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Euronote – Economia europea bloccata e diseguale

Preoccupazioni sia dalle previsioni che dagli andamenti dell’ultimo decennio

Milano, 14.2.2020

L’economia europea è destinata a restare su un percorso di «crescita costante e moderata», anche se l’incerto andamento economico e commerciale a livello internazionale, cui si è recentemente aggiunto il problema dell’epidemia coronavirus che avrà inevitabilmente ripercussioni economiche, destano non poche preoccupazioni. Le consuete previsioni economiche d’inverno della Commissione europea, rese note il 13 febbraio, indicano per la zona euro una crescita del prodotto interno lordo (Pil) stabile all’1,2% nel 2020 e nel 2021, mentre per l’intera Unione europea è prevista una lieve diminuzione della crescita all’1,4% nel 2020 e nel 2021, rispetto all’1,5% del 2019. Il percorso di «crescita moderata» per l’economia europea, sostiene la Commissione, dovrebbe essere garantito da una costante creazione di posti di lavoro, da una crescita delle retribuzioni e da una favorevole combinazione di politiche, il tutto alimentato da un buon livello di consumi privati e di investimenti. In particolare, secondo le previsioni, dovrebbero aumentare in modo significativo in vari Stati membri gli investimenti pubblici nelle infrastrutture digitali e nel settore dei trasporti. «Insieme ai timidi segnali di stabilizzazione del comparto manifatturiero e al possibile arresto del calo dei flussi commerciali a livello mondiale, ciò dovrebbe consentire all’economia europea di continuare a espandersi» osserva l’esecutivo dell’Ue, ammettendo però l’impossibilità di accelerazioni nella crescita.

Molti rischi globali, ora anche il coronavirus

Anzi, sono segnalati alcuni rischi di revisione al ribasso delle previsioni. Se infatti la prima fase dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina ha contribuito a ridurre in parte i rischi, «l’elevato grado di incertezza che circonda la politica commerciale degli Stati Uniti continua a impedire il diffondersi di un clima di fiducia tra le imprese» sottolinea la Commissione. Così come possono influire negativamente le tensioni crescenti che si verificano in altre regioni mondiali, su tutte i disordini sociali in America Latina e l’inasprimento delle tensioni geopolitiche in Medio Oriente, che ha aumentato il rischio di un conflitto. Permangono poi «forti incertezze» sul futuro partenariato con il Regno Unito, nonostante la raggiunta chiarezza sulle relazioni commerciali per il periodo di transizione, mentre un sicuro rischio economico al momento non quantificabile è quello derivante dall’epidemia del coronavirus “2019-nCoV”, con le sue implicazioni per la salute pubblica, l’attività economica e il commercio, in particolare in Cina: «Maggiore sarà la durata dell’epidemia, maggiore è la probabilità di ripercussioni sul clima economico e sulle condizioni di finanziamento globali» nota la Commissione. Così come «non possono essere esclusi nel breve periodo» i rischi connessi ai cambiamenti climatici, pur trattandosi principalmente di rischi a lungo termine.

Il rallentamento del “motore” tedesco

Tra le varie riflessioni fatte a margine della pubblicazione da parte della Commissione europea delle previsioni economiche d’inverno 2020, è piuttosto diffusa la preoccupazione sui dati che evidenziano un forte rallentamento, quasi uno stallo, dell’economia tedesca, da sempre considerata il “motore” dell’Ue.

L’ufficio statistico tedesco Destatis ha infatti segnalato che nel quarto trimestre del 2019 il Pil tedesco ha avuto una variazione pari a zero rispetto al trimestre precedente, un dato inferiore alle previsioni. Ma anche a livello tendenziale i dati sono tutt’altro che positivi: rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente la crescita del Pil è stata dello 0,4%, mentre per quanto riguarda tutto l’anno 2019 la crescita economica della Germania si è limitata a un aumento dello 0,6%, cioè più o meno a “livelli italiani”, difficoltà confermata dal dato relativo al calo degli ordini manufatturieri (-8,7%) soprattutto dall’estero. Una crisi, quella economico-politico tedesca, le cui ripercussioni si temono a livello europeo.

Ces: in corso una redistribuzione al contrario

Ci sono poi altri elementi che vanno considerati, al di là della sola percentuale di crescita del Pil. La Confederazione europea dei sindacati (Ces) segnala ad esempio come in ben due terzi degli Stati membri dell’Ue i lavoratori stiano ricevendo una quota inferiore del Pil del loro Paese rispetto a quanto succedeva all’inizio del decennio. In pratica, ai lavoratori va una parte minore della prosperità economica che contribuiscono a creare. Come mostrano le statistiche della Commissione europea, infatti, la quota salariale del Pil è diminuita in 18 Stati membri tra il 2010 e il 2019, con l’Irlanda che ha fatto registrare un calo addirittura del 19%, seguita da Croazia (10,8%), Cipro (6%), Portogallo (5,5%) e Malta (5,3%).

Un altro aspetto economico significativo evidenziato dalla Ces, sulla base di uno studio dell’Istituto sindacale europeo (Etui), è che nell’ultimo decennio i salari sono aumentati meno della produttività del lavoro in 15 Stati membri dell’Ue.

Una crescita salariale che è rimasta indietro rispetto agli aumenti di produttività di 35 punti percentuali in Irlanda (anche se il dato potrebbe essere influenzato dalla presenza nel Paese di numerose grandi multinazionali), 17 punti in Croazia, 11 in Spagna, 9 in Grecia e Cipro, 7 in Portogallo, 3 punti in Belgio, Paesi Bassi e Finlandia, 2 punti in Italia, 1 punto in Austria, Danimarca, Francia, 0,5 punti percentuali in Slovenia e 0,2 punti percentuali a Malta.

Secondo la vicesegretaria generale della Ces, Esther Lynch, «l’equità e la teoria economica richiedono che gli aumenti salariali seguano gli aumenti della produttività, invece i lavoratori si stanno allontanando dai ricchi. Le aziende pagano di più agli azionisti e i dirigenti a spese dei loro lavoratori. È una ridistribuzione nella direzione sbagliata: si derubano quelli in fondo e al centro della pila per dare a quelli in cima».

Per questo la Ces chiede all’Ue di agire per sostenere una più forte contrattazione collettiva, che garantisca ai lavoratori salari adeguati.

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