Cinema e lavoro – Il Grande Capo

Milano, 20.12.2018

REGIA: Lars von Trier  – SCENEGGIATURA: Lars von Trier  – FOTOGRAFIA: Automavision® –  MONTAGGIO: Molly Marlene Stensgård   –  INTERPRETI: Jens Albinus, Peter Gantzler, Fridrik Thor Fridriksson, Benedikt Erlingsson, Iben Hjejle, Henrik Prip, Mia Lyhne, Casper Christensen, Louise Mieritz, Jean-Marc Barr, Sofie Gråbøl, Anders Hove, Lars von Trier  PRODUZIONE: Memfis Film, Slot Machine, Zentropa Productions – DISTRIBUZIONE: Lucky Red –  DURATA: 99 Min

In Danimarca un’importante società che si occupa di informatica sta per essere venduta ad un burbero islandese, Finnur, che vuole firmare il contratto con il proprietario. Il vero proprietario, Ravn, però non ha mai rivelato la sua identità, fingendo di essere un semplice esperto legale che operava per conto del grande capo. Decide quindi di assumere un attore disoccupato, Kristoffer, perché reciti la sua parte per concludere la cessione dell’azienda. La firma del contratto viene, però, ritardata e a Kristoffer è richiesto di recitare il ruolo del grande capo anche con gli stessi dipendenti, in modo da scaricare il vero proprietario dalle responsabilità delle scelte più impopolari passate e future. La situazione è però destinata a sfuggire di mano…

Un film che racconta una strategia padronale che pone il problema dell’identità della controparte dei lavoratori in molte realtà multinazionali. Ma anche un film girato con una tecnologia sperimentale visto che il  direttore della fotografia è sostituito da un dispositivo informatico.

LA CRITICA

Prendete Woody Allen, tiratelo via da New York (anzi, ormai da Londra) e catapultatelo nella fredda e grigia Danimarca. II risultato è Il grande capo. Nei credits il nome del regista è un altro, Lars “c’era una volta il Dogma” Von Trier. Ma questo film sembra davvero uscito dalla penna più ispirata, più surreale e più divertente dell’adorabile e nevrastenico clarinettista newyorchese. (Luca Castelli –  Il Mucchio)

Molti forzeranno l’interpretazione del nuovo film di Von Trier verso una direzione di decisa critica sociale nei confronti dell’alienazione derivante dall’aridità dei rapporti personali di lavoro all’interno dell’azienda. Ed anche se tutto ciò è vero ed è palese come l’autore stavolta non faccia dell’eccessivo moralismo, ma si limiti a uno sguardo di comprensione per tutti, datori di lavoro e dipendenti, è su un altro livello che “Il Grande Capo” costituisce un’inaspettata novità. …. per la prima volta un film di Von Trier ha delle scenografie in parte costruite, movimenti della macchina da presa studiati e addirittura alcuni giochi in sede di montaggio (fare attenzione al dialogo fra Davn e l’attore Kristofferson sulle giostre). E già questo cambiamento dovrebbe far capire a tutti i diffidenti a oltranza che il cinema di VonTrier non è solo provocazione e caricatura fini a se stesse: è anche forma che si adatta a seconda dei casi al soggetto; è anche amore e ammirazione verso generi e culture cinematografiche da lui molto lontani. La voce fuori campo che ripercorre assieme allo spettatore gli stereotipi tipici dei più illustri esempi presi a modello della commedia americana, che va da Hawks a Capra, sta lì a dimostrarcelo. Altri insisteranno sulla speciosità di certe scelte tecniche del nostro, qual è ad esempio la soluzione di un direttore della fotografia computerizzato (automavision); ma anche qui inviterei a diffidare delle facili critiche: i risultati che questo sistema raggiunge in termini di riprese finali è assolutamente esilarante e anche coerente con l’atmosfera che si deve respirare: facce tagliate, teste riprese a metà, stacchi improvvisi da un primo piano all’altro. (Giancarlo Usai – Ondacinema)

