Cinema e lavoro – Al di là delle montagne

Un film di Zhangke Jia (Cina, Francia 2015)

Milano, 16.9.2021

Regia: Zhangke Jia – Sceneggiatura: Zhangke Jia – Montaggio: Matthieu Laclau – Musiche: Yoshihiro Hanno – Fotografia: Nelson Yu Lik-wai – Scenografia: Liu Qiang – Costumi: Li Hua – Interpreti: Zhao Tao, Zhang Yi, Jing Dong Liang, Zijian Dong, Sylvia Chang, Han Sanming – Produzione: Arte France Cinéma, Office Kitano – Distribuzione: BIM – Durata: 120 min.

Cina, alla fine del 1999. Tao, è una ragazza di Fenyang corteggiata da due amici d’infanzia: Zhang, proprietario di una stazione di servizio destinato a un brillante futuro, e Liangzi, che lavora invece in una miniera di carbone. Divisa tra i due uomini, Tao farà una scelta che segnerà il resto della sua vita e quella del suo futuro figlio, Dollar. Venticinque anni dopo, tra la Cina che è radicalmente cambiata e l’Australia come promessa di una vita migliore, tutti i protagonisti verranno messi di fronte al proprio destino…

La potenza dei soldi, l’emigrazione, la scelta capitalistica cinese con i relativi costi umani sono alla base di una pellicola sperimentale elegante e raffinata.

LA CRITICA

E’ un’epopea magniloquente, un “C’era una volta in Cina” di rara potenza emotiva, un melodramma pop a tratti irresistibile il film di Jia Zhangke: la partenza è da brividi, con il formato dello schermo a 1.33 in cui, “stringendosi” come in un quadro incapace di raccogliere tutta la potenza del ricordo, il gruppetto di amici balla sulle note di Go West.
Ma la portata complessiva dell’opera di Jia la comprendiamo definitivamente poco meno di un’ora dopo: quando il “terzetto” si divide e una dissolvenza in nero introduce (nuovamente) il film. L’aspect ratio si adegua, lo schermo si allarga a 1.85, Mountains May Depart: è il 2014, Tao e Zhang li abbiamo lasciati sposati e genitori, Liangzi aveva fatto fagotto per allontanarsi chissà dove. Ora è padre anche lui, ma un tumore ai polmoni lo costringe ad abbandonare la nuova miniera e tornare – con moglie e prole – sui suoi passi. I soldi per curarsi non ci sono, l’unica speranza è provare a chiedere un prestito a qualche amico del passato… Questa è la fase forse più dolente e che meglio descrive l’intero senso dell’operazione voluta da Jia Zhangke, che ci riporta al momento della divisione, a quando cioè Tao si lasciò sedurre dalla scelta più “semplice”. Che col passare degli anni l’ha portata ad essere sola. Il marito, ora a Shanghai e ricco sfondato, si è rifatto una vita. E il piccolo Dollar è con lui, visto che i soldi possono tutto anche in termini di custodie esclusive. Sarà la morte del padre di Tao a regalarle qualche giorno di maternità perduta, il tempo necessario per comprendere – laddove ce ne fosse bisogno – che quel bambino non è stato (e mai sarà) suo. Il regista, anche qui, affida ai dettagli (l’invito al matrimonio rimasto nella vecchia casa di Liangzi) e alle ancore sonore (la hit Take Care della pop-star hongkonghese Sally Yeh) il puntello visivo ed emotivo attraverso il quale continuare a percorrere il lungo cammino di una storia che, oltre all’inesorabile scorrere del tempo, riflette – come da titolo – sulla giustapposizione tra la solidità e la caducità delle nostre certezze. Delle nostre radici. (Valerio Sammarco – Cinematografo.it)

