Cinema e lavoro – Lettere dal Sahara

Milano, 13.2.2019

Regia: Vittorio De Seta Soggetto: Vittorio De Seta Sceneggiatura: Vittorio De Seta Musiche: Fabio Tronco, L’Orchestra di Piazza Vittorio Montaggio: Marzia Mete Costumi: Fabio Angelotti Scenografia: Fiorella Cicolini Fotografia: Antonio Grambone Interpreti: Djbril Kebe (Assane) Paola Ajmone Rondo (Caterina) Madawass Kebe (Mactar) Fifi Cisse (Salimata) Tihierno NDiaye (Maestro) Luca Barbeni (Luca) Stefano Saccotelli (Don Sandro) Produzione: A.S.P., Metafilm Distribuzione: Istituto Luce Durata: 123′.

Assan è un senegalese naufrago sull’isola di Lampedusa. In meno di sei mesi risale l’Italia passando per Napoli, Prato e Torino, cambiando di volta in volta lavoro. Quando finalmente riesce a ottenere il permesso di soggiorno, viene quasi linciato in una rissa fuori da una discoteca ed entra in crisi. Decide allora di tornare a Cap Skiring, in Senegal, e una volta tornato al suo villaggio, di fronte alle insistenze del suo vecchio maestro, racconta la sua esperienza.

Un film sulla ricerca del lavoro e le condizioni di clandestinità degli immigrati diretto da uno dei grandi documentaristi italiani

LA CRITICA

La parabola di Assane che attraversa l’Italia, intraprendendo un “viaggio della speranza”, costantemente in fuga per evitare problemi con la giurisdizione italiana, per le difficoltà legate all’integrazione e per un’ostilità sempre più esplicita e violenta dell’ambiente che lo circonda, è decisamente attuale e necessaria per una riflessione sincera su un tema che ci riguarda da vicino, come la storia recente e gli eventi di quest’ultima estate dimostrano drammaticamente. Ad ogni tappa del suo viaggio, Assane acquista una maggiore consapevolezza di se stesso e del mondo che lo circonda. Il viaggio, quindi, e l’incontro con un mondo diverso, contribuiscono all’arricchimento della sua personalità, permettendogli di superare le molte difficoltà nella speranza di conquistare una giusta serenità. Ma proprio quando la sua situazione sembra finalmente stabile, lo scontro con l’ignoranza e la violenza che vivono nella nostra società, determinano in lui una profonda crisi che lo porterà a ritornare in Senegal. Il ritorno agli affetti, alla società di cui conosce valori e tradizioni non bastano, però, a calmare il suo malessere, ancora incapace di comprendere il significato delle sue esperienze e di prendere una decisione sul suo futuro. L’incontro con il suo “maestro”, ex professore universitario e guida spirituale della comunità, gli permetterà di aprirsi, di raccontare la sua esperienza, di riscoprire le sua radici e di riacquistare fiducia e speranza. E così l’esperienza del singolo diventa esperienza dell’intera società che deve confrontarsi con la durezza della propria condizione, con il desiderio di fuga e di riscatto, con l’incontro e l’integrazione fra diverse culture; il viaggio e l’incontro sono il travagliato percorso da affrontare per maturare, per acquisire consapevolezza ed avere il coraggio di costruire un mondo meno ingiusto. Il Senegal è ritratto come un mondo in cui la vita e il lavoro sono duri e faticosi ma vissuti con umiltà e consapevolezza, dove la solidarietà e gli affetti sono i valori che consolidano la società, dove però il desiderio di trovare nuove opportunità è naturale e visto come l’unica alternativa per molti giovani, che vedono in paesi come l’Italia la possibilità di una vita meno dura e più giusta. E’ compito degli anziani o di chi quel viaggio lo ha già intrapreso raccontare la propria esperienza per svelare il mito irreale di una vita facile e la necessità di rimanere umili ma non per questo succubi di una situazione invivibile. L’Italia, raccontata con gli occhi degli immigrati, è una speranza che presto si rivela un mondo ingiusto e difficile, in cui serpeggiano prepotentemente sfruttamento e razzismo, di cui non si comprendono interamente i valori ed integrarsi non è immediato. Ma esiste anche la solidarietà e cambiare la propria condizione è possibile, andando verso una società sempre più tollerante, aperta e multiculturale. Molto bella ed azzeccata la colonna sonora curata dall’”Orchestra di Piazza Vittorio”, felice sperimentazione nata a Roma, nel quartiere Esquilino, come fusione ed incontro di diversi generi musicali, provenienti da tutto il mondo, come gli artisti che compongono l’eclettica e frizzante orchestra, perfetta per accompagnare la storia di questo viaggio attraverso diverse culture. (Francesco Davi – Nonsolocinema)

