Cinema e lavoro – Io Daniel Blake

Un film di Ken Loach (Gran Bretagna, Francia 2016)

Milano, 20.4.2022

Regia: Ken Loach Sceneggiatura: Paul Laverty Fotografia: Robbie Ryan Interpreti: Dave Johns, Hayley Squires, Micky McGregor, Natalie Ann Jamieson, Colin Coombs Produzione: BBC, BFI, Sixteen Films Distribuzione: Cinema di Valerio De Paolis. Durata: 100 min.

Per la prima volta nella sua vita, Daniel Blake, un falegname di New Castle di 59 anni, è costretto a chiedere un sussidio statale in seguito a una grave crisi cardiaca. Il suo medico gli ha proibito di lavorare, ma a causa di incredibili incongruenze burocratiche si trova nell’assurda condizione di dover comunque cercare lavoro – pena una severa sanzione – mentre aspetta che venga approvata la sua richiesta di indennità per malattia. Durante una delle sue visite regolari al centro per l’impiego, Daniel incontra Katie, giovane madre single di due figli piccoli che non riesce a trovare lavoro. Entrambi stretti nella morsa delle aberrazioni amministrative della Gran Bretagna di oggi, Daniel e Katie stringono un legame di amicizia speciale, cercando come possono di aiutarsi e darsi coraggio mentre tutto sembra beffardamente complicato.

Palma d’oro a Cannes il film ironico , ed a tratti amarissimo offre uno spaccato della realta’ attuale caratterizzata dalla guerra tra poveri in una società post capitalista. Un film sulla dignità delle persone che lottano contro il sistema ed un inno alla solidarietà.

LA CRITICA

La coerenza e la totale convinzione con la quale declina le sue storie più politiche – come è quella di questo nuovo Io Daniel Blake – sono insieme la più grande forza e la più evidente vulnerabilità del cinema di Ken Loach.
Sono la sua forza perché questa nuova storia di sofferenza proletaria, e di lotta moderata e faticosa per ottenere il rispetto e i diritti che sarebbero dovuti in ogni democrazia degna di questo nome contro un sistema statale sempre più burocratizzato, spersonalizzato e aziendalizzato, è indubbiamente capace di smuovere i più basilari sentimenti umani di comprensione e solidarietà.
Sono la sua vulnerabilità perché, pur portando avanti battaglie sacrosante e calate in un contesto sostanzialmente aderente alla realtà delle cose, l’inglese si fa abbagliare dal mito di una solidarietà di classe e inter-classe che, purtroppo, esiste e s’incontra sempre di meno. ….. Loach inanella una serie di situazioni che riescono a commuovere per tema e per tono (una scena su tutte, forse la più bella del film, quando Katie non riesce a trattenere la fame quando si reca a ritirare del cibo in una food bank, un piccolo supermercato gratuito per poveri, e apre una scatola di fagioli in scatola divorandoli davanti a tutti, per poi cadere in preda alla più terribile vergogna per il suo gesto disperato), e che suscitano sacrosanti moti d’indignazione per le troppe storture e le terribili ingiustizie sociali del mondo post-capitalista. E tratteggia due personaggi dotati di grandissima dignità, che non vogliono né più ne meno di quel che è giusto, di quello che è loro diritto di cittadini e di esseri umani avere.
Non sono però una formula più e più volte utilizzata, né la ripetizione un po’ meccanica di istanze e tematiche del cinema di Loach, a smorzare parzialmente gli entusiasmi di fronte a un film come I, Daniel Blake, quando una serie di punteggiature (alle quali Loach crede con un’ingenuità ideologica che ha forse a che fare con l’età) che spezzano l’illusione di un realismo totale e documentario.
Per dare al suo racconto una forza di cui non avrebbe avuto bisogno, il regista (come spesso gli accade) eccede nell’accumulo di disgrazie che toccano ai suoi protagonisti, cui nella vita sembra non essere mai andato mai veramente bene nulla, e racconta un mondo dove perfino il cane che passa per strada ha tre zampe. E, nell’ansia di mostrare un quarto stato che marcia compatto nella lotta per i suoi diritti come nel quadro di Pellizza da Volpedo, racconta un proletariato che non ha praticamente mai la tentazione di diventare egoista in senso hobbesiano.
Perfino i giovani vicini di Daniel, due ragazzetti senza arte né parte che cercano di svoltare la loro vita trafficando semi-legalmente in sneakers provenienti dalla Cina, sono tutto sommato due bravi ragazzi che non hanno niente della teppaglia che spesso, purtroppo, caratterizza certe situazioni di disagio sociale.
Poco male, comunque, perché Ken il Rosso sa come rendere coinvolgente quel cammino faticoso che Daniel e Katie, sa quali sono i tasti emotivi giusti per arrivare a toccare gli spettatori, e magari farli incazzare e commuovere. Se il peccato di Io, Daniel Blake è quello di sbandare a tratti verso un utopismo e una compattezza ideologica novecentesca, è forse veniale. Perché, in fondo, la lotta di Daniel è proprio quella, quella di un uomo del Novecento, che non usa i computer e i curriculum li scrive a matita, che non sa e non vuole adeguarsi a un mondo che, problemi tecnologici a parte, sta indubbiamente trasformando i cittadini in utenti e consumatori. (Federico Gironi – Coming Soon)

