I protagonisti: Mario Iridile

Milano, 18.10.2006

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006.

Sono nato a Verona il 27 maggio 1936, primo dei 4 figli di Margherita e Giovanni, quest’ultimo scomparso. La nostra era una famiglia povera: la storia della mia infanzia è infatti abbastanza tribolata. I primi anni di vita li ho trascorsi in collegio, tra Verona e Salò sul lago di Garda. Di salute gracile – all’epoca si mangiava poco e male essendo in piena guerra – rientrai in famiglia agli inizi del 1944. I miei si erano stabiliti a Mantova: ricordo che abitavamo in un monolocale in città, insieme ai nonni paterni, lui di area popolare, lei socialista. Mio padre, essendo antifascista, ebbe non pochi problemi a trovare lavoro perché non voleva prendere la tessera del partito. Mia madre, invece, forse perché aveva lavorato come domestica a Roma, mentre io ero in collegio, era di idee monarchiche.

Sono rimasto a Mantova un po’ di tempo, fino a quando sono cominciati i bombardamenti. La nostra casa si trovava nelle vicinanze di un importante snodo ferroviario, una zona pericolosa, quindi fummo costretti a sfollare in campagna, presso parenti contadini. Trascorsi anche un certo periodo ospite di una parente della nonna, a Castiglione Mantovano, una frazione di un comune a una ventina di chilometri da Mantova. Il papà faceva il commesso in città, in un negozio di pezzi di ricambio per macchine agricole, mentre la mamma era operaia in uno stabilimento tessile. Nel 1945 tentai di iniziare ad andare a scuola: le traversie dell’infanzia mi avevano, infatti, impedito fino ad allora di avere un’istruzione; a quasi dieci anni non sapevo né leggere, né scrivere. Un anno dopo, nel 1946, finalmente ritornato a casa, in città, cominciai ad andare a scuola. Quei mesi furono come di assestamento, avevo bisogno di trovare una mia identità, una mia normalità. Nel 1948 ho iniziato a fare un po’ di vita associativa nella parrocchia di San Leonardo. Andavo a messa, cantavo nel coro, partecipavo all’attività promozionale che la parrocchia sviluppava a favore del quartiere. Un quartiere segnato dalla guerra, abitato da gente povera: operai, vedove, orfani, anziani. Lì comandavano i comunisti, ma io non ho mai avuto problemi con loro. C’era un clima di grande solidarietà e rispetto. In quel periodo facevo le elementari e al pomeriggio lavoravo come apprendista in una sartoria. Quei pochi soldi che guadagnavo aiutavano la mia famiglia ad andare avanti. Erano momenti duri, di vera povertà, anche perché mio padre era stato licenziato. Io, intanto, partecipavo con grande fervore alla vita parrocchiale e religiosa, tanto che nel 1950 entrai in seminario. In parrocchia sono anche venuto a contatto con il Patronato Acli. Quando tornavo a casa dal seminario, soprattutto d’estate, lavoravo per loro, facevo segretariato sociale. Ero un ragazzino un po’ impertinente, con una gran voglia di fare e di imparare. Tra il 1954 e il 1955 uscii dal seminario: ancora oggi mi domando se la scelta di entrarci fu dettata da vocazione autentica, dalla voglia di avere un riscatto culturale o dal desiderio di scappare dalla povertà. Fatto sta che ne venni fuori. Nel 1955 ricominciai a studiare e presi la licenza di terza media. Nel frattempo, sempre per dare una mano in famiglia, facevo lavoretti saltuari: dal falegname, al lucidatore di macchine, al facchino. Insomma, quello che capitava. Volevo anche rendermi autonomo. Dopo la terza media mi iscrissi a ragioneria, ma abbandonai dopo qualche mese. Nel frattempo il Patronato Acli mi propose una collaborazione a tempo pieno: accettai pensando di combinare studio e lavoro, ma poi, constatata l’impossibilità a conciliare entrambe le attività, abbandonai la scuola privilegiando il lavoro. Mi buttai in questa esperienza anima e corpo. Divenni anche delegato giovanile delle Acli e cominciai a partecipare ai corsi di formazione di base, soprattutto a quelli organizzati a Milano da Luigi Clerici. Nella bella stagione andavo a Monguzzo, alla scuola estiva dell’organizzazione e frequentai anche un corso lungo a Roma. Fu una fase importante della mia vita, in quel periodo acquisii un certo bagaglio culturale che mi fu molto utile nelle tappe successive, tanto che privilegiai l’attività formativa anche quando approdai alla Cisl, in particolare al centro studi di Firenze. Attività formativa intensissima, che mi consentì di essere fra i pochissimi a livello nazionale a partecipare al primo corso di tipo universitario di politica economica per quadri dirigenti che ebbe luogo tra l’aprile del 1979 e il febbraio del 1980 a Firenze. Il corso fu presieduto e organizzato dal professor Mario Romani, preside della facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e annoverava come docenti Guido Baglioni, Luigi Paganelli e il futuro rettore della Cattolica Sergio Zaninelli. Lavorai a Mantova fino al 1961, poi venni trasferito al patronato di Venezia. Subii questo trasferimento come una punizione per un articolo che avevo scritto sulla Gazzetta di Mantova. Allora all’interno della Dc si dibatteva sull’opportunità di costituire o meno un governo di centrosinistra. Io mi schierai per il “si” e lo dichiarai apertamente sull’articolo in questione. La cosa non piacque in certi ambienti ecclesiastici e così nel giro di 24 ore mi trovai in laguna, dove rimasi fino al 1964. In realtà, a parte un impatto iniziale un po’ traumatico, fu anche quello un periodo fecondissimo, ricco di incontri e di esperienze che mi fecero maturare. Uscire dalla realtà un po’ provinciale, angusta e contadina di Mantova mi fece bene.

