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Risorse umane

Milano, 22.9.2016
 
REGIA: Laurent Cantet SCENEGGIATURA: Laurent Cantet, Gilles Marchand FOTOGRAFIA: Mathieu Poirot-Delpech MONTAGGIO: Robin Campillo MUSICHE: Philippe Richard INTERPRETI: Jalil Lespert, Jean-Claude Vallod, Chantal Barre’, Véronique de Pandelaère, Michel Begnez, Lucien Longueville, Danielle Melador, Pascal Semard, Didier Emile-Woldemard, Françoise Boutigny, Félix Cantet, Marie Cantet, Sébastien Tauvel PRODUZIONE: Caroline Benjo, Carole Scotta DISTRIBUZIONE: Mikado Film  DURATA: 100 Min
 
Da poco laureatosi a Parigi in economia aziendale, il giovane Frank torna nella natia cittadina della Normandia. Qui lo aspetta una stage dirigenziale nella fabbrica dove ormai da trent’anni il padre Jean Claude lavora come operaio. L’argomento principale attualmente in discussione è quello della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore. Ben accolto dai dirigenti e in particolare dal direttore Rouet, Frank riceve l’incarico di predisporre un questionario sull’applicazione delle 35 ore da sottoporre a tutti i dipendenti. La signora Arnoux, rappresentante dei sindacati, afferma che tale azione è illegale e invita il personale a boicottarla. Ricevuta assicurazione sul corretto uso delle risposte, Frank riesce a farlo distribuire. Una sera Frank si siede per caso al computer del dirigente Chambonne e vede già pronta una lettera di licenziamento da inviare ad un certo numero di operai, tra i quali suo padre.
 
Un film che già rifletteva sullo scontro generazionale di fronte al cambiamento nel mondo del lavoro. La riflessione sulla lotta di classe in un mondo totalmente diverso da quello che il sindacato ancora mitizzava non è stata a suo tempo capita nonostante che il film induca a ragionare sulle potenzialità del sindacalismo. “Risorse Umane” è stata l’opera prima importante di un regista che, due anni dopo, ritornerà a parlare di lavoro e del dramma della disoccupazione con “A tempo pieno”. Il film si inserisce nel dibattito sulle 35 ore francesi (allora un modello anche per il nostro sindacato) ma mostra anche i limiti di una contrattazione ancora ideologica di fronte ad un padronato cinico soprattutto quando deve scaricare le crisi sui lavoratori. Un film che andrebbe analizzato nei corsi di formazione sindacale e proiettato a scuola prima dell’invio degli studenti negli “stage” aziendali.
 
LA CRITICA
 
…Un melodramma familiare senza lacrime e una storia operaia senza ideologia. Dai due elementi che compongono ‘Risorse umane’ di Laurent Cantet – l’opera prima che al Festival Cinema Giovani di Torino ha vinto il premio Cipputi e da gennaio con imprevedibile successo ha conquistato i cinema (e i critici) francesi – esce un film interessante, semplice e severo, che ha la qualità di porre dei problemi senza pretendere di dare delle soluzioni. E che (sgomberiamo subito il campo dall’equivoco) ‘non’ ha come tema le trentacinque ore, usate piuttosto come sfondo e pretesto: ma il cambiamento sociale, lo scontro tra due generazioni, la fine – o la crisi- dell’ideologia operaia e delle battaglie sindacali. Se con ‘Marius et Jeannette’ la dimenticata (dal cinema e non solo) classe operaia era raccontata attraverso una favola anarchica, e con ‘Rosetta’ i disoccupati e i precari sono stati guardati da un partecipante obiettivo neorealista, ‘Risorse umane’ (la locuzione con cui ci si riferisce al “personale”) è invece, sotto lo smalto di una messinscena semplice e classica, quasi un documentario – o almeno ne ha la precisione e l’aria di autenticità”. (Irene Bignardi, ‘la Repubblica’, 3 marzo 2000)
 
