Cinema e lavoro – Capitalism: A Love Story

Milano, 15.10.2019

Regia: Michael Moore Fotografia: Daniel Marracino, Jayme Roy Montaggio: Jessica Brunetto, Alex Meillier, Tanya Ager Meillier, Conor O’Neill Musiche: Jeff Gibbs Produzione: Dog Eat Dog Films Distribuzione: Mikado Durata:120′

Nel ventesimo anniversario del suo rivoluzionario capolavoro Roger & Me, Capitalism: A Love Story riporta Michael Moore ad affrontare il problema che è al centro di tutta la sua opera: l’impatto disastroso che il dominio delle corporation ha sulla vita quotidiana degli americani (e, quindi, anche del resto del mondo). Ma questa volta il colpevole è molto più grande della General Motors e la scena del crimine ben più ampia di Flint, Michigan. Dalla Middle America fino ad arrivare ai corridoi del potere a Washington e all’epicentro finanziario globale di Manhattan, Michael Moore porterà ancora una volta gli spettatori su una strada inesplorata. Con umorismo e indignazione, Capitalism: A Love Story di Michael Moore esplora una domanda tabù: qual è il prezzo che l’America paga per il suo amore verso il capitalismo? Anni fa, quell’amore sembrava assolutamente innocente. Tuttavia, oggi il sogno americano sembra sempre più un incubo, mentre le famiglie ne pagano il prezzo, vedendo andare in fumo i loro posti di lavoro, le case e i risparmi. Moore ci porta nelle abitazioni di persone comuni, le cui vite sono state stravolte, mentre cerca spiegazioni a Washington e altrove. Quello che scopre sono dei sintomi fin troppo familiari di un amore finito male: bugie, maltrattamenti, tradimenti… e 14.000 posti di lavoro persi ogni giorno. Capitalism: A Love Story rappresenta una summa delle precedenti opere di Moore, ma è anche uno sguardo su un futuro nel quale una speranza è possibile. E’ il tentativo estremo di Michael Moore di rispondere alla domanda che si è posto in tutta la sua carriera di regista: chi siamo e perchè ci comportiamo in questo modo?

Presentato al festival di Venezia dove ha ottenuto il premio di Agiscuola il film rimane ancora oggi un documentario importante per capire la crisi finanziaria del 2007. Girato in modo meno retorico del solito affronta il tema della perdita di umanità di un sistema che vedeva nella presidenza Obama comunque una speranza.

LA CRITICA

Questa volta Michael Moore prende le mosse da lontano, addirittura dall’Impero Romano, per mostrare come i segnali di decadenza di quella potenza antica siano tutti rintracciabili nella realtà odierna. La domanda è più che mai esplicita e con la risposta già incorporata: quanto è alto il prezzo che il popolo americano paga a causa della confusione operata tra il concetto di Capitalismo e quello di Democrazia? Per Moore i due termini non coincidono anzi sono in più che netta opposizione soprattutto ora, dopo la crisi mondiale di cui tutti paghiamo le conseguenze.
Per sostenere la sua tesi questa volta il polemista di Flint (cittadina a cui fa ancora una volta ritorno vent’anni dopo Roger & Me) fa un uso molto più ridotto di gag verbali e visive (anche se non ci risparmia un nuovo doppiaggio del Gesù di Zeffirelli in versione liberistico-sfrenata). Perché questa volta il tema è talmente serio che lo spazio per la risata non può che essere ridotto. È ora di passare all’azione secondo Moore. Ancora una volta non per sovvertire un sistema ma per riportarlo alla purezza delle origini.
In una società in cui può esistere un gruppo immobiliare che si autodefinisce gli Avvoltoi (il cui compito è acquistare a prezzi stracciati case già pignorate per poi rivenderle facendo profitti) e in cui la classe media vede falcidiati i propri beni primari dalla rapacità di banche prive di qualsiasi seppur remoto scrupolo, Moore non può sentirsi a suo agio. E non può non solidarizzare con chi pensa che i rapinatori non siano solo quelli proposti in sequenza nelle immagini delle televisioni a circuito chiuso di banche e negozi. Oggi ci sono rapinatori che agiscono sulla sorte di milioni di persone. Qualcuno di loro comincia a pagare ma l’indignazione non è ancora giunta al livello necessario.
Il livello di cui Franklin Delano Roosevelt aveva fatto proprie le istanze ipotizzando una nuova Costituzione Americana in cui i diritti fondamentali dei cittadini venissero riconosciuti in modo assolutamente dettagliato e inequivocabile. Il Presidente morì prima di essere riuscito a farla diventare legge. Oggi il popolo americano paga questo vuoto legislativo con i posti di lavoro persi e le abitazioni letteralmente divorate da avvoltoi di diverse specie. Moore, da vero americano, auspica un ritorno al passato perché la parola futuro possa tornare ad avere un significato positivo. Quando mostra vescovi e sacerdoti schierarsi senza indugio a fianco di chi sta perdendo il lavoro viene in mente l’abusata terminologia nostrana “cattocomunista”. Non si tratta di ‘comunismo’ in questo film ma di diritti basilari che la ricerca sfrenata del guadagno non può mai (in nessuna occasione e per nessun pseudo motivo di ‘interesse generale’) calpestare.
Moore porta come esempio positivo, tra le altre, la nostra Costituzione. Faremmo bene ogni tanto a rileggerla. Magari dopo avere visto Capitalism: A Love Story (Giancarlo Zappoli – MyMovies).

