Euronote – Pandemie: dalla reazione a una reale prevenzione

L’impegno del G20 sulle vaccinazioni non è sufficiente, serve un nuovo approccio

Milano, 25.5.2021

Intensificare la cooperazione e la collaborazione a livello globale per contrastare la pandemia da Covid-19: questo l’impegno preso dai leader del G20 e dai responsabili delle principali organizzazioni internazionali e regionali riuniti nel Global Health Summit, svoltosi a Roma il 21 maggio scorso. La pandemia, hanno affermato i partecipanti al Vertice mondiale sulla salute, «continua ad essere una crisi sanitaria e socioeconomica globale senza precedenti, con effetti diretti e indiretti sproporzionati sui più vulnerabili», aggiungendo che «non sarà finita finché tutti i Paesi non saranno in grado di tenere la malattia sotto controllo», cosa che resta la priorità insieme al «ritorno a una crescita forte, sostenibile, equilibrata e inclusiva».

Riconoscendo l’impatto «molto dannoso» della pandemia sui progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), i leader mondiali hanno riaffermato l’impegno a raggiungerli, dichiarandosi pronti a intensificare gli sforzi «anche attraverso sinergie tra i settori pubblico e privato e multilaterali», per migliorare l’accesso «tempestivo, globale ed equo a strumenti Covid-19 sicuri, efficaci ed economici». Il Global Health Summit ha sottolineato il raggiungimento «senza precedenti» di vaccini «sicuri ed efficaci» entro un anno, insistendo sull’importanza di investimenti continui nella ricerca e nell’innovazione. Così come è stato riaffermato il sostegno «agli sforzi per rafforzare le catene di approvvigionamento e aumentare e diversificare la capacità globale di produzione di vaccini, anche condividendo i rischi». Su queste basi, nella Dichiarazione di Roma il Summit ha definito i principi e gli impegni che serviranno «come orientamento volontario nell’azione attuale e futura per la salute globale per sostenere il finanziamento, la costruzione e il sostegno di un sistema sanitario efficace e la copertura sanitaria universale per migliorare la preparazione, l’allarme precoce, la prevenzione, l’individuazione, la risposta coordinata, la resilienza e il recupero dall’attuale pandemia e da potenziali emergenze future».

Amnesty: il profitto non può venir prima della salute

«Mettersi d’accordo per prevenire future pandemie ha senso, ma è difficile credervi se gli Stati e le aziende farmaceutiche non adottano le misure indispensabili per contrastare la pandemia in corso» ha dichiarato a margine del Summit l’organizzazione Amnesty International, sottolineando che il miglior modo per prepararsi alle crisi sanitarie è quello di prevenirle e che, in quest’ottica, i vaccini assumono un ruolo centrale. A tale proposito, secondo Amnesty «un centinaio di Stati, compresi gli Usa, ha capito l’importanza di una deroga ai diritti di proprietà intellettuale per poter aumentare la produzione dei vaccini e farla finita col Covid-19. Invece la Germania, l’Australia, il Regno Unito e vari Stati membri dell’Unione europea hanno una posizione contraria».

Il profitto non può venir prima della salute, sostiene l’organizzazione internazionale per i diritti umani, e per questo «gli Stati devono assumersi la responsabilità di premere sulle aziende farmaceutiche affinché condividano le loro tecnologie e conoscenze in modo che ognuno riceva equamente il vaccino». Invece, se proseguirà l’attuale andamento, i Paesi meno sviluppati non riceveranno dosi sufficienti per assicurare un’adeguata copertura vaccinale almeno fino al 2023. Un problema grave, osserva Amnesty, perché «se il mondo intero non sarà protetto dalla pandemia, la salute delle persone sarà a rischio e le varianti continueranno a imperversare rendendo nulla l’efficacia degli attuali vaccini». La soluzione consisterebbe nel far sì che le aziende farmaceutiche assumessero le loro responsabilità in materia di diritti umani, smettendo di contrastare i tentativi di aumentare l’accesso ai vaccini e iniziando a condividere le loro tecnologie e conoscenze. Purtroppo però, conclude Amnesty International, «nessuna azienda ha accettato di condividere i brevetti attraverso l’Oms».

Prevenire le pandemie salvaguardando la biodiversità

Oltre alla questione dei vaccini, poi, si dovrebbe iniziare a pensare a strategie rivolte ad una reale prevenzione piuttosto che alla sola reazione alle pandemie, aspetto ancora del tutto assente nella Dichiarazione di Roma. Continuare ad affidarsi a tentativi di contenere e controllare le malattie dopo la loro comparsa, attraverso una rapida progettazione e distribuzione di nuovi vaccini e misure terapeutiche, «è un percorso lento e incerto» sostiene un Rapporto scientifico curato dalla Piattaforma intergovernativa di politica e scienza sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes), redatto consultando 22 esperti di livello internazionale sui legami fra il degrado della natura e i rischi di pandemie. Il Covid-19, osserva il Rapporto, è almeno la sesta pandemia sanitaria globale dalla grande influenza pandemica del 1918, e «sebbene abbia le sue origini nei microbi trasportati dagli animali, come tutte le pandemie, la sua comparsa è stata interamente guidata dalle attività umane». Gli esperti stimano che attualmente esistano 1,7 milioni di virus “non scoperti” nei mammiferi e negli uccelli, di cui fino a 827.000 potrebbero avere la capacità di infettare gli esseri umani.

«Non c’è un grande mistero sulla causa della pandemia Covid-19 o di qualsiasi altra pandemia moderna» affermano i curatori del Rapporto, secondo cui «le stesse attività umane che guidano il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità determinano anche il rischio di pandemia attraverso i loro impatti sull’ambiente». Cambiamenti nelle modalità di utilizzo dei terreni, l’espansione e l’intensificazione delle attività agricole, il commercio, la produzione e il consumo insostenibili sconvolgono la natura e aumentano il contatto tra fauna selvatica, bestiame, agenti patogeni e persone. I rischi di pandemie potrebbero dunque essere notevolmente contenuti riducendo le attività umane che comportano la perdita di biodiversità, cosa che ridurrebbe il contatto tra fauna selvatica, bestiame e esseri umani e aiuterebbe a prevenire la diffusione di nuove malattie, sostiene l’Ipbes. Sarebbero così abbattuti i costi in termini di vite umane e sofferenze, ma anche economici: l’attuale impatto economico della pandemia è stimato essere circa 100 volte superiore a quello dell’attività di prevenzione.