Fenyang, 1999. La Cina è a un passo dal nuovo secolo e da Macao, ultima colonia portoghese in Asia. Mentre il Paese si appresta a ristabilire la propria sovranità, Tao, una giovane donna di Fenyang, non sa decidere a chi appartenere. Corteggiata da Zhang, proprietario di una stazione di servizio che si sogna capitalista, e Lianzi, minatore umile che estrae speranze e carbone, Tao prova a fare chiarezza nel cuore. Tra una corsa in macchina e un piatto di ravioli al vapore, sceglie Zhang e getta nella disperazione Lianzi, che abbandona casa e città. Quindici anni, un matrimonio e un figlio dopo, Tao è separata e sola, Lianzi ha un cancro e Zhang vive a Pechino con un’altra donna. Cinico e ricco ha ottenuto l’affidamento del figlio, che ha chiamato come la valuta americana (Dollar) e ha deciso di far crescere in Australia. Terra promessa dall’altra parte del Mondo, l’Australia diventa la patria di Dollar che maggiorenne e inquieto ha deciso di ritrovare sua madre e la Cina. A ostacolarlo c’è Zhang, che non ha mai imparato l’inglese e non ha parole per raggiungere il suo ragazzo. A casa e sotto la neve, attende da sempre Tao.
La mutazione accelerata del (suo) mondo è l’oggetto ideale del cinema di Jia Zhangke. Registrare una realtà che evolve sotto gli occhi con tale velocità e tali proporzioni è la sua vocazione e in un certo senso quella del cinema (delle origini). Dopo il gigantismo del cantiere di Still Life, che conduceva a conseguenze gigantesche, Jia Zhangke svolge una relazione d’amore attraverso gli anni e le trasformazioni economiche del suo Paese. Cuore centrale della storia è ancora una volta Fenyang, città natale dell’autore e punto di ancoraggio estetico e sociale del suo cinema. La sua produzione artistica, avviata nel 1995 e rimasta a lungo clandestina in Cina, testimonia da sempre la fragilità dell’uomo sottomesso a volontà che lo doppiano. Funambolo su un filo teso tra fiction e documentario, l’autore è ritrattista e paesaggista insieme di sentimenti forti emersi da una società in crisi. Vedere i suoi film è come accedere a un laboratorio estetico, un diapason che produce un suono puro, frequenze armoniche che accordano tecnica digitale e finzione, documentario e lirismo elettrico, (iper)sensibilità poetica e interazione tra uomini e ambiente. Se il suo cinema precedente minacciava l’assorbimento dell’individuo nelle metamorfosi capitaliste, Al di là delle montagne realizza la minaccia e la spiega lungo un’asse temporale che contempla presente, passato e futuro. Sospeso tra la certezza di quello che è stato, il film apre sul Capodanno del 1999, e l’ipotesi di quello che potrà essere, il film chiude sull’inverno del 2025, Al di là delle montagne materializza l’ambizione cinese nella figura di Zhang. Indietro restano Lianzi, senza lavoro e in compagnia del suo cancro, Tao, corpo nazione indecisa sulla strada da prendere al debutto e poi votata al consumo, e Dollar, il prezzo pagato alla conversione economica. Dopo aver reso conto di milioni di persone povere e profughe e aver registrato centinaia di città e siti archeologici sommersi, il regista affronta i flussi migratori e disloca per la prima volta i suoi personaggi al di là dei confini cinesi. L’Australia diventa la terra promessa di Zhang e la terra straniera di Dollar, dentro un melodramma superbo su due generazioni che non riusciranno più a comunicare. In fondo al loro silenzio, che ormai parla soltanto la lingua inglese, resiste la tradizione incarnata da Tao, punto fermo del film che prepara ravioli e ‘riconosce’ la voce cara. Dentro un contesto (sur)reale, dentro città simbolo della cultura classica cinese ridotte a cantieri, Zhangke accomoda tre personaggi in cerca di qualcosa, forse l’amore, forse una famiglia, forse il successo, forse la propria identità, forse una finestra verso il mondo esterno, che ha smesso di essere clandestino e contempla adesso l’occidentalità pop dei Pet Shop Boys. Come nella canzone “Go West” i personaggi cercano una nuova frontiera e di questa ricerca il regista fa un gioco plastico e narrativo, che produce uno smarrimento emozionale attraverso uno sguardo critico. Come in Still Life osserviamo volti rivelati in piani densi e corpi in bilico sul vuoto. Se ieri era un vuoto reale provocato da una diga, oggi è quello ideale prodotto dall’esodo. Come il fiume Yangtze la Tradizione è interrotta e la geografia (umana) alterata. I tempi cambiano, gli uomini passano ma resta il cinema a mostrarceli. (Marzia Gandolfi – MyMovies)

