Cinema e lavoro – La mia famiglia va in Germania

Un film di Yasemin Samdereli

Milano, 9.7.2020

Regia: Yasemin Samdereli – Sceneggiatura: Nesrin Samdereli, Yasemin Samdereli – Fotografia: The Chau Ngo – Musiche: Gerd Baumann – Montaggio: Andrea Mertens – Scenografia: Alexander Menasse – Costumi: Steffi Bruhn – Interpreti: Vedat Erincin (Hüseyin anziano), Fahri Ogün Yardim (Hüseyin giovane), Aylin Tezel (Canan), Lilay Huser (Fatma anziana), Demet Gül (Fatma giovane), Denis Moschitto (Ali), Rafael Koussouris (Cenk), Petra Schmidt-Schaller (Gabi), Aykut Kayacik (Veli adulto), Aycan Vardar (Veli a 10 anni), Ercan Karacayli (Muhamed adulto), Kaan Aydogdu (Muhamed a 8 anni), Siir Eloglu (Leyla adulta), Aliya Artuc (Leyla a 4 anni) – Produzione: Roxy Film Gmbh-Infafilm Gmbh – Distribuzione: Teodora Film – Durata: 97’.

La famiglia Ylmaz, metà turca e metà tedesca, vive in Germania da quando il nonno Hüseyin vi è immigrato alla fine degli anni 60, come “lavoratore ospite”. Una sera, durante una riunione di famiglia, Hüseyin sorprende i suoi cari con la notizia dell’acquisto di una casa in Turchia dove vuole che tutti si trasferiscano. Nonostante i familiari si ribellino a questa decisione, Hüseyin rifiuta di accettare una risposta negativa e costringe tutti a partire per la Turchia. E’ l’inizio di un viaggio pieno di ricordi, discussioni e riconciliazioni.

Una divertente commedia sulla integrazione nella Germania del boom economico

LA CRITICA

Se qualcuno veramente pensa, come hanno as­serito nelle scorse settimane dapprima la cancelliera tedesca Angela Merkel e poi anche i premier britannico Davld Ca­meron, che il multiculturalismo in Euro­pa abbia fallito, dovrebbe guardare con attenzione il film Almanya – Willkom­men in Deutschland, ovvero Benvenuti in Germania, la pellicola che in questi primi giorni dei Filmfest berlinese ha riscosso la maggior dose di applausi. Tutti me­ritatissimi per altro, perché si tratta di una commedia sottile, spesso melanconica, ma a tratti anche esilarante, figlia di quel filone cinematografico che potrem­mo definire turco-tedesco che ha in Fatih Akin il suo più celebre capofila.
«Ma io sono turco o tedesco?». Il dramma inizia quando un bambino di sei anni in una scuola della Germania di oggi si interroga sulla propria identità culturale. Questione cruciale perché dal la risposta dipende la scelta di giocare a pallone nella squadra dei bambini tedeschi o di quelli turchi E la risposta non è facile, perché il piccolo in questione è nato in Germania e parla perfettamente il tedesco, ma il suo nome, Cenk Ylmaz, rivela inequivocabili origini turche. Tocca alla sorella maggiore e soprattutto al nonno raccontare al piccolo la storia della loro famiglia. Da qui ha inizio la rievocazione di una vicenda esempla­re di quella che è stata l’emigrazione di massa dalla Turchia verso la Germania negli anni Sessanta. Dalla lontana Anatolia il ventenne Huseyin Yilmaz prima da solo e poi con la famiglia, si trasferisce in Baviera per dare il suo contributo al boom dell’economia tedesca Un impatto forte con questo paese mille miglia lontano dal suo, dove si portano a spasso i cani, le donne sono poco coperte e gli uomini sono biondi, alti e mangiano carne di maiale. Dopo aver lavorato come manovale per 45 anni il Gastarbeiter turco riceve l’onore della cittadinanza tedesca, ma in lui scatta il desiderio di rivedere la vecchia patria. La moglie, i quattro figli ormai adulti e il nipotino lo seguono in questo viaggio nella memoria alla scoperta di un mondo, quello della Turchia, che nel frat­tempo è diventato per tutti loro estraneo. Giocando con ironia sui cliché e senza mai cadere nella retorica, la giovane regista Yasemin Samdereli, lei. stessa tedesca di origine turca, ha confezionato un ottimo film, destinato a raccogliere molti successi. Un’opera che secondo la regista va intesa come testimonianza del fatto che «il multiculturalismo in Europa in realtà è appena cominciato». (G.U., L’Unità, 14/2/2011)


