Cinema e lavoro – Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà

Un film di Ken Loach (Gran Bretagna/Francia, 2014)

Milano, 26.3.2021

Regia: Ken Loach – Soggetto: Donal O’Kelly – (opera teatrale) – Sceneggiatura: Paul Laverty – Fotografia: Robbie Ryan – Musiche: George Fenton – Montaggio: Jonathan Morris – Scenografia: Fergus Clegg – Costumi: Eimer Ni Mhaoldomhnaigh – Interpreti: Barry Ward, Simone Kirby, Jim Norton, Andrew Scott, Francis Magee, Mikel Murfi, Sorcha Fox, Martin Lucey, Shane O’Brien (II), Seamus Hughes, Aileen Henry, Karl Geary, Denise Gough, Aisling Franciosi, Donal O’Kelly, Seán T. Ó Meallaigh, Conor McDermottroe, Brían F. O’Byrne – Produzione: Sixteen Jimmy Limited, Why Not Productions, Wild Bunch, Element Pictures, Channel Four Television Corporation, France 2 Cinéma, The British Film Institute And Bord Scannán Na Héireann/The Irish Film Board – Distribuzione: BIM Durata: 109’.

Irlanda, anni Trenta. Jimmy Gralton torna a casa, nella Contea di Leitrim, per aiutare la madre a prendersi cura della fattoria di famiglia. Jimmy ha passato dieci anni in esilio negli Stati uniti e il Paese che ritrova, dopo anni di Guerra Civile, ha un nuovo governo ed è pieno di speranze. Spinto dai giovani della Contea di Leitrim, Jimmy accetta di riaprire la “Pearse-Connolly Hall”, una sala dove le persone possono incontrarsi per ballare, studiare o discutere. Ma Jimmy sa che la sua decisione e le sue idee progressiste riaccenderanno gli antichi dissapori con la Chiesa e i proprietari terrieri. Infatti, puntualmente, il successo del luogo fa riaffiorare le tensioni.

Ken Loach ad ogni nuovo film dimostra una coerenza nel trattare i temi sociali a partire dalla visione della classe lavoratrice unica. In questo caso, rifacendosi ad una storia vera ambientata negli anni ’30, affronta il tema della lotta di classe ma anche dell’importanza della cultura nello sconfiggere l’emarginazione.

LA CRITICA

Viene difficile credere che questo sarà il suo ultimo (o penultimo ?) film, che girare gli costa ormai una gran fatica. Pure se parliamo di un uomo di 77 anni. Viene difficile credergli perché Ken Loach appartiene a quella meravigliosa generazione di cineasti (come Woody Allen, De Oliveira, etc…) che invecchiando migliorano. Un po’ come il whisky che aveva tenuto banco nel suo precedente lavoro (La parte degli angeli).
Il regista britannico fa sembrare il cinema la cosa più semplice del mondo: nel suo realismo secco e immediato, non c’è quasi mai una scena di troppo, un movimento di macchina inopportuno, una battuta sbagliata, un personaggio fuori luogo. La storia che racconta e gli eroi che ci propina sono da decenni gli stessi, ma sempre trovando una chiave inusuale, ogni volta toccando le corde giuste: la fabbrica, la guerra, il calcio, l’alcol, l’amore e, ora, il ballo. Sostenuto come al solito dall’ottima sceneggiatura di Paul Laverty, Ken Loach riceve a Cannes l’ennesima ovazione con Jimmy’s Hall, un altro impeccabile ed energico ritaglio dalla storia fuori dai libri di storia: la ribalta la merita stavolta James Gralton (Barry Ward), l’unico uomo irlandese ad essere stato espulso dal proprio paese. Siamo negli anni ’20 e Gralton è un giovane e carismatico attivista politico, costretto una prima volta ad emigrare dall’Irlanda negli Stati Uniti. Tornato in patria dieci anni dopo e forte dell’esperienza col jazz vissuta in terra americana, Gralton decide di ripetere il felice esperimento del Music Hall, una sala da ballo e un luogo di ritrovo in cui poter studiare (varie discipline: dalla letteratura alla boxe, passando dal disegno), confrontarsi ed emanciparsi da un destino di sottomissione e di ignoranza. Il progetto trova entusiastica adesione da parte degli uomini e delle donne del villaggio, ma anche la forte ostilità delle istituzioni locali, in primis dei rappresentanti della Chiesa, timorosi di perdere il proprio potere d’influenza (anche se al suo interno le posizioni sono più sfumate di quanto non sembri).Il conflitto non tarderà ad esplodere, riproponendo una delle classiche contrapposizioni del cinema di Loach, comunismo vs. religione, che sta ovviamente per libertà vs. autorità. E torna anche la questione irlandese, con buona pace dei suoi connazionali (gli inglesi non gliel’hanno mai perdonata). Con il consueto movimento narrativo a fisarmonica (dal focus principale ad altri temi sotterranei, e ritorno), il registro ora drammatico e ora ironico (mai sbilanciato in un senso o nell’altro), la capacità di perorare la propria causa passando sempre dal vissuto umano, Loach parla netto e parla chiaro, e ne ha per tutti. Parla soprattutto agli spettatori del presente ricordando loro che la vita non è in delega a politici, banche o venditori di pentole, ma è affar nostro ed è ora di andarcela a riprendere: Shall We Dance? (Gianluca Arnone – Cinematografo.it)

