Cinema e lavoro – Due giorni, una notte

Un film dei fratelli Dardenne (Belgio, Francia, Italia 2014)

Milano, 25.5.2021

Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne – Sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne – Fotografia: Alain Marcoen – Montaggio: Marie-Hélène Dozo – Interpreti: Fabrizio Rongione, Catherine Salée, Batiste Sornin, Pili Groyne, Simon Caudry, Lara Persain, Alain Eloy, Myriem Akeddiou, Fabienne Sciascia, Marion Cotillard – Produzione: Les Films du Fleuve, Eyeworks, Archipel 35 – Distribuzione: Bim Distribuzione – Durata: 95 min.

Sandra, dipendente di una piccola azienda di pannelli solari, vorrebbe tornare al proprio lavoro dopo un lungo periodo di assenza in cui si è curata dalla depressione. Il proprietario della fabbrica, che nel frattempo ha riorganizzato il processo senza di lei, distribuendo il lavoro tra gli altri dipendenti, propone loro un bonus di 1 000 euro ciascuno in cambio del licenziamento di Sandra. La prima votazione è ampiamente a favore del bonus. Sandra si ritrova senza lavoro ma Juliette, sua amica, ottiene che il referendum – influenzato dalle pressioni del caporeparto, contrario al rientro di Sandra a differenza del capo stabilimento visibilmente indifferente alle sorti della lavoratrice – venga ripetuto il lunedì mattina. Sandra ha quindi due giorni e una notte per fare campagna a favore del proprio posto di lavoro, convincendo la maggioranza dei suoi colleghi a cambiare idea. Con l’aiuto del marito inizia un porta a porta umiliante che provoca, nell’umore già scosso della donna, una continua altalena di speranze e delusioni che – in un paio di casi – diventano violenta intimidazione e botte. Sandra incontra uno ad uno i suoi colleghi di cui comprende il destino fragile, come il suo, e la continua esitazione tra solidarietà e egoismo. Alla fine Sandra ottiene 8 voti a favore e 8 contro. Avendo bisogno della maggioranza a favore, gli 8 voti non le bastano per riavere il lavoro. Dopo aver ringraziato i colleghi che hanno votato per la sua permanenza, il suo capo la chiama in ufficio e le fa i complimenti per essere riuscita a convincere la metà delle persone a supportarla. Da settembre scadrà il contratto di un dipendente a tempo determinato (un ragazzo che aveva votato per lei, anche se non viene espressamente reso noto) e il capo le dà la possibilità di prendere il suo posto. Sandra non accetta questa condizione e si mette alla ricerca di un nuovo lavoro, ma visibilmente rinfrancata dall’aver lottato per le proprie sorti.

Il tema del lavoro al centro di una storia ambientata in piena crisi economica che parla di disperazione ma anche di solidarietà