Il discorso iniziato da Moore con Roger & Me (1989), e continuato con altri 6 titoli (di cui 2 TV), ha il suo culmine in questo film di denuncia contro i governi dei due Bush e il sistema bancario-assicurativo. Spiega come e da chi sia stata provocata e poi sfruttata la grave crisi sociale, economica, finanziaria in corso dal 2008. Lo fa commuovendosi col grande F.D. Roosevelt (1892-1945) che nel 1944 voleva varare una nuova Carta dei Diritti e sullo scopritore del vaccino contro la poliomielite A.B. Sabin (1906-93) che non si arricchì perché si rifiutò di brevettarlo. Mette alla gogna i due principali partiti, repubblicano e democratico. Se la prende con i poveri che votano per i ricchi, sperando di diventare come loro: succubi della disinformazione dei mass media, hanno nel DNA l’amore per il capitalismo di mercato e odiano il socialismo come il perverso frutto del Diavolo. Lo stesso Moore delimita col nastro giallo il luogo del crimine: Wall Street. È ingeneroso e un po’ stupido (talvolta in malafede) rimproverargli di fare documentari truccati, demagogici, persino divertenti e di trasformare il cinema in comizio. Ha un senso accusarlo di protagonismo e insieme di indignazione perché racconta di piloti d’aereo sottopagati; ciniche assicurazioni sulla vita da parte delle aziende che quando falliscono lasciano i dipendenti senza lavoro né liquidazioni; working poors (lavoratori poveri) che sono il 70% dei cittadini USA non coperti da assicurazione sanitaria? Fa un cinema di controinformazione. Prodotto con la moglie Ann (Dog Eat Dog Films), scritto da G. Moore con la fotografia di Jayme Roy e Daniel Marracino. (Morando Morandini)

Che cos’è il capitalismo (statunitense) per Michael Moore? Innanzi tutto, un sistema sempre esistito: già in epoca romana convivevano maestosità e decadenza. Poi, rapace economia di mercato, che fa anche delle carceri minorili, della sanità e delle morti bianche occasioni di lucro. E ovviamente sfruttamento del lavoratore, il quale, sistematicamente sottopagato, quando diventa un ostacolo al profitto viene agevolmente lasciato a casa. Ammesso che una casa gli sia rimasta, dopo tutti i debiti contratti con le banche.
Con il regista di Flint non si perde mai tempo. Il lungo excursus storico da questi imbastito snocciola infatti molti eventi risaputi, ma anche qualche risvolto poco noto (i vertici di Merrill Lynch burattinai dell’ex attore Reagan e quelli di Goldman Sachs onnipresenti ai posti di comando negli ultimi anni) o non così scontato (l’origine della reaganomics correttamente individuata nell’amministrazione Carter), mentre la sua aneddotica risulta spesso efficace ed include anche la pars construens (le cooperative autogestite). L’urgenza di informare è tale che esonda nei titoli di coda, con dati statistici e citazioni illustri alternati al cast del film sulle note di una versione swing dell'”Internazionale”. E chiama lo spettatore alla mobilitazione.
Non mancano interrogativi geniali: in quale altra occasione ci si augura che qualcuno muoia, a parte il caso delle grandi aziende quotate in borsa, di cui coraggiosamente si fanno i nomi, che stipulano polizze caso morte sulla pelle dei propri dipendenti? Né fanno difetto impennate esilaranti: la pubblicità doppiata come “Il Padrino”, il Gesù Cristo consigliere economico.
Ma quando si entra nel vivo della crisi attuale, il racconto si trasforma in una piatta cronaca dietrologica in cui l’autore ammette la propria incompetenza (non capisce nulla dei derivati) e fa ben poco per chiarirsi e chiarirci le idee. Qual è la sua tesi sulla causa ultima del crack, tra tutte quelle cui accenna? Quella mainstream della deregolamentazione finanziaria? Quella sotto-consumista degli economisti critici? Quella psicologista del panico diffuso dai media? Un mix di tutto ciò? Non è dato sapere. Sappiamo solo della sua fiducia aprioristica in Barak Obama: i lauti finanziamenti Goldman sono attribuiti alla volontà della banca d’affari di rincorrere il cavallo vincente. (Claudio Zito – Ondacinema)