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Euronote – Ancora un rinvio per la Brexit

Decisione concordata a fronte delle difficoltà politico-istituzionali britanniche

Milano, 31.10.2019

Nel tortuoso percorso della cosiddetta Brexit, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, è stata segnata il 29 ottobre scorso un’altra ennesima tappa che posticipa la scadenza prevista. Il Consiglio europeo ha infatti adottato una decisione di proroga del periodo (sulla base dell’ articolo 50 del trattato dell’Ue), con un’estensione che durerà fino al 31 gennaio 2020 per consentire più tempo alla ratifica dell’accordo di recesso. In seguito a tale decisione, se l’accordo sarà ratificato da entrambe le parti il recesso potrà avere luogo anche prima del 31 gennaio 2020, in due date intermedie stabilite al 1° dicembre 2019 oppure al 1° gennaio 2020. Per tutta la durata della proroga, ha comunicato il Consiglio europeo, il Regno Unito rimarrà comunque a tutti gli effetti uno Stato membro, con tutti i diritti e gli obblighi previsti dai trattati e dal diritto dell’Ue.

Alcune tappe di un percorso molto controverso

Il percorso della Brexit ebbe inizio oltre tre anni fa, quando il 23 giugno 2016 nel corso del referendum svoltosi nel Regno Unito poco più della metà dei cittadini votanti (51,8%) espresse la volontà di lasciare l’Unione europea. La notifica formale dell’intenzione di uscire dall’Ue e non esserne più Stato membro venne presentata formalmente dal Regno Unito al Consiglio europeo il 29 marzo 2017, innescando così l’articolo 50 introdotto dal trattato di Lisbona nel 2007 che stabilisce la procedura applicabile nei confronti dello Stato membro che desidera recedere dall’Unione europea. Secondo questo articolo, i negoziati sul «recesso ordinato» devono concludersi entro un periodo di due anni a partire dal momento in cui è attivato, e se alla scadenza del termine non è stato raggiunto un accordo «i trattati cessano di applicarsi allo Stato membro che recede». Nel corso di un Consiglio europeo speciale svoltosi il 29 aprile 2017 i capi di Stato e di governo dell’Ue adottarono all’unanimità gli orientamenti per la Brexit, definendo il quadro per i negoziati, le posizioni e i principi generali. Un mese dopo, il 22 maggio, i leader dell’Ue autorizzarono l’avvio dei negoziati con il Regno Unito, nominando ufficialmente la Commissione europea come negoziatore dell’Ue. La prima fase dei negoziati si concentrò su questioni relative ai diritti dei cittadini, il regolamento finanziario, il confine con l’Irlanda del Nord (il nodo più delicato della Brexit) e altri problemi legati alla separazione. Il 20 ottobre 2017 il Consiglio europeo decise poi di avviare i preparativi interni per la seconda fase dei colloqui sulla Brexit, chiedendo però progressi rispetto ai diritti dei cittadini, alla questione irlandese e agli obblighi finanziari del Regno Unito. Il 15 dicembre confermò il raggiungimento di «progressi sufficienti» adottando orientamenti per passare alla seconda fase dei negoziati. Nel gennaio 2019 furono adottate alcune direttive di negoziato relative al periodo di transizione, che avrebbe dovuto terminare il 31 dicembre 2020 e durante il quale si sarebbe ancora applicato l’intero acquis dell’Ue al Regno Unito, il quale però in quanto già Paese terzo non avrebbe più partecipato alle istituzioni e al processo decisionale dell’Ue. Nel novembre 2018 la Commissione raccomandò al Consiglio europeo di procedere alla conclusione dei negoziati sull’accordo di «recesso ordinato» e di concordare le future relazioni tra Ue e Regno Unito. Il 21 marzo 2019, però, i leader dell’Ue ricevettero richiesta dall’allora primo ministro britannica, Theresa May, di ritardare la Brexit fino al 30 giugno 2019, decidendo una proroga fino al 22 maggio se il Parlamento britannico avesse approvato l’accordo di recesso. A fronte delle difficoltà interne al Regno Unito, il 10 aprile 2019 i leader dell’Ue decisero però, in accordo con le autorità britanniche, di ritardare la Brexit fino al 31 ottobre 2019. Intanto, passando attraverso un forte dibattito nel Parlamento britannico e un cambio alla guida del governo, con la nomina a luglio di Boris Johnson, nonché a un duro scontro istituzionale e imponenti manifestazioni a Londra contro la Brexit, il 17 ottobre la Commissione europea ha raccomandato al Consiglio europeo di approvare l’accordo di recesso raggiunto, compreso un protocollo riveduto sull’Irlanda del Nord e una dichiarazione politica riveduta nel quadro della future relazioni Ue-Regno Unito. A fronte però degli ulteriori sviluppi della controversa situazione politico-istituzionale interna al Regno Unito, al fine di evitare una Brexit senza accordo (cosiddetto no deal) il 29 ottobre il Consiglio europeo ha infine deciso di prorogare il periodo fino al 31 gennaio 2020.

Ces: «Non esiste Brexit buona per i lavoratori»

«Accogliamo con favore gli sforzi dell’Unione europea per fermare il mancato accordo, garantire l’accordo del Venerdì Santo ed evitare un “confine duro” in Irlanda» ha fatto sapere la Confederazione europea dei sindacati (Ces), affermando però che «non vi è Brexit a beneficio dei lavoratori». I sindacati europei temono infatti che l’accordo attenui ulteriormente gli impegni già deboli nei confronti dei diritti dei lavoratori: «Non vi è più alcun riferimento a condizioni di parità nell’accordo di recesso. C’è solo un’aspirazione a mantenere gli attuali standard sociali e occupazionali nella dichiarazione politica non vincolante. L’unico affare equo per i lavoratori consisterebbe nel garantire che gli standard occupazionali nel Regno Unito siano al passo con quelli dell’Ue». Secondo il segretario generale della Ces, Luca Visentini, «non esiste una buona forma di Brexit e questo accordo sembra aver annacquato impegni già deboli per i diritti dei lavoratori. Lasciare gli standard sociali e occupazionali per i futuri negoziati significa inevitabilmente che i lavoratori e i loro diritti finiscono per essere usati come gettoni di contrattazione. Gli interessi commerciali vengono sistematicamente messi di fronte a quelli dei lavoratori nei negoziati di libero scambio e questo accordo non garantisce che ciò non accadrà con la Brexit». Per questo, la Ces ritiene pericoloso affrettare l’accordo e invece necessario considerare correttamente le sue conseguenze.

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