LA CRITICA

Sulla soglia del licenziamento, Sandra ha un weekend a disposizione per convincere i suoi colleghi di lavoro – cui è stato promesso un aumento se lei perderà il posto – a rinunciare all’idea di spartirsi il suo stipendio come un bottino di guerra. Si vota di lunedì, quindi due giorni una notte è la distanza che corre tra l’avere un posto di lavoro e il non averlo più, tra un portafoglio pieno e uno vuoto, tra la dignità e la depressione. Per convincerli a non affossarle l’esistenza, Sandra i colleghi li va a trovare ad uno ad uno, e tu te ne stai lì a contare insieme a lei, quasi rimpiangi che non ci sia il punteggio in sovrimpressione. Per fare suspense e avvincere lo spettatore i Dardenne non hanno bisogno di serial killer, viaggi intergalattici, zombie e vampiri. No, basta e avanza la crisi economica: avere un posto di lavoro e un piatto di minestra calda è roba da supereroi. Sandra non ha superpoteri, ma due figli da mantenere e l’energia dei disperati. La disperazione è, in questo film, l’unica risorsa di cui tutti dispongono in abbondanza. Scorre a fiumi, silenziosa ma presente, da un dialogo all’altro; la vedi affiorare alla superficie di conversazioni inchiodate alle parole feticcio della nostra epoca – rate, mutui, bollette, scadenze – le uniche oggi capaci di capovolgere in un giorno il destino di un’esistenza.Sul fronte opposto c’è invece la solidarietà, lusso che possono permettersi in pochissimi. Anche i colleghi che si dicono favorevoli al licenziamento di Sandra lo fanno per motivi del tutto comprensibili, quei quattro spiccioli in più che stanno per ricevere già mentalmente investiti in qualcosa che può dare respiro alla loro quotidianità. Ad un posto di lavoro in meno corrisponde una mezza dozzina di piccoli sogni, difesi con la tenacia di chi vuole guardare oltre la pura sopravvivenza. Due giorni, una notte è l’Hunger Game della nostra derelitta società: miserabile e fragile come le vite che racconta, costrette ad equilibrismi sul filo di uno stipendio che oggi c’è e domani chissà. Con un finale che ti rimane dentro e non se ne va, perché Sandra a furia di correre ne ha fatta di strada, anche e soprattutto dentro di sé. (Leonardo Gandini – Cineforum.it)

Sandra ha un marito, Manu, due figli e un lavoro presso una piccolo azienda che realizza pannelli solari. Sandra ‘aveva’ un lavoro perché i colleghi sono stati messi di fronte a una scelta: se votano per il suo licenziamento (è considerata l’anello debole della catena produttiva perché ha sofferto di depressione anche se ora la situazione è migliorata) riceveranno un bonus di 1000 euro. In caso contrario non spetterà loro l’emolumento aggiuntivo. Grazie al sostegno di Manu, Sandra chiede una ripetizione della votazione in cui sia tutelata la segretezza. La ottiene ma ha un tempo limitatissimo per convincere chi le ha votato contro a cambiare parere. I Dardenne fecero il loro esordio con un lungometraggio di finzione nel panorama cinematografico mondiale nel 1996 con La promesse in cui si trattava il tema del lavoro clandestino. Con il successivo Rosetta tornarono ad affrontare l’argomento occupazione conquistando non solo una Palma d’oro a Cannes ma anche e soprattutto una legge a tutela del lavoro giovanile che prese il nome del film in quanto originata dalle discussioni che in Belgio questo aveva suscitato. Sono solo due esempi dell’attenzione portata all’argomento dai due registi che ora torna al centro del loro cinema. Gli appassionati (cinefili e non) ricorderanno certo lo straordinario esordio di Sidney Lumet dietro la macchina da presa. Si intitolava La parola ai giurati e in esso Henry Fonda doveva convincere una giuria, in gran parte favorevole a una condanna per parricidio, a mutare parere. La condanna che i Dardenne individuano oggi è quella, endemica, della perdita del posto di lavoro. Venute meno le tutele, con l’assenza nelle piccole aziende del nucleo sindacale, le decisioni restano appannaggio dei proprietari. Oppure, come in questo caso, possono essere subdolamente delegate a una guerra tra poveri che spinga ognuno a guardare ai propri bisogni azzerando qualsiasi ideale di solidarietà. Quella solidarietà che i due registi riescono ancora a rinvenire nella famiglia (quella di Sandra con un marito solido al fianco e i bambini che l’aiutano a individuare gli indirizzi dei colleghi da cercare per convincerli a cambiare decisione). Anche se non per tutti è così. Il percorso della protagonista ci pone di fronte alle situazioni più diverse: c’è chi si nega, chi ha paura, chi ricorda un suo gesto di generosità del passato. Le etnie di provenienza sono le più diverse ma il senso di insicurezza profonda accomuna tutti. I Dardenne non hanno mai edulcorato la loro rappresentazione della realtà e non lo fanno neppure in questa occasione. C’è chi cambia idea così come c’è chi si irrigidisce ancora di più. Poi c’è Sandra. Questa giovane madre incline al pianto e alla disistima di se stessa che nella sua ricerca di consensi ritrova progressivamente la forza di reagire senza umiliarsi, di chiedere comprensione per sé conservandola per gli altri. Sono così i personaggi dei Dardenne. Veri perché fragili. Veri perché umani. (Giancarlo Zappoli – MyMovies)

