Cinema e lavoro – La legge del mercato

Un film di Stéphane Brizé (Francia, 2015)

Milano, 27.9.2021

Regia: Stéphane Brizé – Sceneggiatura: Stéphane Brizé, Olivier Gorce – Fotografia: Éric Dumont – Montaggio: Anne Klotz – Interpreti: Vincent Lindon, Karine de Mirbeck, Matthieu Schaller, Yves Ory – Produzione: Arte France Cinéma, Nord-Ouest Productions – Distribuzione: Academy Two – Durata: 93 min.

Thierry ha 51 anni e non ha più un lavoro. Stanco di lottare contro la fabbrica per cui lavorava, che ha delocalizzato, si impegna con tutto se stesso in corsi di formazione e colloqui di lavoro, tra umiliazioni e false speranze. Dalla sua ha una moglie che ama e un figlio altrettanto caparbio nel voler continuare gli studi malgrado la disabilità. Quando finalmente l’impiego arriva, Thierry si trova di fronte a un dilemma morale, essendo ora in una posizione di potere nei confronti dei colleghi: in qualità di guardia giurata di un grande supermercato, deve sorvegliare e comunicare al direttore se qualcuno ruba o commette altre infrazioni passibili di licenziamento.

Il film si caratterizza anche per la scelta produttiva. Si tratta di un’opera di denuncia che fa i conti anche con la produzione dal momento che è stato coprodotto dal regista e dagli interpreti che, rinunciando a parte del loro salario, hanno permesso di pagare normalmente la troupe. È il primo film di una trilogia di Brizé sul mondo del lavoro che comprende anche In guerra (2018) e Un autre monde (2021).


LA CRITICA

Il lavoro è il tema per eccellenza della società europea degli ultimi anni. Come nelle migliori sceneggiature lo rimpiangiamo quando lo perdiamo. Il cinema cerca di raccontarlo da tempo, con varie gradazioni di impegno ed efficacia. Le radici di La loi du marché affondano nel cinema del primo Laurent Cantet, ma soprattutto nello stile visivo ed emotivo del cinema raffreddato dei fratelli Dardenne. Camera a spalla, incollata sul viso o la nuca del protagonista, per raccontare un marginale. Thierry ( Vincent Lindon) è un cinquantenne che ha perso lavoro da venti mesi e cerca di riconvertire la propria professionalità. In epoca di dibattito nostrano sul reddito di cittadinanza rivendica il valore identitario del lavoro, vivendo gli aiuti sociali di uno stato chioccia come quello francese con sofferenza. Rimettersi in gioco a quell’età è ovviamente uno sforzo titanico ancor prima interiore che materiale; una rincorsa di umiltà, che rischia di diventare rassegnazione. Il film di Stéphane Brizé si svolge quasi interamente all’interno di una di quelle piccole stanze ufficio risparmiate dall’invadenza degli open space. Non che sia un valore aggiunto, visto che sono un trionfo di neon e scrivanie dozzinali, dietro alle quali il protagonista di siede per sentire spiegazioni assurde, subendo senza poter reagire al continuo declassamento della sua condizione sociale ed emotiva. Nel processo di spersonalizzazione del rapporto lavorativo i colloqui si fanno su skype. Come tradizione del nostro vecchio continente, almeno al cinema, ci si rimette in gioco solo perché costretti da fattori esterni, vivendo la situazione come un lutto da elaborare; al contrario dello spirito anglosassone che veicola il valore propositivo della seconda possibilità da cogliere al volo, del moto continuo professionale, oltre che sociale. Thierry prosegue i suoi tentativi con l’ostinazione di chi ha sulle spalle una famiglia, per di più con un figlio disabile (era necessario accumulare anche questo peso?). In anni come questi si deve ritenere anche fortunato: ottiene un lavoro, in cui dopo aver tanto subito le decisioni altrui, diventa arbitro del destino di altre persone. Il suo compito è quello di controllare eventuali furti in un grande magazzino, anonimo crocevia in un anonimo centro commerciale. Occasione per mettere alla prova la sua capacità di non smarrire l’identificazione con i marginali, senza vendere l’anima a chi interpreta alla lettera leggi e regolamenti per umiliare piccole disperazioni. Proprio dignità e umiliazione sono in gioco in un film che arriva con qualche anno di ritardo e ripropone archetipi abusati – come il centro commerciale fulcro di una società spersonalizzata – accumulando lunghe scene di dialogo ottimamente interpretate da Vincent Lindon. È proprio la sorprendente misura di quest’ultimo a rendere La loi du marché credibile e profondamente reale. Come la crisi esistente nel rapporto fra uomo e lavoro. (Mauro Donzelli – Comingsoon)

