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Euronote – Bassi salari e rischio povertà tra molti lavoratori

Alcuni studi e analisi mostrano l’aumento dei working poor nell’ultimo decennio

Milano, 10.2.2020

Avere un lavoro non è di per sé una garanzia di tranquillità economica, neanche nei Paesi dell’Unione europea, lo dimostra il fatto che circa una persona su dieci occupata, di età pari o superiore a 18 anni, è a rischio di povertà nell’Ue. Una percentuale che negli ultimi dieci anni è aumentata, passando dall’8,6% nel 2008 al 9,5% nel 2018, e che non differisce molto tra uomini e donne: riguarda infatti il 9,9% degli uomini occupati e il 9,1% delle donne. È quanto sostiene Eurostat in uno studio pubblicato recentemente e basato su dati relativi al 2018, da cui emerge come siano i lavoratori occupati a tempo parziale e i dipendenti con contratti a tempo determinato ad avere maggiori probabilità di essere a rischio di povertà rispetto a coloro che lavorano a tempo pieno e che hanno contratti a tempo indeterminato. Infatti, nel 2018 i lavoratori a tempo parziale nell’Ue avevano un rischio doppio di povertà monetaria (15,7%) rispetto a quelli a tempo pieno (7,8%), mentre i lavoratori con lavoro temporaneo avevano un rischio quasi tre volte superiore (16,2%) rispetto a quelli con lavoro a tempo indeterminato (6,1%).

Nell’ultimo decennio, osserva Eurostat, la percentuale di occupati a rischio di povertà è cresciuta nella maggior parte degli Stati membri, con gli aumenti più elevati registrati in Lussemburgo (4,1 punti percentuali), seguito da Italia (3,2 punti percentuali), Regno Unito (2,8 punti percentuali), Ungheria (2,6 punti percentuali) e Bulgaria (2,4 punti percentuali). D’altro canto, invece, le diminuzioni più elevate sono state osservate in Grecia (-3,3 pp), Lettonia e Romania (entrambi -2,4 pp), Portogallo (-2,1 pp) e Finlandia (-2,0 pp).

Diversi, tra i vari Stati membri dell’Ue, anche i tassi di lavoro a rischio di povertà, con quelli più elevati rilevati in Romania (15,3%), Lussemburgo (13,5%), Spagna (12,9%), Italia (12,2%), Regno Unito (11,3%) e Grecia (11,0%), mentre i tassi più bassi sono stati registrati in Finlandia (3,1%), Repubblica Ceca (3,4%), Irlanda (4,9%), Belgio e Croazia (entrambi 5,2%), Danimarca (5,4%).

Rischio povertà con salari minimi in 17 Stati membri

Il rischio di povertà tra i lavoratori è una conseguenza di salari troppo bassi per molte categorie di lavoratori. Cosa che avviene anche in Paesi dove esistono misure legislative che prevedono regimi di salario minimo. Così, secondo uno studio svolto dalla Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato su dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), i lavoratori che percepiscono un salario minimo obbligatorio sono a rischio di povertà nella maggior parte degli Stati membri dell’Ue.

Tra i 22 Paesi dell’Ue che hanno un regime nazionale di salario minimo, evidenziano infatti i dati dell’Ocse, ben 17 non riescono a raggiungere neanche la soglia minima di rischio di povertà, stabilita al 60% del salario mediano. In 10 Stati membri, addirittura, il salario minimo obbligatorio è pari al 50% o meno del salario mediano nazionale.

Ciò significa, osserva la Ces, che «milioni di persone in tutta Europa oggi non possono permettersi un tenore di vita dignitoso nonostante lavorino a tempo pieno».

Spagna, Repubblica Ceca ed Estonia risultano essere i Paesi con i livelli più bassi di salari minimi obbligatori rispetto alla retribuzione mediana.

«Il salario minimo dovrebbe stabilire una linea di demarcazione tra decenza e povertà. Se qualcuno lavora a tempo pieno, non dovrebbe essere nella condizioni di fare una scelta forzata tra riscaldamento e alimentazione» sostengono i sindacati europei, che evidenziano questa situazione nel corso della consultazione della Commissione europea voluta dalla presidente von der Leyen per garantire che i lavoratori nell’Ue abbiano salari minimi equi.

«Il fatto che la maggior parte dei salari minimi obbligatori in tutta l’Ue siano consapevolmente fissati al di sotto della soglia di povertà è scandaloso – ha dichiarato la vicesegretaria generale della Ces, Esther Lynch –. La Commissione deve essere chiara su ciò che considera un salario minimo statutario equo. Certamente non può essere al di sotto del punto di riferimento del 60% del salario mediano nazionale, che è la soglia di rischio di povertà». La Ces ritiene quindi che si debba testare l’adeguatezza dei salari minimi rispetto ai prezzi reali (e un paniere di beni e servizi), definiti con sindacati e datori di lavoro a livello nazionale in modo che i salari minimi diventino «reali salari di sussistenza». Tutto ciò deve essere associato, secondo la Ces, a misure per promuovere la contrattazione collettiva, che rappresenta «il modo migliore per porre fine ai salari di povertà».

Retribuzione media inferiore a dieci anni fa in 6 Paesi

E a conferma di una situazione economica generalmente difficile per molti lavoratori, giungono i dati pubblicati dall’Istituto sindacale europeo (European Trade Union Institute – Etui) relativi ai livelli retributivi in alcuni Stati membri dell’Ue, secondo cui le buste paga dei lavoratori in 6 Paesi europei sono in media inferiori a dieci anni fa, mentre in altri 3 Paesi i salari sono stati quasi congelati nell’ultimo decennio.

Secondo lo studio dell’Etui, i pacchetti di retribuzione media, adeguati all’inflazione (compresi i contributi previdenziali e le indennità salariali), dal 2010 al 2019 sono diminuiti del 15% in Grecia, 7% a Cipro, 5% in Croazia, 4% in Spagna, 4% in Portogallo e 2% in Italia, mentre sono quasi invariati nell’ultimo decennio, con aumenti poco superiori allo zero, in Finlandia (0,1%), Belgio e Paesi Bassi (1,5%).

«Ai leader europei piace parlare della cosiddetta ripresa, ma la crisi non è finita per milioni di lavoratori in molti Paesi dell’Ue» ha dichiarato Esther Lynch, vicesegretaria generale della Ces, sottolineando come in sei Paesi dell’Ue i lavoratori stiano peggio di quanto non stessero dieci anni fa e che, perciò, «l’Ue deve fare molto di più per promuovere aumenti dei salari e dei salari minimi e sostenere una più forte contrattazione collettiva in quasi tutti gli Stati membri».

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