Una piccola azienda che realizza pannelli solari offre un bonus di 1000 euro agli impiegati che voteranno per il licenziamento di Sandra, anello debole della catena produttiva per trascorsi di depressione. Lei combatte, appoggiata dal marito, e contatta uno per uno i colleghi per portarli dalla sua parte. Il tema del lavoro è spesso presente nei film dei registi che qui raccontano una storia di potere subdolo che delega decisioni ingiuste alle vittime stesse, di guerra tra poveri, ma anche di solidarietà, realistica, priva di facile buonismo (alcuni degli interpellati cambiano idea, altri si irrigidiscono ancora di più contro di lei). E al centro c’è un personaggio di donna fragile, insicura, facile alle lacrime, che nel suo percorso di ricerca della solidarietà cresce facendo crescere gli altri e ne esce rafforzata senza alcun cedimento alla retorica. La Cotillard esagera in mobilità facciale, ma è perdonabile. (M. Morandini)

I fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne hanno fatto dell’adesione alla realtà, scomoda e dura, il marchio di fabbrica del loro cinema. Dal primo, piccolo film La promessa a metà anni 90, seguito da Rosetta, Il figlio, L’enfant e Il matrimonio di Lorna, fino al precedente Il ragazzo con la bicicletta (tutti premiati al festival di Cannes, due volte con la Palma d’oro), i Dardenne hanno scelto i più umili come oggetto delle loro storie, spesso incentrate sul lavoro (ma anche sui sentimenti), asciutte fino al rigore – senza alcun orpelli, spesso senza nemmeno commento musicale – ma intrise di pietà. Eredi spirituali del grande maestro francese Robert Bresson, negli ultimi due film hanno mantenuto il rigore temperandolo con un respiro umano maggiore che ne facilità l’apprezzamento da parte di platee più ampie dei cinefili duri e puri (che, non a caso, si sono raffreddati nei loro confronti), anche grazie a interpreti popolari. Se ne Il ragazzo con la bicicletta c’era la connazionale Cecile de France (nota in tutta Europa ma attiva anche negli Usa, come in Hereafter di Clint Eastwood), stavolta troviamo Marion Cotillard, star francese spesso impegnata a Hollywood (ha lavorato due volte con Christopher Nolan, in Inception ed era nell’ultimo film di Batman, Il cavaliere oscuro – Il ritorno). In questo film, che mostra la grandezza e la meschinità dell’animo umano – la crisi tira fuori il meglio e il peggio dalle persone – la Cotillard accetta un aspetto quanto mai dimesso, per interpretare un personaggio toccante e che non si dimentica, in una storia che tiene con il fiato sospeso fino all’ultimo (e chi prima di aver visto il film teme di capire troppo, anche se non sveleremo certo come va a finire la sua impresa, si fermi pure qui nella lettura). Come non si dimentica quel marito (l’attore belga di origine italiana Fabrizio Rongione, spesso utilizzato dai Dardenne) che non molla mai una moglie sempre sul punto di crollare, le sta vicino, la sprona a riconoscere quel che lei ha (la loro unione: che bella la scena in cui la fa sorridere e cantare in auto) e la spinge a non desistere in una lotta in cui in palio non c’è solo un posto di lavoro, ma soprattutto il rispetto di se stessa. Quando starà per venir meno, sarà la sua voce a impedirle di arrendersi. Un film potente (e con un finale bellissimo), tra i migliori dei Dardenne, che conferma la loro sensibilità e passione per un’umanità fragile ma orgogliosa, indifesa e vera. (Antonio Autieri – Sentieri del Cinema)