Una storia vera, anche se ampiamente romanzata. Un personaggio eroico come ce n’è ormai pochi. E tutto il romanticismo degli eroi ‘contro’ cari a Ken Loach, proiettati in un piccolo mondo perduto e struggente, l’Irlanda rurale degli anni 30, che tornava improvvisamente a sperare malgrado le ferite della Guerra civile e le cupezze della Grande Depressione. (…) un concentrato di energia che resuscita un personaggio leggendario nell’Irlanda del Nord, Jimmy Gralton. Anche se come sempre in Loach nessuno è un’isola, la luce che illumina ogni protagonista arriva dal mondo circostante. (…) Temperato da un buonumore contagioso e da una capacità di dare vita con pochi tratti a personaggi straordinari (…) che resuscita la grandezza e la generosità di certi film di John Ford. Anche se con molta nostalgia e disillusione in più. (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 16 dicembre 2014)

(…) anche se si parla di libertà e di ribellione il film appare invece piuttosto convenzionale, privo della sgangheratezza di una proletaria di verità. Tutto procede come la scrittura – prevede: scontri, entusiasmi, tradimenti, «citazioni» fordiane e un eccesso di sentimentalismo tra vite mancate come gli amori, e occasioni perdute si intrecciano senza nessuno spazio vuoto, nessun margine possibile di ruvida conflittualità. Loach ha già raccontato la storia politica dell’Irlanda e la sua guerra contro l’Impero britannico (con cui Loach ha vinto la Palma d’oro), dove però la dissacrazione dell’inglese, lui stesso, tirava fuori la rabbia e l’ambiguità della Storia. ‘Jimmy’s Hall’ si svolge invece in una sorta di «schema» del film impegnato in cui tutti i personaggi – e gli attori sono molto bravi, peccato che il pubblico italiano li vedrà per lo più doppiati perdendo così, come sempre nel nostro mercato, una buona metà del film – sono rigidamente inquadrati nel loro ruolo, e persino lui, il rivoluzionario Gralton, bello e irruento, non sembra avere dalla regia le armi per sfuggire, almeno un poco, a sé stesso. Il film, applauditissimo sulla Croisette, si fa trascinare dalla musica gaelica, si immerge nei paesaggi verde smeraldo, inanella lane grosse e caschetti anni Trenta, ammicca alla narrazione emotiva e però non sembra trovare un contrappunto, un controcampo, qualcosa in cui lo spettatore non venga sempre assecondato e soddisfatto nella sua indignazione (…) la figura di Gralton meritava comunque di essere raccontata, Loach ne fa l’eroe di una ballata malinconica, un po’ amara ma con tenerezza. (Cristina Piccino, ‘Il Manifesto’, 17 dicembre 2014)

Torna irlandese Ken Loach con un bel western sociale (…). Pur finendo con un’altra partenza, trattasi di un allegro inno alla voglia di vivere e di partecipare, un realismo verde magico alla Ford che trova in Barry Ward il suo uomo tranquillo in un sintonizzato e manicheo coro diviso tra bravi e cattivi. (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 18 dicembre 2014)

Quello di Loach è un cinema politico caratterizzato da una forte divisione tra «buoni e cattivi» e questa sceneggiatura è fatta su misura per schematizzare il confronto. Allegra la colonna sonora e bravo il carismatico Barry Ward. (A.S., ‘Il Giornale’, 18 dicembre 2014)