Segretario della Fisba
A quegli anni risalgono anche i primi contatti con la Cisl. Prima della trasferta in Veneto l’allora segretario mantovano Mario Morra mi aveva infatti proposto di passare dal patronato Acli all’Inas, ma la cosa non andò in porto. Per qualche anno non se ne parlò più finché nel maggio del 1964 incontrai ancora Morra a Mantova. Io facevo il pendolare da Venezia tutti i fine settimana, perché nel frattempo a Mantova avevo messo su famiglia (nel 1962 mi ero sposato con una ragazza del posto, Elisa Salzano, e nel 1963 era nato il nostro primo figlio, Roberto). Insomma, incontro Morra che mi chiede come va, come non va, cosa fai e via dicendo. Prima di salutarci mi invita a partecipare ad un convegno della Fisba, la categoria dei braccianti agricoli, in programma il giorno successivo (era domenica) nella sede della Cisl, in via Sant’Agnese. Accetto e ci vado. Mi rivedo con Morra che mi presenta l’onorevole Amos Zanibelli, democristiano, parlamentare della zona e segretario generale nazionale della Fisba. Facciamo una chiacchierata a tre e l’onorevole mi dice: <<perché non fa qualcosa per noi?>>. Senza nemmeno darmi il tempo di pensarci mi portano nel salone del convegno, dove vedo molte facce conosciute, tra cui alcuni ex aclisti che dopo essere usciti dalle Acli avevano fondato l’Inas in provincia. Saliamo sul palco e Zanibelli mi presenta: <<Cari amici, ecco a voi il nuovo segretario della Fisba di Mantova!>>. Dall’oggi al domani la mia vita cambiò radicalmente. Venni assunto come operatore sindacale a tempo pieno. Presi servizio l’1 giugno 1964. Allora alla Fisba lavorava un certo Veronesi, non ricordo più il nome, di Ferrara. Dopo qualche giorno mi diede una copia del contratto dei braccianti salariati e mi disse: <<Vado qualche settimana alle terme, ci rivediamo al mio ritorno>>. Non lo vidi più. Di fatto la Fisba divenni io. In quei tempi l’organico della Cisl era sparuto: oltre a me c’erano Morra, segretario generale; Sergio Truzzi, jolly e operatore a tempo pieno; Pino Colautti, che veniva dal centro studi di Firenze; e un’impiegata, Irma Dal Zoppo. La Fisba, con circa duemila iscritti, era il sindacato di categoria più forte. Nel complesso a Mantova l’organizzazione contava circa 7mila adesioni. Con la Cgil non c’era paragone: loro solo tra i braccianti salariati avevano circa 15mila iscritti. Ma era una Cisl rispettata, sia per come faceva sindacato, per le sue capacità organizzative e contrattuali, che per il ruolo politico: Morra era molto vicino alla sinistra Dc di Forze nuove. Io divenni ufficialmente segretario generale della Fisba nel 1965. Il primo anno fui stipendiato direttamente dalla struttura nazionale. Ricordo che mi diedero anche 600mila lire per comprare una Fiat 600: la macchina era una necessità perché dovevo girare molto per i paesi e le campagne. La mia segreteria era composta da Adelino Piovani, Anselmo Ghidetti, Livio Pantaleoni: tre lavoratori agricoli, grandi amici e collaboratori. Per me era come entrare in un mondo nuovo, sconosciuto: dovevo imparare tutto. Il primo problema che dovetti affrontare da segretario fu il rinnovo del contratto provinciale di lavoro dei braccianti e salariati agricoli, scaduto da tempo. Non era una cosa da poco, dal momento che io quasi non conoscevo neppure i diversi profili professionali interessati. A qui tempi ogni sigla presentava la sua piattaforma. Io mi diedi da fare per trovare un’intesa su una piattaforma unitaria, con delle richieste omogenee: così mi incontrai con i colleghi di categoria della Cgil, guidata da Alberino Fornasari, che poi divenne segretario generale della Camera del lavoro mantovana, e della Uil, che era stata fondata da Renato Zucchi, mio predecessore, poi fuoriuscito, alla Fisba. La cosa funzionò e arrivammo ad un accordo che ci permise di fare il contratto: erano gli inizi del 1965. Negli anni del dopoguerra Cgil e Cisl non si parlavano neppure. Il mantovano era una zona “rossa” e la Cgil era fortissima. La Cisl era considerata filo-padronale e i suoi iscritti dei crumiri, spesso oggetto di scherno, se non di violenze. Quando sono arrivato io la fase più dura era