Quasi ad anticipare i fermenti sociali
dell’anno successivo il 1967 è l’anno del cinema francese che ci consegna alcuni dei suoi capolavori partendo da Play
Time – Tempo di divertimento del grande Jacques Tati. Un film
che a suo tempo non fu capito ma che, rivisto oggi, offre molti spunti di lettura su una società in decadenza e tratteggia una riflessione
sulla globalizzazione. Il film è semplicemente l’osservazione
di un gruppo di turisti in visita a Parigi da parte di Monsieur Hulot, l’alter ego di Tati, ma rappresenta anche uno sforzo produttivo
immenso visto che il regista lo girò nel formato 70millimetri per raccogliere il maggior numero di informazioni possibili nell’ambito
delle singole inquadrature. La Francia consegna però altri grandi film come Bella di giorno
di Luis Buñuel ( coprodotto col nostro paese), e "Mouchette" di Robert Bresson.
Il primo è la storia di una prostituta di lusso ma anche una riflessione sul rapporto tra sessualità e cattolicesimo mentre il secondo
è il proseguimento, sulla linea di "Bathazar", della lettura pessimistica del mondo da parte del regista nel raccontare la tragedia
di una piccola ragazza di campagna. Il cinema francese consegna anche altre opere notevoli come "Frank Costello faccia d’angelo", un
grande poliziesco firmato Jean-Pierre Melville od una lucida anticipazione di ciò che avverrà nel ’68 con "La cinese" di Jean-Luc
Godard su un gruppo di giovani borghesi e rivoluzionari. Ed anche un film come "Il vecchio e il bambino" di Claude Berri mette
in scena una visione particolare del mondo degli adulti. La storia, ambientata nel periodo della seconda guerra mondiale, è infatti
quella di un vecchio contadino (interpretato da uno dei miti del cinema francese, Michel Simon) che accoglie un bambino, a sua insaputa
di nazionalità ebraica. Va anche detto che dalla Francia arriva un film politico che fece epoca come "Lontano dal Vietnam", opera collettiva
che tendeva a contrastare l’intervento degli Stati Uniti in quel paese. Negli stessi Stati Uniti il cinema produce poche cose notevoli
se si escludono due film di genere come "Gangster Story", la storia di Bonnie e Clyde raccontata da Arthur Penn, ed una sorta
di rifacimento de "Un dollaro d’onore" – "El Dorado" – con gli eroi invecchiati da parte di Howard Hawks. Sarà John Huston
a rimettere in discussione il militarismo americano con "Riflessi in un occhio d’oro" e John Boorman a rinnovare il thriller
con il virtuosistico "Senza un attimo di tregua". I contrasti all’interno del mondo universitario scatenati da una storia d’amore sono
invece il tema del britannico "L’incidente" di Joseph Losey, un bel film di analisi dei comportamenti in situazioni di conflitto.
Da segnalare anche il russo "La commissaria" di Aleksandr Askoldov, sui rapporti tra una commissaria politica e la famiglia
di un artigiano ebreo. Il film sarà scongelato solo 20 anni
dopo diventando l’evento che caratterizzerà il Festival di Berlino del 1988. Tedesca è invece l’opera migliore del duo Jean-Marie
Straub e Danièle Huillet: "Cronaca di Anna Magdalena Bach", la storia di Bach interpretata in chiave economica oltre
che musicale. La produzione italiana si segnala invece per "Edipo re" di Pier Paolo Pasolini e per uno dei primi film sul
fenomeno mafioso come A ciascuno il suo che Elio Petri
gira adattando il libro di Sciascia. Già alcuni dei film fino ad ora citati vedevano come protagonisti lavoratori o comunque rappresentavano
la situazione economica ma, per completezza in merito al tema, vale la pena citare altre pellicole a partire dal cinema americano.
In questo paese infatti esce un film sulla carriera di un lavavetri dal titolo italiano "Come far carriera senza lavorare". Il regista
è David Swift ed il film si caratterizza per la sua spiritosaggine, oltre che per essere stato tratto da un musical di successo.
Sempre il genere musical ci consegna "Millie" di George Roy Hill, storia di una ragazza degli anni ‘20 che si innamora del
datore di lavoro. Tra i temi del film anche quello dello sfruttamento delle donne. Il tema viene ribaltato in un film giapponese come
"La gatta giapponese" di Yasuzo Masumura, storia di un ingegnere minerario succube di una giovane, in verità film non particolarmente
felice dal punto di vista creativo. Dal Giappone semmai va registrato
un film che parla di robot e del loro utilizzo per estrarre uranio. Si tratta di una storia quasi fanciullesca come "King Kong, il gigante della foresta"
di Ishiro Honda. Di ben altro spessore è invece la rappresentazione della vita in una cooperativa agricola che il russo Andrej
Koncalovskij mostra in "Storia di Asja Kljacina che amò senza sposarsi", altro film bloccato dalla censura dell’epoca e scongelato
nel periodo gorbacioviano. Ambientato in Francia ma di produzione inglese è invece una splendida commedia come Due
per la strada di Stanley Donen, rievocazione della vicenda matrimoniale
di un architetto e consorte compresa la loro evoluzione economica che dimostra come la felicità non dipende dalla ricchezza. E c’è
anche chi, per avere la felicità vende l’anima. Il tema di Faust viene ripreso dallo stesso Donen lo stesso anno in una ennesima commedia
che titola "Il mio amico il diavolo": questa volta il protagonista è un cuoco londinese. In Italia in tema di lavoro si produce invece
poco. La carriera anche lavorativa di un emigrato siculo, anche se avente al centro l’ossessione per la virilità, è presente in "Don Giovanni in Sicilia"
di Alberto Lattuada, tratto dal romanzo di Vitaliano Brancati. La storia di due architetti e delle loro illusioni sui cambiamenti
sociali è invece presente in "Il padre di famiglia", uno dei più bei film di Nanni Loy. Infine, anche se non particolarmente
brillante, si segnala "Lo scatenato" di Franco Indovina commedia sulle nevrosi moderne scatenate dai mass media. Come si vede
nel complesso il nostro paese, come negli ultimi anni, produce qualche bel film ma niente di esaltante in tema di lavoro.