“Lars von Trier, geniale regista danese de ‘L’elemento del crimine’, ‘Le onde del destino’, ‘Dogville’, vincitore di sette premi al Festival di Cannes, ideatore del manifesto Dogma95 ora decaduto, ha appena compiuto 50 anni. Ha reso pubblica una ‘Dichiarazione di Rivitalizzazione’ nella quale afferma d’essere stufo della sua vita dopo circa trent’anni di lavoro, di voler cambiare le cose e ritrovare il suo entusiasmo originario per il cinema. Ha cambiato molto, con ‘Il grande capo’. Ha girato in danese con attori danesi. Ha usato una tecnica chiamata Automavision: ‘Le possibilità visive della storia sono tutte inserite in computer, basta premere un pulsante’. Ha realizzato un film che può riferirsi ad ogni rapporto padrone-dipendente, ad ogni rapporto esistente in ufficio. Ha diretto, dopo nove film drammatici, una commedia sarcastica, divertente, ricca di allusioni politiche e sociali. (…) Del metodo Automavision lo spettatore si accorge poco, al film assai contemporaneo può divertirsi molto”. (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 5 gennaio 2007)

“Il nuovo e geniale lavoro di Lars Von Trier si apre con una menzogna plateale detta dalla voce dello stesso regista e procede a colpi di finte, di voltafaccia, di simulazioni più o meno riuscite, ma dalle conseguenze sempre imprevedibili. Del resto, sembra dire beffardo il danese (che da autore-produttore se ne intende), cos’altro è il Potere se non una mascherata, un bluff, un gioco ininterrotto di ruoli e simulacri? Messa così può sembrare una faccenda concettuosa e tardo-pirandelliana. Ma Lars Von Trier, troppo abile (e cinico) per cadere nella trappola, gioca sul lato comico. Ed ecco moltiplicarsi gli equivoci, le gaffes, i tentativi precipitosi e spesso rovinosi di limitare i danni. Mentre gli eterni trabocchetti aziendali, le invidie, le frustrazioni, gli amori, le rivalse anche erotiche, le piccinerie di ogni genere, si intrecciano con effetti esilaranti alle fumisterie intellettuali dell’attore chiamato a recitare dal vero, ma troppo digiuno di bilanci e informatica, e troppo innamorato dei sacri testi, per non teorizzare su ogni suo gesto e intonazione. Il tutto ripreso da angolazioni bizzarre se non deliranti perché la macchina da presa, affrancata dal controllo umano, segue un programma computerizzato messo a punto dallo stesso Lars Von Trier. Sicché le inquadrature e le illuminazioni più arbitrarie si susseguono con effetto che per qualche minuto sconcerta ma al quale presto ci si abitua e questa forse è la cosa davvero sconcertante, come tutto questo film che insieme ai meccanismi del Potere smonta anche quelli dello Spettacolo, mostrandocene l’intima parentela in termini di maschere, di narcisismo, di compensazioni affettive. Chi ha visto ‘The Kingdom’ e ‘Le 5 variazioni’ conosce il lato ironico dell’autore di mélo come ‘Le onde del destino’. Ma ‘Il grande capo’ resta una gran bella sorpresa”. (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero, ‘ 5 gennaio 2007)

“Se non esitasse a chiudere il film, Lars von Trier avrebbe firmato con ‘Il grande capo’ una delle opere migliori del 2006. Ma, anche così, è una verosimile ricostruzione di vita aziendale, dove il padrone si libera dei soci, ma è imbarazzato di perdere l’immagine di bonario primus inter pares. Il quadretto del paese del Lego è amaramente esilarante. Tutti i personaggi sono i visti solo in un ufficio e in orario lavorativo, con le nevrosi che accompagnano questa forma di alienazione collettiva. Sono allucinati i lavoratori disoccupati finlandesi dei film di Kaurismäki? Sono addirittura fulminati i tecnici computeristi del film di von Trier, così presi dal loro gergo da non accorgersi di essere stati presi in giro, per anni, dal loro amico/socio/padrone e d’esser giunti alla fine del loro sogno d’autogestione. Von Trier non rivela subito il dramma. Anzi, all’inizio tutto pare una farsa… (…) Stravaganza, abbruttimento, delirio confluiscono in un’allegra disperazione. Chi ha angosce di lavoro, troverà compagnia nel Grande capo e anche quella consolazione che gli ingenui cercano nelle commedie brillanti”. (‘Il Giornale’, 5 gennaio 2007)