stata in parte superata: io ho sempre cercato di mantenere dei rapporti corretti, di tenere aperta la porta al dialogo. A metà degli anni ’60 incominciai ad organizzare la categoria, a mettere ordine nella struttura. Mi impegnai per trovare nuovi attivisti, nuovi operatori e per costruire le leghe dei braccianti salariati in tutti i paesi del mantovano. Le leghe erano fondamentali perché permettevano di entrare e radicarci nel territorio. Insieme a Colautti lavoravamo per creare il tessuto del gruppo dirigente. La Cisl mantovana aveva grandi opportunità, soprattutto dov’era più scoperta, come nei settori meccanico, alimentare, tessile-abbigliamento e scuola superiore. Io continuai a lavorare sul territorio, Colautti si buttò sui meccanici. Furono anni di semina, di lavoro intenso alla ricerca di nuove leve, di nuove risorse. Nel 1967, per una manifestazione della Fisba, riempimmo il teatro Ariston con 1.500 persone: quell’iniziativa fu il segno che c’eravamo. Il 1969 trovò una Cisl mantovana attrezzata ad affrontare la stagione difficile che si stava prospettando. Nel giro di pochi anni arrivammo a circa 15mila iscritti, tra cui tanti giovani di tutte le categorie. Da segretario della Fisba, cominciai a collaborare con altre strutture della Cisl: il cosiddetto “autunno caldo” lo feci davanti ai cancelli della Marcegaglia, una fabbrica metalmeccanica controllata sindacalmente dalla Cgil. Fu anche quello un segnale. E non fu l’unico. In quell’anno, infatti, il sindacato si spaccò sul contratto provinciale dei braccianti salariati, che venne firmato dalla Cisl e dalla Uil, ma non dalla Cgil. Il tutto fu determinato da un problema interno alla Cgil di Mantova, in cui era in corso un riassetto dei vertici. Ricordo che in quegli anni celebrammo per la prima volta la festa del Primo Maggio, fino ad allora monopolio della Cgil. Tenemmo il comizio sul sagrato antistante la chiesa di Campitello di Marcaria, un paese della provincia, poco dopo la fine di quello della Cgil. Il rapporto con la Camera del lavoro venne, sia pur faticosamente, recuperato nel 1971 quando, sempre in occasione del rinnovo di un contratto provinciale, siglammo un accordo molto innovativo, oserei dire un accordo-pilota: per la prima volta in Italia, in un contratto non si parlava più di braccianti e salariati, ma di operai agricoli. Attenzione, non è la forma che cambia, ma la sostanza. Di fatto il lavoratore dell’agricoltura venne parificato, nei diritti e nelle tutele, a quello dell’industria. Fino ad allora, mi riferisco a chi lavorava nei campi, era, sostanzialmente, uno stagionale che veniva molto utilizzato in certi periodi dell’anno e poco o nulla in altri, durante i quali non veniva neppure pagato. Oggi si direbbe che era un precario: con quell’accordo, che prevedeva un’articolazione flessibile degli orari (più ore in estate, meno in inverno), stabilimmo contrattualmente la sua trasformazione in lavoratore dipendente a tempo indeterminato, che aveva diritto a ricevere il salario tutto l’anno. La situazione non era allegra neppure per gli addetti alle stalle, che invece lavoravano 365 giorni all’anno, senza possibilità di chiedere riposi, e che potevano essere licenziati in ogni momento ed erano pagati a cottimo. Anche per loro furono studiate delle soluzioni che ne migliorarono profondamente le condizioni di vita e di lavoro. Nei fatti fu una vera e propria rivoluzione, anche culturale, che contribuì a contenere la fuga dei giovani dalla campagna, attratti com’erano dall’industria con il suo stipendio sicuro e i suoi orari prestabiliti. La strategia d’azione fu concordata con tutti i segretari della Fisba della Lombardia, mentre non mancarono delle resistenze da parte della Cgil, da sempre sospettosa e riottosa verso ogni cambiamento. Per giungere a questo risultato fu comunque necessario dare il via ad una lunga e intensa mobilitazione, ricca di scioperi e manifestazioni. E a dimostrazione che si trattò di un’iniziativa di indubbio significato c’è il fatto che fummo chiamati a far parte della delegazione trattante per il contratto nazionale, che, infatti, recepì le istanze inserite a livello provinciale.