Austero, freddo e spietatamente distaccato, il nuovo film di Stéphane Brizé è l’ennesimo tentativo di portare al cinema i problemi della disoccupazione e della nuova povertà, frutto dell’odierna crisi economica. Un tentativo però che in qualche modo, grazie proprio alla suddetta imperturbabilità e alla mancanza di una vera trama, riesce nel lavoro di traduzione della situazione di precarietà sociale contemporanea, in immagini-movimento efficaci e comunicative. Thierry Taugordeau è un cinquantenne francese trovatosi disoccupato dopo il fallimento dell’impresa in cui lavorava. Dopo mesi di ricerca in agenzie di collocamento, riesce finalmente a trovare un impiego come addetto alla sicurezza in un supermercato. Si troverà però davanti a un importante conflitto morale quando arriverà a dover denunciare persone senza i soldi per pagare o, addirittura, i suoi stessi colleghi.
Questa parabola cruda non ha (e non potrebbe avere) una reale conclusione, perché il dilemma etico di Thierry è inconcludibile e ineliminabile: è insito nel modello di società in cui tutti noi viviamo. Esso porta in sé l’essenza del tragico, definita come lo scontro tra due principi contrapposti, ma entrambi giustificabili e in qualche modo necessari: da una parte c’è chi per vivere è costretto a rubare, dall’altra chi, per non dover egli stesso rubare, è costretto a impedire questi furti. Da una parte il sentimento di fratellanza, che vede negli occhi di chi ruba per fame gli occhi di un fratello, dall’altra il solipsismo animale, che pensa in primis alla propria sopravvivenza. Il dubbio morale assume allora qui i connotati del cannibalismo: di chi è costretto a uccidere i propri simili per non essere divorato dal mostro della disoccupazione. Mangiare o essere mangiati è la dura legge di un mercato che si è trasformato in Divinità. Un Dio-Mercato ubiquo e onnisciente, che tutto vede attraverso gli occhi delle telecamere poste in ogni luogo, come un grande fratello contemporaneo. Un Dio-Mercato dai mille servitori, irrapresentabile, che si confonde nella massa e che è massa (intelligente in questo senso la scelta di Brizé di mantenere spesso fuori campo l’immagine dei datori di lavoro durante i colloqui, facendone sentire solamente le voci. Quasi a rimarcare l’impossibilità di assegnare un volto al potere). Non più dunque un potere personificato, ma mimetizzato, indefinito e per questo inattaccabile.
Vale la pena citare qui una della scene portanti del film: quella del colloquio di lavoro via Skype, che mostra l’alienazione dell’uomo nella tecnologia, il cinismo dei rappresentanti verso i sottoposti, la totale mancanza di rapporti umani diretti.
Un Dio-Mercato che accusa e condanna, che ispeziona i movimenti di tutti, senza eccezione. Struttura in cui, come nella colonia penale di kafkiana memoria, vale il principio per cui “la colpa è sempre fuori dubbio”: nessuno sfugge agli occhi delle telecamere, chiunque è un possibile colpevole. “Il ladro non ha età, non ha colore” insegna a Thierry un collega. Un Dio-Mercato, infine, che si appropria di ogni istante della vita umana e la assoggetta alla sua autorità. Persino l’esperienza della morte è vissuta all’interno del posto di lavoro, come a negare persino una possibilità di fuga ultraterrena.
