

J.L.Nounez era un produttore inesperto ma perseverante che puntò su Jean Vigo , nonostante “Zero in condotta”, che sancì la loro collaborazione, era stato censurato a causa delle letture anarchiche scaturite e per aver schernito varie autorità. Si dice che il produttore scelse il soggetto de “L’Atalante” “per il mite populismo e il pericolo apparente che recava in sé”. Le condizioni atmosfere critiche – le riprese si svolsero dal 10 dicembre 1933 a fine gennaio 1934 – e i problemi di salute di Vigo, sempre più incessanti, misero da subito il bastone tra le ruote a una storia complicata, che era soltanto all’inizio del proprio calvario. Il direttore della fotografia Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov, dichiarò che le condizioni meteorologiche vennero esasperate: la nebbia veniva accentuata con il fumo artificiale, la pioggia resa più vivida da proiettori. Si lavorava giorno e notte. Si viveva (e si moriva) per “L’Atalante”. Poco dopo le riprese il regista, molto malato, andò in montagna e il montaggio fu ultimato da Louis Chavance (esperto di montaggio sonoro e imposto dalla produzione): il risultato, eccezion fatta per dei dettagli che sperava di modificare, fu approvato da Vigo, che non vide però altre immagini del film. I distributori e gli esercenti chiesero tagli e modifiche e Nounez, pur contro la sua volontà, fu costretto a cedere. La durata passò da 89 a 65 minuti, il titolo divenne “Le chaland qui passe”, da una canzone di successo dell’epoca, versione francese di “Parlami d’amore Mariù” di C.A.Bixio, portata alla ribalta da Vittorio De Sica. Canzone che venne inserita forzatamente anche nella colonna sonora di Maurice Jaubert. La critica dei distributori e dei gestori fu schiacciante. Dalle testimonianze dell’epoca si parla di un film “confuso, incoerente, volutamente bizzarro, lungo, noioso, per niente commerciabile. Una combinazione di assurdità e di inutilità. Un insieme di bruttura e volgarità”. Uscito in settembre, lo scheletro dell’opera fu un flop clamoroso che restò in cartellone solo tre settimane. Tuttavia le recensioni furono favorevoli e nell’ottobre del 1940 si tentò di rilanciarlo: ripristinato il titolo originale ed eliminata dalla colonna sonora “Le chaland qui passe”. Il montaggio, però, fu ulteriormente rimaneggiato e il disinteresse del pubblico fu totale. Consacrato a classico del cinema nel dopoguerra, a partire dal 1950 verranno attuati tentativi di ricostruzione a opera di Langlois, direttore della Cinèmathèque Francaise. Ma il negativo originale sparì misteriosamente. Nel 1985 la Gaumont comprò Franfilmdis, di Henri Beauvais, appropriandosi così del materiale in giacenza de “L’Atalante”; e nel 1989 decise di rimediare ai propri errori: la resurrezione de “L’Atalante” avviene sotto un logo che un tempo si adoperò per distruggerlo. Dopo un primo restauro ci fu una grande scoperta negli archivi cinematografici britannici: una copia del 1934, mai utilizzata, forse l’unica prima del rimontaggio sacrilego. Alcune immagini non furono montate per mancanza di un concatenamento logico ma oggi è dunque possibile vedere una versione del film che si avvicina molto a quella che aveva in mente Jean Vigo. (Diego Capuano)

 

2° lungometraggio di J. Vigo che, già malato durante le riprese, morì il 5 ottobre 1934 all’età di 29 anni, meno di un mese dopo la 1ª proiezione pubblica del film, tagliato di una ventina di minuti, edulcorato e ribattezzato Le chaland qui passe, dal titolo di una canzone di moda (inserita a forza tra le musiche di M. Jaubert), versione francese di “Parlami d’amore, Mariù” di C.A. Bixio, lanciata da V. De Sica. Dopo essere riapparso in edizioni volenterosamente ricomposte nel 1940 e nel 1950, fu restaurato con scrupolo filologico nel 1990. In contrasto con la maggior parte del cinema francese dell’epoca, è un film di poesia attraversata da bagliori surrealisti (come la sequenza subacquea, resa popolare dalla sigla di “Fuori Orario” su RAI3): il naturalismo zoliano vi si sposa con l’immaginazione lirica dell’invisibile. Fragile, incerto nella sua dolce linea narrativa, qua e là balbettante, è un film arrischiato e trasgressivo di rottura che punta sulla sdrammatizzazione e il rifiuto dello psicologismo, e mette l’accento su momenti privilegiati, particolari curiosi, figure che appaiono e scompaiono senza logica. Per la sua forza erotica ed eversiva è stato accostato a Rimbaud e al primo Céline. (M. Morandini)

 

Se “L’Atalante” non è come molti affermano il più bel film di tutti i tempi, resta il modello di un cinema anarchico che coniuga libertà e poesia (Tullio Kezich – Il corriere della sera – 24/8/91)

 

La storia d’amore –  candida ed eccessiva come ogni storia d’amour fou – tiene insieme tutti i frammenti sparsi dell’immaginazione, consente la girandola visiva, l’obliqua allusività del sogno; talmente centrale e compatta, la storia d’amore, da diventare impercettibilmente qualcosa d’altro, un canto sincopato delle vite ai margini a cui Michel Simon offre la sua faccia da balordo buono e i suoi mille tatuaggi, e che più tardi, nella storia a venire del cinema francese, sarebbe diventato il filone elegiaco dei clochard, sotto i ponti e tetti di Parigi (Vivilcinema 34/35 – 1991)