Dall’unità sindacale ai contrasti interni
Era quella mantovana una Cisl molto innovativa, molto attenta nell’interpretare i cambiamenti in atto nella società e nel Paese. Una Cisl giovane, leggera, priva di apparati burocratici pesanti. Agli inizi degli anni ’70 la Cgil era costretta a seguirci, a starci a ruota. Eravamo noi a condurre il gioco. Quel periodo va ricordato anche per il varo dello Statuto dei lavoratori. Un provvedimento importante che, però, poteva fare sentire i suoi effetti quasi esclusivamente sul settore industriale, dal momento che la stragrande maggioranza delle imprese agricole aveva meno di 15 dipendenti. In risposta a questa iniziativa il mondo dell’agricoltura, con il contributo dei sindacati e delle aziende, mise in piedi la Cassa dei lavoratori agricoli. Nata a Mantova nel 1971, la Cassa rappresentava una vera novità, che venne poi estesa al resto della Lombardia. Ciò grazie anche alla spinta della Fisba che aveva un coordinamento regionale di categoria all’interno del quale si discutevano le varie proposte e iniziative da mettere in campo. Questa intesa segnò una svolta nelle relazioni sindacali. In quel periodo si infiammò anche il dibattito sull’unità sindacale, che poi nel 1972 sboccò nella costituzione della federazione unitaria con Cgil e Uil. Da noi, a rappresentare nella neonata Federazione la Cisl, venne staccato il collega Sergio Truzzi. Fu un’esperienza certamente interessante, che si chiuse ufficialmente nel 1984 con lo scontro tra le confederazioni sul referendum per l’abrogazione della scala mobile, ma che si esaurì di fatto già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. La Cisl mantovana era schierata per il “si” all’unità sindacale; così come la Fisba locale, al contrario di quella regionale e nazionale che erano schierate per il “no”. Dalle mie parti mi chiamavano “il Carniti” della Fisba. Era quella mantovana una Cisl coesa. Questo clima interno di unione si ruppe, però, sul finire degli anni ’70. Nel 1977 l’organizzazione arrivò spaccata al congresso territoriale. Era la prima volta nella sua storia. Da una parte c’erano quelli che spingevano per il rinnovamento, che si ponevano come alternativa allo status quo, dall’altra la vecchia guardia. Io capeggiavo i rinnovatori, tra cui vi erano i giovani e le categorie più avanzate, come i meccanici; mentre i conservatori, come il pubblico impiego e gli edili si raccolsero attorno al segretario generale Morra. Il tema centrale della discussione era ancora quello dell’unità sindacale. Io, che pure ero stato a favore dell’unità sindacale, volevo una Cisl protagonista, non subalterna alla Cgil. La federazione ha senso se lavora in un clima di dialogo, di collaborazione e di rispetto delle rispettive identità. Non accettavo che la Cgil imponesse il suo volere, che poi era quello del Pci, sulle altre organizzazioni. Non accettavo che la Cisl prendesse ordini dalla Cgil. Morra, invece, era su posizioni più morbide, non voleva uno scontro con la Cgil perchè riteneva l’unità sindacale un bene prezioso per raggiungere il quale valeva la pena pagare qualche prezzo. Alla fine si andò alla conta e il gruppo di Morra, che venne riconfermato al suo posto dal successivo consiglio generale, vinse la battaglia con il 51% dei voti. Un distacco stringatissimo rispetto al nostro 49%, ma sufficiente a prevalere. La nostra risposta non fu, però, l’Aventino. Non scappammo, ma cercammo di mantenere uno spirito costruttivo. Sostanzialmente venne concordato un periodo di transizione, durante il quale ci demmo da fare per gestire al meglio l’organizzazione. Nel congresso io entrai a far parte della segreteria dell’Unione, dove fui delegato alle politiche territoriali. Il periodo di transizione durò fino al gennaio 1980 quando presi il posto di Morra e divenni segretario generale della Cisl di Mantova. Con la mia elezione la spaccatura fu ricucita. La nuova segreteria era composta dal sottoscritto, da Francesco