Pare insomma non esserci più nessuna intimità, nessun rifugio protetto dal mondo esterno, nessuna dimensione privata. La pellicola evidenzia così la crisi dell’individualità di fronte alla massificazione e lo fa attraverso elementi stilistici dal forte potere simbolico: la totale mancanza di sorrisi, i piani-sequenza che seguono il protagonista alle spalle, ancora una volta eliminandone il volto: simbolo della soggettività. Anche la mancanza di obiettivi nei protagonisti, costretti a vivere solamente nell’ottica del lavoro, sembra ammiccare a questa dimensione. I valori assoluti in cui credere sono crollati e persino le distrazioni, gli hobbies, persino il ballo si riduce a un gioco di ruolo tra chi conduce e chi viene condotto.
Tuttavia alla nuova tavola delle leggi, dettata all’uomo dal Mercato, pare sopravvivere in Thierry una forza più autentica, una moralità prima, innata, il cui germe si conserva ancora: è la morale della solidarietà, di chi vede negli occhi del prossimo un riflesso di se stesso, della propria stessa condizione. Il modello sociale ha inghiottito il protagonista, gli ha imposto le sue regole, ma le espressioni di Lindon tradiscono il rammarico, la tristezza nel dover portare a compimento il suo dovere. Si ritorna allora all’essenza del tragico: allo scontro tra una legge artificiale, necessaria al proprio vivere all’interno del Leviatano sociale, e una legge etica originaria e totalmente umana: quella della solidarietà, per prendersi cura, del com-patire. Emblematico il titolo del film nella distribuzione in lingua anglofona (“The Measure Of A Man”) che ci pone, in chiusura, un’ineludibile domanda: qual è il valore di un uomo? Quello calcolato sulla base dei protocolli sociali o quello che richiama a una situazione autentica, di comprensione dell’altro? Questo il quesito a cui “La legge del mercato” tenta di (non) rispondere, puntando tutte le sue forze sull'(in)espressività di Vincent Lindon (unico attore professionista all’interno del cast), che si porta a casa con grande merito il premio alla migliore interpretazione maschile al festival di Cannes. A lui, in costante dialogo con l’istanza narrante della macchina da presa, è affidata pressoché tutta la scena, essenzialissima e privata di qualsiasi manierismo o slancio estetico. Il film rimane su un costante livello di apatia ed è caratterizzato da una certa ripetitività narrativa delle sequenze, ma ciò non fa che evidenziare maggiormente lo stato interiore dell’uomo contemporaneo. Eccessiva ed evitabile pare però la scelta dell’inserimento del figlio disabile, che risulta sovrabbondante nel rimarcare la condizione spiacevole del protagonista, già ben definita anche senza questo elemento. (Eugenio Radin – Ondacinema)

Sceneggiato con Olivier Gorce, è il 6° film del regista: un’opera d’autore sulla depressione post 2008 “che occhieggia dalle parti di Ken Loach e dei fratelli Dardenne” (Christoph Brangé), ma con un sottotesto etologico – l’animale ferito su cui si accaniscono le iene – ed etico – l’eroismo del giusto, fatto di mitezza e rassegnazione ma anche di indignazione e coraggio. Stile originale, rigorosamente realistico ed essenziale, ellittico e sincopato, con lunghi piani sequenza, inquadrature di 3/4 di spalle e di quinta, assenza di commento musicale, fotografia (Eric Dumont) volutamente opaca. Meritata Palma d’oro per il miglior attore protagonista a Lindon, capace di un’interpretazione esteriormente minimalista, interiormente massima. (Morando Morandini)