Lotta per l’arte, lotta di libertà. Vicenda storica che sembra inventata per Loach&Laverty (lo sceneggiatore), cinema brechtiano, progressista, marxista salariale, pubblico-privato, non manicheo né schierato, in una parola sincero. (…) Divisione esemplare delle parti: iniziativa, repressione, rivolta, parziale rivincita per ritrovare un’ipotesi di democrazia. (Silvio Danese, ‘Nazione – Carlino – Giorno’, 19 dicembre 2014)

Ken Loach torna nell’Irlanda che aveva messo al centro del suo cinema ne Il vento che accarezza l’erba e lo fa in modo apparentemente inusuale. Perché al centro di questa storia ci sono uomini e donne che difendono quello che un tempo avremmo definito un dancing. La musica che accompagna le dure immagini della Depressione americana potrebbe aprire un film di Woody Allen ma il contesto è e resta quello più amato dal regista inglese: la vita di uomini e donne che cercano nella condivisione di idee e di spazi quel senso della socialità che altri vorrebbero irregimentare per poterlo controllare il più possibile. Quello che Jimmy Granton (attivista socialista realmente esistito) edifica per due volte è di fatto un centro sociale ante litteram in cui si possono condividere saperi ma anche la gioia dello stare insieme. Definire ‘peccaminose’ le danze che vi si praticano è, per la chiesa locale e per gli esponenti della destra, solo un pretesto per impedire la circolazione di idee ritenute pericolose. Chi frequenta la Pearse-Connolly Hall è spesso anche un buon cristiano che partecipa alla messa domenicale. È proprio questo che va colpito e debellato da quel potere ecclesiastico che però, a differenza dei reazionari più retrivi, è ancora capace di comprendere l’onestà degli intenti dell’avversario. Il film esce in un tempo in cui a Roma siede un pontefice che ha dichiarato di saper ballare la milonga e di non sostenere ovviamente il comunismo ma anche di aver conosciuto tante brave persone che erano comuniste. Jimmy’s Hall potrebbe piacergli (Giancarlo Zappoli – MyMovies)

Irlanda 1932, sullo sfondo della Grande Depressione, va al governo il partito repubblicano di sinistra (Fianna Fáil). Jimmy Gralton, piccolo proprietario di idee socialiste fuggito a New York perché nel mirino della destra durante la guerra civile del 1922, può tornare a casa. I nuovi giovani, per i quali è un eroe, gli chiedono di riaprire il capannone-balera dove organizzava feste da ballo, ma che era anche una sorta di scuola popolare con corsi di letteratura, pittura, pugilato, danze popolari. Jimmy riapre la sua hall , che diventa anche una “camera del lavoro” dei contadini affittuari, sfrattati dai grandi proprietari. È preso di nuovo di mira dai notabili di destra e soprattutto dal potente parroco che, pur stimandolo, lo considera, a ragione, un pericolo mortale per la Chiesa cattolica. 25° film di Loach, ricavato, almeno parzialmente, da una ricerca documentaria su un personaggio reale, è forse il più riuscito frutto della ventennale collaborazione alla sceneggiatura con Paul Laverty: 1) perché sublima l’ideologia nell’ideale, innalza l’impegno politico a impegno esistenziale, amplia la lotta di classe a lotta di cultura, di modo di vivere, di umanità, coniugando il pane e le rose, il politico e il privato; 2) perché, in forme classiche, rende come non mai la bellezza dell’Irlanda, quella naturale – nelle mille sfumature del suo vitale, prorompente, profondo verde (fotografia di Robbie Ryan) – e quella storico-sociale, attraverso le architetture, gli arredi, le vesti, gli ornamenti della sua civiltà contadina del primo ‘900 (scene di Fergus Clegg, costumi di Eimer Ni Mhaoldomhnaigh). La distinzione tra migliori e peggiori emerge netta, ma senza manicheismi: la figura del parroco tiene onorevolmente testa a quella di Jimmy, quasi come nelle vere tragedie, in cui si scontrano due verità equivalenti. Storicamente, fornisce un’immagine icastica della pervasività del controllo sociale esercitato dalla Chiesa cattolica. Distribuisce BiM. Presentato a Cannes 2014. (M.Morandini)