Caro sindacato, non avere paura di salario minimo e Jobs act

Milano, 11.4.2014
 
Ammettiamolo. Il sindacato confederale sta facendo fatica a misurarsi con il salto di modernizzazione e di riforme in materia di lavoro che il governo Renzi vuole calare nel nostro paese. I leader di Cgil, Cisl, Uil ondeggiano, si correggono, inseguono, ammoniscono.
Non è facile reggere alla discontinuità. Servirebbe tempo. Ma è l’epoca della velocità. Soprattutto della politica. 
Il sindacato fa bene a temere salti nel buio. Ma il problema è che la modernizzazione arriva sempre all’improvviso, tra capo e collo e non da dove te l’aspetti. Ci misuravamo con la politica e questa ci spiazza.
Non servono isterismi o litanie sul ruolo dei corpi intermedi. E’ il momento di dimostrare quello che davvero valiamo (e sul territorio valiamo ancora molto), se però accettiamo di fare i conti con la modernità.
Se da vent’anni in tutti i convegni e relazioni predichiamo che il fordismo è finito, che bisogna tutelare i lavoratori e non i posti di lavoro, caro sindacato, è il momento di essere coerenti, di non avere paura di salario minimo e di Jobs act. Guai a noi a ritrarsi, o dire che “ci vorrebbe ben’altro” o bollare i rischi (e ce ne sono) di queste innovazioni,  in realtà per continuare a fare sempre le stesse cose e non cambiare.
E’ la realtà del lavoro ad essere diventate profondamente diversa. Lasciamo la politica da sola a costruire risposte? 
In Italia il salario minimo c’è sempre stato. E’ quello fissato dai contratti nazionali. Che hanno fatto giurisprudenza, diventando punto di riferimento anche per le tante aziende non sindacalizzate. 
Ma oggi, anno 2014, dobbiamo riconoscere che una quota importante di lavoratori è sempre meno coperta dalla contrattazione nazionale. O perché si tratta di cocopro, partite Iva economicamente dipendenti, cottimisti in agricoltura o nei subappalti dell’edilizia, o perché si tratta di dipendenti di false cooperative spurie (siamo certo sicuri che Poletti da ministro saprà scatenare una vera offensiva contro questa nuova forma di vero e proprio caporalato), che nella logistica, nelle pulizie, nei servizi alla persona abbondano, o perché sottoposti a contratti di bassa tutela o “pirata” (costruiti da controparti non rappresentative).
La legge Fornero aveva previsto 2 anni fa che i Ccnl potessero fissare i salari di base dei cocopro. Quanti contratti se ne sono occupati? Chi di noi ne ha fatta una vera priorità? Quasi nessuno. 
Di fronte alla realtà che cambia possiamo permetterci di sbagliare, ma non di andare fuorigioco restando fermi. E’ per questo che il sindacato non deve temere in assoluto il salario minimo, ma deve partecipare a definirlo in modo da mantenere forte il ruolo della contrattazione.
Sapendo che due livelli contrattuali vivono bene con economie che tirano al 2-3% annuo di crescita. Mentre oggi, in piena stagnazione, decine di accordi si negoziano unitariamente e silenziosamente sui luoghi di lavoro (Fiom compresa) per recuperare competitività, produttività, acquisire commesse, anche sterilizzando i risultati contrattuali del passato e modificando le norme dei contratti nazionali.
E’ in corso dal basso un grande processo di riorientamento della contrattazione utile e anche innovativo (basti pensare al crescere della contrattazione sul welfare per i dipendenti). Non sarà il salario minimo a fermarla. La forza della contrattazione sta nelle mani nostre e delle controparti.
Il Jobs act si propone di creare un sistema universale di tutele nei rapporti di lavoro, di fronte agli ammortizzatori sociali e alla disoccupazione. Da tempo il sindacato e la Cisl perseguono questo obiettivo (vi ricordate l’idea di Statuto dei lavori?). Perché smarrirsi ora?
La grande trasformazione e crisi dell’economia reale è stata affrontata con strumenti straordinari (la cassa in deroga innanzitutto), ma temporanei. 
La crisi ci ha insegnato che il sindacato non può mantenere distinte le tutele per la grandi aziende da quelle per le PMI dove sono occupati la maggior parte di lavoratori.
Nel 2013 in Lombardia sono stati licenziati per crisi circa 70mila lavoratori. Di questi solo 1/3 hanno 2 o 3 anni di indennità di mobilità. La stragrande maggioranza, spesso non sindacalizzata, ha solo 8 mesi di Aspi. E’ una differenza non più accettabile.
Il progetto del governo ha bisogno di molto lavoro per passare dalle slides e dalla legge-delega alla realtà. A partire dalle coperture economiche. E’ un progetto che costa molto. 
Il sindacato e la Cisl, con la bilateralità e con la contrattazione, hanno già costruito in alcuni settori, anche non tradizionali, e territori risposte che vanno nella stessa direzione. Dobbiamo contribuire a realizzare le riforme.
Il contratto unico a tutele crescenti che per anni abbiamo tenuto distante è ora una occasione per superare la precarietà trasformandola in buona e tutelata flessibilità.
Servono solo coraggio, capacità di proposta, rilancio della contrattazione con le controparti e innovazione.
Perché il futuro del sindacato non sta nel contare quante volte sale le scale di Palazzo Chigi. Sta nell’aumentare il numero di lavoratori a cui offre tutele. Sta nelle sue periferie che hanno voglia di essere il centro dell’azione sindacale.
 
Gigi Petteni, segretario generale Cisl Lombardia