Nonostante un ritiro dalle scene più volte annunciato, l’inglese Ken Loach è tornato alla regia di un film di finzione dal titolo emblematico: Io, Daniel Blake. Sono diverse le pellicole di Loach identificate dal nome di un personaggio: basti pensare a La canzone di Carla, a My Name is Joe, a Il mio amico Eric, fino al più recente Jimmy’s Hall. Eppure, nell’ultima produzione del regista, l’idea di riaffermare un’identità individuale attraverso il cinema appare ancora più marcata, così come l’urgenza di raccontare la Gran Bretagna contemporanea – in questo caso a un passo dalla Brexit – e di dare voce a coloro che sono caduti vittima della crisi economica. Nel cinema di Loach l’identità corrisponde sempre alla dignità individuale: quando quest’ultima è calpestata dalle disparità sociali, non è più possibile riconoscersi come persona. I percorsi dei protagonisti, quindi, prevedono sempre un momento di riacquisizione, più o meno metaforica, della propria identità, che passa per l’uscita dall’isolamento e l’alleanza con altri personaggi che vivono situazioni di difficoltà. Al centro del film, che ha anche conquistato la Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno, vi è un personaggio dal nome ricco di suggestioni: “Daniel”, come il profeta, e “Blake”, come il poeta e incisore settecentesco William Blake, sostenitore dell’eguaglianza tra gli uomini e contrario alla schiavitù……
Il sistema descritto da Loach sembra predisposto per rendere la vita impossibile a coloro che non possiedono gli strumenti sufficienti per restare al passo con la tecnologia. Agli utenti sono infatti richiesti un grado di competenza informatica e una dimestichezza con i dispositivi digitali che difficilmente possono essere raggiunti da fasce economicamente svantaggiate e di età avanzata. Inoltre, non vi è alcuna disponibilità ad aiutare le persone che hanno difficoltà a districarsi tra le maglie della burocrazia e a comprendere la loro reale situazione. Si veda ad esempio l’apertura del film: mentre scorrono i titoli di testa, possiamo ascoltare la voce di Daniel, sempre più impaziente e frustrata, che risponde alle domande relative alla possibilità di lavorare dopo l’attacco di cuore. Benché medici e fisioterapisti gli abbiano consigliato un periodo di riposo, la donna che lo sta intervistando all’altro capo del telefono non ha alcuna conoscenza in ambito medico e gli pone domande sulla sua mobilità e sulla sua incontinenza, senza nemmeno sfiorare il tema delle sue condizioni cardiache. Così, mentre il dialogo assume un tono comico e quasi surreale, Daniel è ritenuto idoneo a tornare al lavoro.

