Milano, 27.2.2017
REGIA: Laurent Cantet SCENEGGIATURA: Laurent Cantet, Robin Campillo FOTOGRAFIA: Pierre Milon MONTAGGIO: Robin Campillo MUSICHE: Jocelyn Pook INTERPRETI : Aurélien Recoing, Karin Viard, Serge Livrozet, Monique Mangeot, Jean-Pierre Mangeot, Nicolas Kalsch, Marie Cantet, Félix Cantet, Maxime Sassier, Elisabeth Joinet, Nigel Palmer, Christophe Charles, Didier Perez, Olivier Lejoubioux, Pauline De Laubie, Jamila Abdallah, Philippe Jouannet PRODUZIONE: Haut & Court – Arte France Cinema – Rhone-Alpes Cinema – Havas Images DISTRIBUZIONE: Mikado DURATA: 132 min
Non avendo avuto il coraggio di rivelare alla famiglia ed agli amici di aver perduto ormai da settimane il lavoro da consulente, Vincent si è creato una vita professionale parallela fatta di trasferte all’estero e riunioni di lavoro. Mentire diviene un’occupazione a tempo pieno e la voglia di evitare lo sguardo della moglie Muriel e dei suoi tre figli lo porta sempre più lontano. Per mantenere il tenore di vita raggiunto in passato convince gli amici a fare oscuri investimenti. Ma la tensione crescente lo lascia senza via d’uscita.
Una riflessione sulla disoccupazione, sull’immagine sociale del lavoro e sulla tragedia del tempo non utilizzato. Un fenomeno che aveva radici anche nel nostro paese dal momento che alcuni impiegati FIAT, di fronte al licenziamento, hanno continuamente simulato la continuità del lavoro partendo da casa al mattino rifiutandosi di rivelare il licenziamento vissuto come una punizione.
LA CRITICA
Leone dell’anno a Venezia 2001, il film di Laurent Cantet (che esordì con “Risorse umane”). Strameritato. Una costruzione drammaturgica condotta con rigore stilistico glaciale per sottolineare il solo principio ontologico del nostro mondo: “lavoro dunque sono”. E se uno non lavora più? Magari per scelta? La storia di Vincent sembrerebbe solo esemplare se non fosse ispirata a un fatto reale, che si concluse in maniera ben più tragica del film. Anche se a ben vedere l’ultima sequenza che Cantet regala al nostro sguardo è agghiacciante e sembra aprirsi su uno scenario alla Michael Haneke. “A tempo pieno” riscrive (o dimostra come si siano riscritte) le regole della convivenza in base ai requisiti formali della “professione”. Anche nel linguaggio, nel parlare di tutti i giorni, quando tra colleghi si instaura una “comunicazione felice” e non un rapporto umano. Dopo “A tempo pieno” non si può fare a meno di pensare al Grande Lebowsky come a un eroe dei nostri giorni. (FilmTv)
Al di là dell’aneddoto, il bel film diventa l’analisi di un’esistenza: l’uomo né brutto né bello, anonimo e insieme ricco di personalità, profondamente sincero mentre recita le sue bugie, è logorato dal lavoro eppure incapace di avere identità senza il lavoro. Dopo mesi di tensione (e anche di riposo: ozio, ore vuote, mancanza di regole e di competizione), quando si presenta al nuovo impiego non prova alcun sollievo. Smarrimento e desolazione non si cancellano. Dentro di lui, così attento a mostrarsi buon dirigente, buon padre, buon marito, buon guidatore, buon componente della società, esiste un immenso desiderio di libertà che gli permette di sopravvivere. I rapporti del protagonista con il lavoro, con la solitudine, con i propri figli e i propri genitori, sono illustrati nel film attraverso una sottigliezza, accuratezza e originalità alle quali dà un grande contributo l’interpretazione eccellente di Aurélien Recoing, attore di teatro meno noto al cinema. Nel mondo contemporaneo disoccupazione e sottoccupazione sono incubi quotidiani, e può sembrare singolare l’analisi di un disagio insito nel lavoro parolaio, inappagante: ma “A tempo pieno” rappresenta anche una lezione importante d’intelligenza umana. (Lietta Tornabuoni – La Stampa)