“Al di là del tema, che Cantet e lo sceneggiatore Gilles Marchant affrontano in modo il più possibile dialettico ed equidistante, colpisce di ‘Risorse umane’ la profondità con cui è descritto il contesto sociale e umano della vicenda. Il personaggio del padre (il non-professionista Jean-Claude Vallod, straordinario) è bellissimo e racchiude in sé tutte le dolorose contraddizioni di una generazione che ha lottato pensando più ai propri figli che a se stessa. Se avete il vago sospetto che le nuove tecnologie non siano sempre ‘umane’, e che la classe operaia, checché se ne dica, esista ancora, non esitate: questo è il vostro film”. (Alberto Crespi, ‘L’Unità’, 4 marzo 2000)
“Fiction e documentario si sposano con equilibrio in questo film dell’esordiente Laurent Cantet, dove l’utopia per un avvenire migliore si scontra duramente con l’interesse e il cinismo del capitale, provocando anche profondi contrasti familiari“. (Fabrizio Liberti, ‘Film Tv’, 6 marzo 2000)
 
” ‘Risorse Umane’ potrebbe sembrare un documentario nobilmente impegnato sul fronte sociale: ma non é così. Se ambienti e personaggi sono presi dal vero, salvo Frank, la credibilità del film non dipende solo dalla naturalezza di Cantet; ma dal modo sensibile e mai stonato con cui il cineasta imbastisce il tessuto delle emozioni delineando, soprattutto nel rapporto generazionale padre-figlio, una situazione umana che ci riguarda tutti”. (Alessandra Levatesi, ‘La Stampa’, 12 marzo 2000)
 
“Dopo anni di astinenza, la classe operaia va in Purgatorio nel bellissimo film di Laurent Cantet ‘Risorse umane’ in cui un padre pensionando e un figlio manager si giocano affetti e sindacato sulle 35 ore alla francese. Girato con attori presi dalla fabbrica il film mescola genialmente fiction, documento e poesia senza retorica. Film diverso e coraggioso: merita di essere visto, pensato”. (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 18 marzo 2000)
 
 La forza di Risorse umane consiste nell’aver calato le problematiche civili e sociali nel seno privato ed intimo delle relazioni familiari, penetrandovi con pochi tratti sfumati (alcune brevi sequenze della vita nei modesti spazi domestici; la piccola cerimonia della cena coi genitori che prelude al licenziamento del padre). La scelta di una località marginale come sfondo della storia (una cittadina provinciale), conferisce una verosimiglianza quasi documentaristica alla vicenda (ricordiamo che, a parte il protagonista, gli interpreti sono tutti non professionisti). La dinamica di disvelamento delle maschere dei personaggi, che consegue al ribaltamento della situazione, non avviene secondo banali manicheismi perché il padrone non perde la sua attitudine paterna (quando caccia violentemente Frank dalla fabbrica dopo il “tradimento”, sembra sconvolto dal dolore della delusione che ha subito) ma è il codice della pragmatica iniquità cui egli obbedisce (e al quale Frank dovrebbe aderire per integrarsi definitivamente nell’universo dei padroni), ad emergere nella solita brutale, sbrigativa efferatezza della storia delle società industriali.

 

Il “gran rifiuto” di Frank (che, ricordiamolo, non avviene in nome di ideali teorici ma quando la manovra di licenziamento viene a colpire suo padre) costituisce una disobbedienza non soltanto al padre “adottivo” ma anche a quello effettivo. È un rifiuto che conduce al definitivo scambio dei ruoli: ora è il figlio a diventare padre di suo padre, a spronarlo a rivendicare il proprio arbitrio nel corso del magnifico, crudele monologo in cui gli rinfaccia la sua ignavia e lo rimprovera di avergli inculcato il sentimento di vergogna per l’appartenenza alla classe dei non privilegiati, umiliandolo davanti agli altri operai per impedirgli di accettare passivamente l’umiliazione del licenziamento. (Roberto Chiesi SegnoCinema n. 102)
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