Dopo aver lavorato per 45 anni come operaio ospite (“Gastarbeiter”) Hüseyin Yilmaz, annuncia alla sua vasta famiglia di aver deciso di acquistare una casetta da ristrutturare in Turchia. Vuole che tutti partano con lui per aiutarlo a sistemarla. Le reazioni però non sono delle più entusiaste. La nipote Canan poi è incinta, anche se non lo ha ancora detto a nessuno, e ha altri problemi per la testa. Sarà però lei a raccontare al più piccolo della famiglia, Cenk, come il nonno e la nonna si conobbero e poi decisero di emigrare in Germania dall’Anatolia. Esiste ormai nel cinema contemporaneo dai tempi di East is East un modello di narrazione che potremmo definire “commedia sull’integrazione”. Di solito si tratta di una famiglia di immigrati che risiede all’estero da tempo e che è ormai abbastanza ampia da consentire la compresenza della prima generazione con quella di figli e/o nipoti nati su suolo straniero. Almanya aderisce pienamente al modello senza particolari originalità se non per la caratteristica (determinante) di scegliere come proprio soggetto una famiglia turca. Come è noto la nazione che in Europa ospita il maggior numero di turchi è proprio la Germania. I dati statistici ci dicono che su 82 milioni di abitanti i turchi costituiscono un’entità di circa 1.7 milioni di persone legalmente residenti. I problemi legati all’integrazione non sono sicuramente mancati. Di recente però, grazie anche all’opera di Fatih Akin, il cinema tedesco ha prodotto film che costituiscono un ponte fra le due culture. Mancava però la commedia generazionale che prende le mosse, grazie all’escamotage della narrazione al piccolo di famiglia, da come il nonno fosse giunto come milionesimoeuno emigrante nella Germania del boom economico. Si sviluppa così una sorridente alternanza tra un passato di difficoltà e una progressiva crescita operosa. L’idillio prevale sui contrasti ma l’ironia non manca. Così come viene descritta con una molteplicità di sfaccettature la figura del nonno pronto ad integrarsi al suo arrivo ma ora assolutamente disinteressato ad acquisire la nazionalità tedesca caparbiamente voluta e ottenuta dalla moglie. Soprattutto nella parte finale il film (che invece regge bene il ritorno in Turchia con acute osservazioni sui pregiudizi) non riesce a sfuggire a un po’ di retorica al glucosio che finisce con il nuocergli più che portargli vantaggi. Questo però non inficia la resa complessiva di un’opera divertente che consente anche ai non esperti di storia e società tedesche di divertirsi e (magari, perché no?) di fare anche produttivi paragoni con situazioni italiche passate e presenti. (Giancarlo Zappoli-MyMovies)


Il benvenuto in Germania è quello che riceve il patriarca della famiglia, l’armeno Huseyin Yilmaz quando giunge il 10 settembre 1964, milionesimo straniero all’ufficio immigrati e, cedendo il posto per cortesia, si trova milionesimo +1 e quindi ri-precipitato nell’anonimato più oscuro. Proprio la sua storia oscura viene raccontata ad un nipote bambino, umiliato a scuola dal rifiuto dei compagni turchi ad immetterlo nella propria squadretta (non è più turco, essendo i suoi genitori ormai di nazionalità tedesca) e dalla parallela ripulsa dei tedeschi (che tedesco è uno che si chiama Cenk Canan e la cui famiglia proviene da un paese che non sta nemmeno nella carta d’Europa?). I quarantacinque anni della storia del patriarca, dei suoi figli e dei suoi nipoti, si snodano con grazia attraverso il racconto, fatto di armoniosi flashback, di una nipote che collega i fili dei racconti familiari, vissuti à rebours: dall’emozione per l’ottenimento del passaporto tedesco alla infanzia armena, all’innamoramento, all’immigrazione lacerante che prima priva per lungo tempo i figli del proprio padre e poi, quando questi verrà a riprenderseli, degli amici e delle abitudini acquisite. E poi le emozioni della madre, prima chiusa nel guscio domestico e poi sempre più integrata; a sorpresa, dopo quasi mezzo secolo la decisione autoritaria del ritorno in Armenia. Ma il vecchio è saggio e sa che la vita dei suoi è in Germania: il viaggio sarà semplicemente l’occasione per conoscere la propria storia e le proprie radici. Anche il destino è saggio e concluderà con un colpo di genio la vita dell’uomo, proprio là da dove era partito, là, dove un figlio resterà per ricostruire la casa che si era rivelata un rudere. Toccherà al nipote, al ritorno “in patria“ pronunciare dinanzi alla cancelliera tedesca, che aveva invitato il nonno con altri immigrati di lungo corso ad un ricevimento d’onore, le parole testamentarie del nonno “Sono felice”. Finalmente fiero il nipotino porterà a scuola una carta d’Europa che comprenda la sua Armenia e, non più “né turco né tedesco”, potrà forse un giorno sentirsi turco tedesco. (Sara Mamone, drammaturgia.it)

Nella Germania riunificata del 2009 i Gastarbeiter (lavoratori invitati) turchi erano 1 600 000 su 6,7 milioni di stranieri (600 650 italiani). Nel cinema europeo del 2000 si sono moltiplicati i film – fiction o documentari – sul tema dell’immigrazione, dunque dell’incontro/scontro fra due culture. Uno dei migliori è questo, scritto dalla regista Samdareli con la sorella Nesrin, entrambe nate a Dortmund, immigrate turche di 3ª generazione che raccontano “perché siamo qui, come tutto è cominciato, che cosa significa essere stranieri”. Fa perno su Hüseyin Yilmaz, patriarca di una numerosa famiglia musulmana emigrata in Germania negli anni ’60. Dopo tanti sacrifici ha comprato una casa in Turchia e vorrebbe farsi accompagnare da figli e nipoti per risistemarla. Nonostante gli scettici e i contrari, ci riesce. Alle nuove avventure di viaggio (di 3 giorni) s’intrecciano i ricordi tragicomici dei primi anni in Germania. A dirne la leggerezza grottesca basterebbero le reazioni di spavento e orrore che suscita il crocifisso in uno dei più giovani, gag che sembrano offensive soltanto agli spettatori cattolici più ottusi e intolleranti. È una commedia con risvolti drammatici in alcuni dei personaggi, recitata così bene da attori con le facce giuste che è difficile farne una graduatoria di brio. (M- Morandini)