In uno dei Quarantanove Racconti di Ernest Hemingway due camerieri, uno giovane e l’altro vecchio, immersi nella cupa atmosfera di un locale hard boiled, sono animati da una discussione sui massimi sistemi della vita, di quelle che si consumano sui banconi dei bar di tutto il mondo. Il cameriere più anziano si lamenta, si lamenta di qualcosa che non ha, mentre il giovane spavaldo lo rintuzza ricordandogli che non gli manca niente, che ha avuto tutto dalla vita, raggelato dalla risposta tagliente e secca dell’amico: “Mi manca tutto, tranne il lavoro”. Lo scriveva Hemingway nel 1938, lo riprende oggi Laurent Cantet con il film A tempo pieno, premiato a Venezia con il Leone dell’anno, il neonato Award istituito per la prima volta quest’anno da Barbera. Cantet, quindi, disegna un tratto in più nella riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo occidentale vestendo il tema della fuga dalla realtà, dal gioco delle costrizioni economiche e sociali nel nuovo mondo della new economy, sul corpo stanco e flaccido di un quarantenne, Vincent, che approfittando di un licenziamento, forse indotto, scende i gradini verso l’inferno dell’ambiguità tra desiderio di fuga e mantenimento dei privilegi sociali che la condizione borghese garantisce. Vincent inscena una doppia vita, quella ufficiale e finta che lo vede alto funzionario dell’0nu in stanza a Ginevra, e quella vera e tremenda, di un uomo che si confonde con la vita dei bassifondi e del traffico illecito di marche falsificate. Efficacemente tenuto sul bilico di questo abisso A tempo pieno trasforma il fatto di cronaca nera, la vera stoffa di Romand che fa strage della famiglia allorquando questa scopre la menzogna un cui l’ha tenuta, in una parabola sulla deriva autodistruttiva di un uomo che tenta la fuga da una realtà che non gli piace. Laurent Cantet sposta la sua osservazione dal contesto sociologico del mondo lavorativo, affrontato con il precedente Risorse Umane, a quello psicologico, più delicato e intimista, senza soluzione di continuità, tirando un filo che lega le vicende di Frank, il protagonista in lotta sindacale di Risorse Umane, a quelle di Vincent. Sarebbe quindi un errore considerare quest’ultima prova come un tassello in più nel filone del cinema politico-sindacale francese, come considerare Cantet il Ken Loach transalpino, anche se le cose che più convincono sono proprio quelle lasciate sullo sfondo: l’ingordigia di piccoli borghesi benestanti che tentano la fortuna investendo i risparmi di una vita in operazioni di mercato al limite della legalità, quelle che imbastisce Vincent per alimentare la sua schizofrenia, come il mondo fosco del traffico illegale di orologi e penne “taroccate”. Ombre che attraversano la strada di questa vittima letta dal mercato globalizzato la cui doppia vita viene strozzata da un efferato doppio finale. (Dario Zonta- L’Unità)
Dopo il pluripremiato Risorse umane, L. Cantet fa un passo avanti e a lato con un dramma psicologico sui temi dell’identità=lavoro, del “fare come se”, dell’orario di lavoro che diventa “impiego del tempo” in forma patologica. La conclusione è ambigua: lieta o agghiacciante? Scritto con Robin Campillo, ha due grandi meriti: si trasforma lentamente (forse anche troppo) in un thriller angoscioso che fa temere uno scioglimento cruento; fa di Vincent (un ottimo A. Recoing) un caso di ordinaria follia in maschera, ma anche un uomo vulnerabile degno di pietà. (Morando Morandini)