Cinema e lavoro – L’industriale

Un film di Giuliano Montaldo (Italia 2012)

Milano, 9.9.2020

Regia: Giuliano Montaldo – Soggetto: Giuliano Montaldo, Vera Pescarolo – Sceneggiatura: Giuliano Montaldo, Andrea Purgatori – Fotografia: Arnaldo Catinari – Montaggio: Consuelo Catucci – Musiche: Andrea Morricone – Interpreti: Pierfrancesco Favino, Carolina Crescentini, Eduard Gabia, Elena Di Cioccio, Elisabetta Piccolomini – Produttore: Angelo Barbagallo Casa di produzione Bibi Film Distribuzione 01 Distribution Durata 94 min

Il quarantenne Nicola è proprietario di una fabbrica sull’orlo del fallimento, immersa nella grande crisi economica che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, rifiuta anche l’aiuto economico della ricca suocera che potrebbe salvarlo. Ha deciso di risolvere i suoi problemi senza farsi scrupoli. Sua moglie Laura è sempre più lontana, ma Nicola non fa nulla per colmare la distanza che ormai li separa. Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Ma invece di aprirsi con Laura comincia a sospettare di lei e a seguirla di nascosto. Tutto precipita. Nicola annaspa e tira fuori il peggio di sé. Poi tutto sembra tornare a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale. Ma l’uomo ha più di un segreto da nascondere.

Un film suggestivo che racconta l’Italia della grande crisi economica, le fabbriche dismesse, la disoccupazione ed il degrado visti con gli occhi di un “padrone”. Peccato che il tema della crisi venga affrontato solo nella prima parte del film. Alcuni spunti interessanti anche sulla finanza creativa e sulla avidità del denaro.

LA CRITICA

A tre anni da I demoni di San Pietroburgo, ultimo lungometraggio di finzione di una carriera registica cinquantennale, Giuliano Montaldo torna al cinema con un lavoro teso, suggestivo e azzeccato nella sua adesione alla storia contemporanea del Paese. L’Italia mostrata è, infatti, quella della grande crisi economica degli ultimi anni, terra degli imprenditori travolti dal fallimento e del denaro che brucia. Calato nella notevole fotografia di Arnaldo Catinari – plumbea, fredda, grigissima – questo racconto che conferma l’impegno civile dell’autore è dotato di apprezzabili evoluzioni, di graffianti riavvii e precise notazioni in grado di tenere desta l’attenzione fino all’ambiguo finale. Proprio nei momenti in cui pare afflosciarsi, la sceneggiatura del cineasta e di Andrea Purgatori trova, invece, nuovi sbocchi e inaspettate intonazioni (la gag dei ristoratori giapponesi) fino a quella coda gialla che dà un volto completamente differente alla storia così come l’avevamo immaginata. L’aspetto economico – pubblico (la vicenda della fabbrica) e quello affettivo – privato (l’allontanamento della moglie) avvalorano insieme il totale fallimento del personaggio ben interpretato da Pierfrancesco Favino, cui sfugge il divario tra l’avventuroso passato del genitore e il suo spietato presente. Si tratta di una disfatta che coinvolge inoltre la figura paterna, assenza – presenza dietro a molti atteggiamenti di Nicola: nell’operaio più anziano della fabbrica o nell’amico imprenditore che incontra in piscina c’è, nemmeno troppo nascosto, il riverbero di un padre cui non vuole o non può dare delusioni. Nonostante qualche goffaggine di troppo e alcuni stereotipi, specialmente nei caratteri secondari, il film di Montaldo ha il merito di far riflettere e di intrattenere, nella memorabile cornice di una Torino piovigginosa, livida e quasi priva di colore. Il critico cinematografico Steve Della Casa interpreta uno degli operai. (Marco Chiani – MyMovies)