Lina (proveniente dai meccanici), Silvano Maffezzoni (edili), Carlo Orlandini (pubblico impiego), Luigi Tosi (lavoratori agricoli). Nel complesso sono rimasto segretario generale per due mandati, fino all’ottobre del 1988. Alla fine del primo mandato, la segreteria venne ridotta a tre componenti: Lina diventò aggiunto, restò Orlandini, mentre uscirono Maffezzoni e Tosi. Questa scelta si spiega con due ragioni, una politica, l’altra operativa. Quella politica è che il tema dell’unità dell’organizzazione non era più così all’ordine del giorno e quindi non si sentiva più l’esigenza di avere una segreteria rappresentativa di tutte le posizioni in campo; la seconda, operativa, era che si avvertiva il bisogno di rinnovare e riorganizzare la classe dirigente e l’organigramma della Cisl: Tosi andò a fare il segretario generale della Filca, mentre Maffezzoni prese la guida del coordinamento sanità. La decisione di creare un segretario aggiunto si spiega con la mia volontà di indicare un successore, una volta terminato anche il secondo mandato. Successore che sarà, appunto, Lina. Con l’elezione a segretario generale entrai a far parte, primo rappresentate della Cisl mantovana, del consiglio generale della Cisl confederale. Inoltre, sempre nel 1977, subentrai a Truzzi nella federazione unitaria. In quegli anni la federazione si occupò principalmente di tre grossi temi: il riassetto della politica ospedaliera in provincia di Mantova; il problema energetico, con la diatriba tra la scelta se puntare sugli impianti termoelettrici o su quelli nucleari (nel mantovano, a Ostiglia, Sermide e Ponti sul Mincio erano già attive tre centrali termoelettriche e si discuteva di un sito per una centrale elettro-nucleare); la questione agroalimentare. Ricordo, a proposito di quest’ultimo aspetto, che organizzammo con la federazione unitaria regionale un grosso convegno dal quale emerse la convinzione che fosse necessario saldare, in agricoltura, i tre momenti della produzione, della trasformazione e della commercializzazione. Da questa intuizione si sviluppò poi il processo che portò ad unificare in un’unica categoria i lavoratori agricoli e quelli del settore alimentare. Tornando alla Cisl, il primo atto che feci da numero uno fu l’acquisto della sede dell’Unione, che fino ad allora era in affitto, e che si trova in piazza Filippini al 4. Il secondo, fu di trovare una nuova sede per Ial, a Porto Mantovano, perché quella vecchia era in condizioni pietose, rilanciandone l’attività. Uno degli avvenimenti più significativi che dovetti affrontare durante questa esperienza fu poi, nel 1984, la spinosissima questione del referendum sull’abolizione della scala mobile. Noi eravamo per il “si”, mentre la Cgil era fortemente schierata sul “no”. La Cisl si impegnò moltissimo nella campagna referendaria. Io stesso tenni diversi comizi in città e in giro per la provincia. E alla fine il nostro lavoro pagò, tant’è vero che il “si” vinse anche nel mantovano, nonostante fosse un territorio politicamente orientato a sinistra. Durante la mia gestione della segreteria generale, alcuni dirigenti virgiliani assunsero responsabilità di vertice a livello delle rispettive federazioni nazionali, come ad esempio la segreteria generale della scuola e degli edili. Se guardo oggi agli otto anni del mio mandato devo dire che è stato un periodo felice, per me denso di soddisfazioni. E’ stata una navigazione felice. Recuperato il rapporto con la Cgil, dopo la frattura del 1984, la Cisl si è fatta notare come organizzazione vivace, radicata, attenta ai cambiamenti e capace di interpretarli. In quegli anni abbiamo dato il via a diverse iniziative: il centro studi, l’osservatorio sul mercato del lavoro, l’università della terza età ed altre ancora. Ho lasciato nel 1988, per dare spazio ai giovani. Da quel momento sono rimasto iscritto al sindacato, ma non ho tenuto alcun incarico e mi sono dato ad altre esperienze, di natura politica e amministrativa.