Cinema e lavoro – La stella che non c’è

Milano, 21.1.2019

REGIA: Gianni Amelio SOGGETTO: liberamente ispirato a La dismissione di Ermanno Rea SCENEGGIATURA: Umberto Contarello, Gianni Amelio FOTOGRAFIA: Luca Bigazzi MUSICHE: Franco Piersanti MONTAGGIO: Simona Paggi SCENOGRAFIA: Attilio Viti COSTUMI: Cristina Francioni INTERPRETI: Sergio Castellitto, Tai Ling, Angelo Costabile, Hiu Sun Ha, Catherine Sng, Enrico Vanigiani, Roberto Rossi, Xu Chungqing, Wang Biao, Zhao Jianyun, Huang Qinhao, Luo Xiufeng, Tang Xianbi, Wang Lin, Guo Yong, Duan Ping, Li Zhenduo, Ma Qing PRODUZIONE Cattleya, Babe Films, Rai Cinema DISTRIBUZIONE: 01 Distribution DURATA: 104’.

Un gruppo di industriali cinesi arriva in Italia per acquistare un altoforno da un’acciaieria che sta per chiudere. Vincenzo Buonavolontà, responsabile della manutenzione dell’impianto, sa che la macchina in vendita è difettosa e vuole riparare il guasto per evitare fatali incidenti. Per questo, in un concitato colloquio intermediato da una giovane traduttrice cinese, chiede tempo al responsabile della delegazione. Malgrado le rassicurazioni ricevute, la delegazione cinese riparte in tutta fretta con l’altoforno, smontato rapidamente con la fiamma ossidrica. Così, quando Vincenzo scopre qual è il guasto e come risolverlo, non gli resta che partire per Shanghai con la nuova centralina idraulica da sostituire. Qui, però, riceve una fredda accoglienza dalla ditta di intermediazione che si è occupata di acquistare l’altoforno per un cliente, del quale non gli viene fornito l’indirizzo. L’incontro fortuito sul posto con la giovane traduttrice che aveva conosciuto in Italia ed alla quale ha fatto involontariamente perdere il posto di lavoro, renderà possibile iniziare la ricerca di dove è stato collocato il macchinario, in un lungo viaggio all’interno della Cina e dentro se stesso.

Il tema della professionalità del lavoro, che in qualche caso diventa supponenza, ed il confronto con un nuovo mondo, sono quelli che emergono nel film di Amelio, che ha forse illustrato la Cina meglio di alcuni registi del paese asiatico.

LA CRITICA

Bravissimo, Castellitto offre la radiografia del cuore, conquista la sua tenerezza e guarda senza pregiudizi un altro mondo con l’aiuto di una cinese ragazza madre. Parte in camion la crisi esistenziale e la portata morale, tipica di Amelio, d’una ricerca intrisa di illusioni e delusioni: per ottenere altri valori piangere fa bene. Road movie doppio all’Antonioni con finale di speranza e un discorso che da concreto si fa, per magia di cinema, astratto e interiore, come se il regista filmasse e firmasse con una dolcezza superiore alla sua media sguardi, silenzi, sospensioni di chi ha sprecato la vita e non lo sa. Tema classico, la voglia di paternità. E la stella che manca è l’innocenza, infatti forse è quella di un giocattolo. (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 29 settembre 2006)

Una cronaca realistica, ma anche una riflessione, filtrata quasi attraverso l’intimismo, su un personaggio che vede sconfitta una sua ostinatissima ossessione dalla scoperta di valori più quieti, come quelli espressi dai bambini. (…) Questo percorso psicologico Amelio l’ha svolto in due momenti paralleli ma strettamente intrecciati. Uno, il viaggio in una Cina ora supermoderna, ora rurale, ora costellata di bellezze naturali, cui la fotografia splendida di Luca Bigazzi dà risalti magnifici superando, nella descrizione del quotidiano nelle città, perfino quella di Zhang Yimou nella ‘Storia di Qui Ju’. L’altro, tessendo di fili sottilissimi il rapporto via via sempre più diretto fra il protagonista e la sua interprete, madre segreta di un bambino che ha dovuto tener nascosto e che finirà per essere la molla del ripensamento psicologico dell’altro, venuto per riparare una acciaieria e pronto, invece, alla fine, ad occuparsi del semplice giocattolo di quel bambino. Facendo confluire questi due momenti, con il commento delle musiche, sempre suggestive di Franco Piersanti, ingemmate da cori cinesi, in un lunghissimo primo piano del protagonista, prima deluso fino alle lacrime, poi virilmente pacificato e mutato. Sublima questo primo piano, preceduto comunque da altri di vitalità quasi pari, l’interpretazione superba di Sergio Castellitto, mai così intenso, mai così vibrante, mai così fortemente segnato. Al suo fianco, in cifre più semplici, l’esordiente cinese Tai Ling. (Gian Luigi Rondi, ‘Il Tempo’, 5 settembre 2006)

L’impressione che se ne ricava è quella di una storia quasi in fieri, fluida e svariante fin quando, appunto, si esprime nel tocco e nell’abbozzo, nel flash lirico e nel guizzo del dialogo; ma poi svaporata e impalpabile quando l’oscuro malessere dell’approccio dovrebbe secernere una riflessione densa o anche un empito liberatorio. (…) Qualcuno citerà Antonioni – più ‘Chung Kuo-Cina’ che ‘Professione: reporter’ -, ma in questo caso Amelio appare un regista del tutto diverso, portato ad accarezzare con sentita tenerezza i corpi ed i paesaggi e, in fondo, a disagio nell’evocare il pathos segreto delle situazioni. L’indubbia forza morale del viandante non aiuta a scalare la montagna della Cina comunista/capitalista, ma, al massimo, ci fa intravedere i suoi insospettati, insondabili, ambivalenti contrafforti. Che ci convivano sacche di povertà spaventose, rampantismo industriale e deliziosi frugoletti, insomma, ‘La stella che non c’è’ riesce a raccontarlo senza enfasi: quello che manca, però, e gli impedisce di volare molto in alto è un contrappunto psicologico forte, una corposa traiettoria drammaturgica, un ‘riscatto’ meno telecomandato dell’italiano-brava-gente che nel finale s’abbandona a un pianto irrefrenabile. (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 6 settembre 2006)

Serrato nella prima parte, che guarda con dolente curiosità le diversità della terra e del cuore, il film rallenta troppo nel finale, senza sceneggiatura e senza bussola. Eppure il lungo viaggio verso il confine impossibile resta affascinante. (Claudio Carabba, CdS Magazine, 14 settembre 2006)

La Cina, lontana dall’essere la “favola” immaginata o riferita dai media, rivela al protagonista una realtà che ha dismesso affetti e diritti (umani) e vive al ritmo dei tempi di produzione. Panorami industriali, cantieri a cielo aperto, architetture monumentali, zone rurali annegate dall’acqua della diga più grande del mondo, dove si naviga a vista, rincorrendo la modernità e realizzando un capitalismo selvaggio. L’occidente esporta all’oriente il suo modello e i suoi guasti, gli stessi che Buonavolontà vuole caparbiamente correggere e sostituire. Perché il suo essere operaio appartiene a un mondo perduto o magari a quella stella che non c’è (più). Buonavolontà è un’ideale di professionalità estinta, qualificata per prendersi cura di una macchina di acciaio, con pazienza, senza fretta. (Marzia Gandolfi – MyMovies)