Vittorio De Seta è stato uno dei registi più appartati e, al contempo, più ‘necessari’ al cinema e alla televisione italiani. Chi ha avuto la fortuna di vedere i suoi cortometraggi sa quanto, da siciliano verace, abbia saputo offrire lo spirito profondo di alcune manifestazioni collettive di lavoro (soprattutto legate alla pesca) proprie della sua cultura di origine. I non giovanissimi poi ricorderanno Banditi a Orgosolo (1961) e quel Diario di un maestro (1973) che costituì un vero e proprio giro di boa per la nostra televisione dimostrando che il basso costo di una produzione poteva coincidere con il suo elevato valore sociale e comunicativo. Lo spirito di De Seta non è cambiato e oggi, a 82 anni, ci presenta un film che ha avuto una lunga fase di gestazione e che ora arriva al pubblico. Dicevamo che De Seta non è cambiato. Sono cambiati però i tempi e nella mancata percezione del loro divenire si sente (non solo sullo sfondo) qualche scricchiolio di sceneggiatura. Perché la storia del senegalese Assane si rifà indubbiamente a situazioni reali che subiscono nel nostro Paese discriminazioni inaccettabili. Il problema è che del protagonista si fa una sorta di icona di bontà assoluta (tranne qualche pregiudizio sulla cugina troppo emancipata) che ha tutti i tratti della retorica. L’apice si raggiunge quando il ‘buon’ africano arriva nell’appartamento della ‘buona’ insegnante di italiano per accudire il fratello psicolabile (ma ‘buono’ e convertibile anche lui in un amico da aiutare nel corteggiare le ragazze) e riesce con un clic a far ripartire un computer in panne (non si sa perché lasciato acceso). È didascalismo allo stato puro che purtroppo rischia di ottenere l’effetto contrario al voluto. Senza bisogno di vivere situazioni estreme tutti sappiamo che l’integrazione richiede sforzi da ambedue le parti. Questo film è invece troppo schematico per risultare credibile ed efficace. Gli extracomunitari che vengono nel nostro Paese con il solo scopo di trovare un lavoro decente sono la stragrande maggioranza. Ma non è raccontandoli in forma idilliaca che se ne difendono al meglio i diritti. (Giancarlo Zappoli – MyMovies)

È encomiabile il modo in cui De Seta assume e segue, lungo l’intero arco narrativo, il punto di vista di un immigrato mentre tenta in tutti i modi di guadagnarsi da vivere onestamente nel nostro paese, affrontando per paghe esigue lavori assai faticosi che lo impegnano per gran parte della giornata. In tal modo, il cineasta palermitano rende partecipe appieno lo spettatore dei sacrifici e delle pene di migliaia di uomini che raggiungono l’Italia con il sogno (il più delle volte destinato a rimanere tale) di una vita serena e piena di soddisfazioni. Il digitale non molto raffinato, cui si è ricorsi per motivi economici, traspone anche sul piano estetico tale inedito intimo approccio alla vita degli immigrati e, grazie alle considerevoli facilitazioni operative che comporta, si sposa perfettamente con quella peculiare concezione desetiana del cinema intimamente connessa al work in progress e all’apertura nei confronti del mondo fenomenico. Per quanto sia indiscutibile la sincerità alla base di Lettere dal Sahara, è però innegabile che le dinamiche dei rapporti tra italiani e immigrati siano sviluppate con una certa superficialità e che, in taluni momenti, emerga una evidente componente didascalica. Come nota Paolo Mereghetti nel suo Dizionario dei film, il tono dell’opera diviene “deamicisiano appena entrano in scena i bianchi”, raffigurati in maniera piuttosto manichea: “benintenzionati e modelli di tolleranza, oppure neo-nazisti”. Assai funzionale al racconto la regia asciutta ed essenziale. (Luca Ottocento – Magazine Cinema)

Vittorio De Seta, gran maestro di cinema, uomo colto, diritto e ammirevole […] alto e nobile come un albero o una roccia, laconico, ritrova il cinema abbandonato da tanto tempo e la Mostra di Venezia dov’è stato l’ultima volta 45 anni fa. È un avvenimento, anche il suo film lo è. I dimenticati, gli esclusi, gli emarginati, gli isolati dalla malattia o dall’ignoranza sono sempre stati i suoi protagonisti prediletti (i documentari, Banditi a Orgosolo, Diario di un maestro) […]. Più forte del rovesciamento del film (l’emigrante non trova quanto cercava e quanto forse riuscirà a trovare nel suo Paese) è la maestria di De Seta nel fondere personaggi e ambiente, nel dare energia e poesia a quella che non è una storia di fallimento ma di vittoria. (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 1.9.2006)