Il film, pur mostrando una capacità rara di far sfociare il dramma in momenti di leggerezza e ironia, contiene comunque scene in cui si avverte la tragicità della condizione di Daniel, che è simbolo di una situazione che accomuna migliaia di lavoratori. Quando candidamente ammette di non essere mai stato «vicino a un computer», Daniel ignora le conseguenze di questa sua inadeguatezza informatica, mentre lo spettatore può avvertirle in tutta la loro gravità. Tra le attività che l’uomo deve dimostrare di aver effettuato per ottenere almeno il sussidio di disoccupazione, c’è un corso per imparare a scrivere un curriculum vitae. Nonostante questo, Daniel scrive a mano il documento: lo sguardo severo e al contempo imbarazzato che il funzionario getta sul suo foglio esprime al meglio l’impossibilità di riscatto per chi si ritrova improvvisamente espulso dal sistema. D’altra parte, lo stesso Daniel, frequentando il corso, si rende conto di essere solo una tra le centinaia di persone che fanno richiesta per gli stessi lavori. Dunque, quale speranza di essere assunto può coltivare? Soddisfare le richieste del sistema sembra umanamente impossibile: Daniel deve trascorrere 35 ore alla settimana candidandosi per lavori per i quali non è ritenuto idoneo, e al contempo deve dimostrare di averlo fatto. Il ricorso continuo a forme di mediazione, che prendono il posto del dialogo diretto e dell’incontro ravvicinato, impediscono al protagonista di spiegare la propria condizione e di conseguenza di essere di supporto a Katie. Di fronte alle segreterie telefoniche, ai vetri degli sportelli, a un aiuto costantemente negato o rimosso, il grido silenzioso di Daniel Blake si leva progressivamente come una richiesta di ascolto. Loach si chiede attraverso questo personaggio se, in una società sempre più anestetizzata e nella quale il malessere viene costantemente nascosto sotto al tappeto, sia ancora possibile stabilire una comunicazione autentica con l’altro. Vale a dire, se sia ancora possibile sentire in maniera profonda il dolore di chi ci sta di fronte e compiere quindi un gesto di solidarietà.
Con Io, Daniel Blake, il regista continua a portare avanti una riflessione che ha iniziato ormai dagli anni ’60: ciò che colpisce è che suoni ancora così attuale. Loach è una tra le voci più autorevoli di un cinema apertamente di denuncia, tracimante rabbia e insofferenza verso assetti economici e sociali spesso considerati come dati di fatto di fronte ai quali è inutile, oltre che impossibile, opporsi. Così, i suoi personaggi combattono la loro lotta dal basso, con i mezzi che hanno a disposizione, ma che non contemplano mai una violenza fine a se stessa. Sono eroi del quotidiano armati solo della propria voce, che lanciano messaggi che smuovono le coscienze. In Jimmy’s Hall, ad esempio, Jimmy apriva una scuola di ballo che diveniva spazio in cui scoprire e mettere alla prova i propri talenti, in una comunità altrimenti priva di stimoli culturali. Qui, Daniel ricorre a un’azione molto meno razionale: l’iscrizione su un muro del proprio nome e della propria rabbia. Ma, a un livello più profondo, il vero gesto eversivo di Daniel consiste nel disinnescare l’indifferenza che lo circonda, prestando la propria attenzione e il proprio tempo al prossimo, come accade con Katie. Significativo è anche l’interesse che Daniel dimostra verso la situazione del suo vicino di appartamento, un ragazzo di origini africane che tenta di sbarcare il lunario ingegnandosi come può con gli strumenti offerti dalla Rete. Il suo commercio di scarpe da ginnastica firmate, che vengono acquistate online per poi essere rivendute sottobanco ad amici e conoscenti, rappresenta un improbabile tentativo di sfruttare la decantata democrazia e gratuità di Internet per sopravvivere. Se il ragazzo contrabbanda beni in risposta a una mancata integrazione, il disagio dei suoi coetanei trova un illusorio risarcimento nel possesso delle calzature maggiormente reclamizzate dalle aziende multinazionali. L’attenta osservazione sociale di Loach – e del suo collaboratore di vecchia data Paul Laverty, autore della sceneggiatura – emerge proprio a partire da questi dettagli, che fanno di personaggi secondari dei rappresentanti delle diverse facce dello stesso malessere. La vicenda di Katie, ad esempio, tocca un altro tema di grande attualità, quello della gentrificazione, ossia i cambiamenti urbanistici e socio-culturali che si realizzano in aree periferiche e popolari quando iniziano ad affluire abitanti ad alto reddito, che fanno alzare i prezzi degli immobili. Un fenomeno che tocca in particolare le grandi città come Londra, che la donna ha dovuto lasciare proprio per questo motivo.
Il disagio sociale che conduce alla cancellazione di sé e alla perdita di dignità non è per Loach una memoria che appartiene al passato dickensiano, ma è qualcosa di molto più attuale e tangibile nella nostra quotidianità. La scena in cui Katie mangia disperatamente da una scatola di fagioli, senza nemmeno aspettare di uscire dal Banco alimentare, ad esempio, costituisce una delle rappresentazioni più devastanti della nuova miseria occidentale. L’estrema semplicità e classicità narrativa di Io, Daniel Blake è in realtà essa stessa una forte presa di posizione. A costo di apparire tradizionalista e incapace di rinnovare le forme del suo cinema – la Palma d’oro è stata contestata da molti critici – Loach sceglie di parlare un linguaggio universale, che sia comprensibile a tutti gli spettatori. Quindi, non solo ai cinefili, né semplicemente ai cittadini britannici colpiti dalle misure di austerità del Governo Cameron, ma a tutti coloro che quotidianamente ingaggiano una lotta per la sopravvivenza. O che, come Daniel, vorrebbero tendere la mano a chi sta ancora lottando. (Francesca Monti – Aggiornamenti Sociali)