“Go West!” cantano i Pet Shop Boys mentre un gruppo di giovani danza festeggiando il capodanno. È la fine del 1999 e l’inizio del 2000, la Cina non è ancora partita per l’ovest, ma ha già pronte le valigie. Inizia così Al di là delle montagne. Con un balletto pop, i fuochi d’artificio e il formato 4:3 a inquadrare l’azione. Come A Touch of Sin anche quest’ultimo lavoro di Jia Zangh-ke è diviso in episodi, ma non episodi slegati l’uno dall’altro, bensì tre momenti nella vita degli stessi personaggi ambientati in tre tempi diversi: il 2000, appunto, il 2014 e il 2025. Il tempo e lo spazio come assi cartesiani capitali, quindi. Le due direttrici primigenie che corrono perpendicolari l’una all’altra e all’interno delle quali si tracciano le linee dell’esistenza e si disegnano le vite degli individui. Jia sceglie questi due dispositivi essenziali per costruire un film che è giocato sin dal principio sulla messa in evidenza della sparizione, della transitorietà e della decadenza. Un film di dissolvenze all’interno del quale lentamente, inquadratura dopo inquadratura, svaniscono i corpi, i volti, i ricordi e i luoghi che ne formano il palcoscenico. Ma non è solo il tempo che passa fra un episodio e l’altro a decretare questa frattura fra presente e futuro, perché Jia – regista dalla rara sensibilità e dallo smisurato talento visivo – ci dice dell’insostenibile mutabilità dell’esistenza anche attraverso la semplicità di un’inquadratura o addirittura con il solo uso del fuori campo. E ci avverte del fatto che a volte il tempo ci fagocita senza che riusciamo nemmeno a vederlo, proprio come non si possono vedere i fuochi d’artificio brillare in un cielo illuminato a giorno. Oppure, tutto al contrario, ci dice di come il tempo ci prende e ci porta via senza che si possa fare nulla per impedirlo, come un aereo che cade e si schianta al suolo, o come una bomba che ci esplode a pochi metri dagli occhi. Ed è in fondo un film di esplosioni Al di là delle montagne. A partire dal formato (che dai 4:3 iniziali deflagra fino a occupare lo schermo nella sua interezza), ma che esplode letteralmente di immagini. Immagini evocative, immagini dialettiche, immagini che non stanno mai ferme (anche se ferma, immobile, è la macchina che inquadra), che portano verso universi sensoriali e orizzonti visivi vertiginosi, e che sono fatte di colori, forme e strati materiali dai quali non è possibile liberarsi la mente. Perché come tutte le esplosioni, lasciano delle tracce profonde e inconfondibili. Ma è anche un film che esplode di passione e che pur affidandosi alla metafora come veicolo alla rappresentazione, non rinuncia a una narrazione modulata sullo schematismo del cinema di genere e, segnatamente (come in tanto altro cinema del regista cinese), del melodramma. Nei tre episodi, infatti, a condurre l’azione sono sempre i sentimenti forti e i legami più basilari ed essenziali. Il dramma familiare lungo venticinque anni che si racconta è tutto giocato sulle passioni interrotte. E il primo dei tre capitoli, la cui perfezione formale e il cui equilibrio estetico-narrativo basterebbero per farne un film a sé stante (e forse non è un caso che il regista metta, a chiusura di questa prima parte, un vero e proprio titolo di coda su fondo nero) descrive abilmente tutte le relazioni che si intrecceranno e addenseranno per il resto del film. A partire dal triangolo amoroso fra la giovane Tao e i suoi due pretendenti – il minatore Liangzi e il ricco Zhang – si dipana un’epopea familiare nella quale ogni tipo di rapporto finisce per essere frustrato. Non solo quello fra i tre protagonisti, che avrà fine quando Tao sceglierà Zhang, ma anche il conseguente matrimonio fra i due che si esaurirà in poco tempo. E ancora, il legame di entrambi con il figlio (Dollar, protagonista dell’ultimo episodio). Un corollario di passioni troncate che sta lì a dirci che l’impossibilità di coltivare i legami familiari è sinonimo dell’impossibilità di tramandare una memoria. E andare a ovest partendo dalla Cina, significa appunto sgretolare e ridurre al grado zero tanto il senso della Storia, quanto quello della memoria. Memoria che, sia come bisogno intimo che come necessità collettiva, ci dice Jia, è allo stesso modo perduta. E non perché il regista indugi sull’aspetto romantico del passato o perché ritenga il futuro corrotto e pericoloso. Ma perché se il suo occhio endemico e pertinente riesce, come dicevamo in apertura, ad utilizzare lo spazio per parlare del tempo e viceversa, allora è vero che nella sua concezione del presente la Cina è una specie di antonomasia iperreale del mondo, una sua illustrazione esemplare. Un locus paradigmatico dove tutto succede più in fretta e i cambiamenti, per chi li sa cogliere, sono spaventosamente evidenti. Ecco perché mostrare l’ascesa e la caduta della Cina compendiandole nello spazio temporale lungo una generazione, diventa un esercizio di lucida pertinenza oltre che di estrema violenza. L’universalità del finale del film in fondo è la testimonianza del fatto che la storia che nel film si racconta, appartiene a tutti noi e potrebbe essere raccontata in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Perché se è vero che Dollar dimentica il nome della madre oltre che la lingua (madre), è altrettanto vero che pure il mondo nel quale è cresciuto e nel quale è nato ha finito per scordarsi di lui. Al contrario di Tao, che diventata lo spettro di un mondo scomparso e ricoperto di neve, i suoi ricordi se li tiene ben stretti. Perché i ricordi sono tutto quello che ha. (Lorenzo Rossi – Cineforum.it)