Onore a Giuliano Montaldo, classe 1930, che è un combattente del cinema. Dopo I demoni di san Pietroburgo del 2007, colta ma non elitaria variazione sui temi biografici dostoevskijani, si torna nella Torino che sta diventando sempre più la nuova Cinecittà non però per mascherarla da altro (come per Pietroburgo e come spesso sta accadendo da qualche tempo). La vicenda di L’industriale è proprio torinese e riguarda i giorni nostri. La crisi e le sue conseguenze sociali e personali è tema che sta alimentando il cinema e la fiction televisiva. Qui un come al solito eccellente Pierfrancesco Favino (eccellente, e per questo lo chiamano a ripetizione. Ma il hravissimo attore deve stare un po’ accorto perché come già accaduto a Castellitto soprattutto sul medesimo fronte delle biografie illustri, televisive e quindi portatrici di notorietà e riconoscibilità assai più del grande schermo, tra un Bartali un Di Vittorio e un generale Della Rovere corre il rischio di strafare e di non variare a sufficienza toni ed espressioni) è un imprenditore che non ce la fa a tenere il passo con la sua azienda di famiglia. Cerca in ogni modo, tra i richiami della lealtà e quelli dell’orgoglio, la strada per non licenziare dipendenti che in qualche caso risalgono alla generazione precedente e lo trattano in modo paterno, rifiuta ogni ipotesi di sostegno dalla ricca famiglia della moglie Carolina Crescentini eppure la disperazione ha la meglio sulla naturale rettitudine e non disdegna di montare una spericolata messinscena truffaldina ai danni di potenziali finanziatori con la complicità del socio avvocato. In questi giorni di preoccupazione e smarrimento si insinua il demone della gelosia. Tra lui e la fascinosa moglie si sta allargando una distanza che è frutto di equivoci eppure questi equivoci si aggravano e li allontanano sempre di più fino a conseguenze estreme e irreparabili malgrado il tentativo di occultare gli scheletri nell’armadio e di riprendere lo standard della normalità precedente. Allora, la questione di fondo sembra questa. Il giusto complemento del versante privato, e dei suoi sviluppi ossessivi, si fa digressione sempre meno coerente con il tema che sarebbe parso centrale. Si ribalta il rapporto tra nucleo e digressione. La seconda cosa prende nettamente il sopravvento sulla prima riducendola da argomento principale a supporto e pretesto neanche tanto importante. Tutto lecito, per carità, ma un po’ ingannevole. L’altra cosa da notare però è la cura e l’eleganza della confezione. Il contributo della fotografia firmata da Arnaldo Catinari è decisivo nel creare un clima inquieto e un ambiente ostile: tra il decoro dei luoghi della classe alta e le memorie cadenti della fabbrica e i percorsi delle fughe peraltro innocenti della moglie, tutto è buio e nebbioso, grigio e notturno. Il lavoro della luce, dell’illuminazione sapiente esalta la partecipazione femminile, lavora a favore della Crescentini, che finisce con l’avvantaggiarsene anche oltre la giusta misura. Mentre al contrario il protagonista, malgrado il peso maggiore sia suo, finisce con il soffrire del cambio di registro in corsa del film. Sembra non fare del tutto proprie le ragioni di un personaggio che da sobrio borghese prossimo alla mezza età e con la testa sulle spalle, si muta in ossesso accecato dalla fissazione della gelosia. (Paolo D’Agostini – La Repubblica)

È singolare che a parlare delle conseguenze umane della crisi economica italiana non sia un giovane arrabbiato ma un regista 80enne: meno male che almeno ne parla lui, e in modo assai interessante. Con un senso profondo dell’attualità, Montaldo mette infatti al centro della sua storia un industriale quarantenne del nord che non riesce a sopravvivere perché vittima della rigidità delle banche e di dinamiche di mercato che favoriscono la delocalizzazione e lo sfruttamento della forza lavoro. (Paola Casella – Europa)

Difficile non scindere il film in due tronconi, ben delineati, che però fanno parte di una biforcazione che porta inesorabilmente alla stesso capolinea. La parabola di discesa e di ascesa (e di nuovo discesa), prima lavorativa, poi umana e morale, dell’industriale Nicola Ranieri (interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino) è un affresco sulla contemporaneità preciso e agghiacciante. Come il clima rigido di una Torino parte indispensabile della storia, con le sue meravigliose piazze, la sua notte ben illuminata dai lampioni, il freddo che sembra attraversare lo schermo, la luce del sole tenue anche nei momenti più vivi del giorno. Il tutto valorizzato da una fotografia che restituisce splendidamente l’essenza vera della capitale dell’industria, patria degli Agnelli. L’invettiva aperta contro le banche, le finanziarie, riflessione socio-economica su una legalità ambigua, strozzinaggio autorizzato, cappio al collo di ogni lavoratore, ancor di più, di ogni individuo. E la figura finalmente sporcata dell’avvocato, mestiere mai in decadimento, come gli impresari di pompe funebri. Di loro c’è sempre sciaguratamente bisogno. Certo, forse alla figura di Nicola manca quell’elemento di empatia cacciato via a forza dalle ville milionarie, dalla servitù in uniforme, dalle macchine costose e dai capi di abigliamento pregiati. Ma riesce, nell’arco del film, a farsi portavoce di un movimento creatosi naturalmente nella società a cui apparteniamo, formato anche da gente comune, che convive quotidianamente con certi problemi. E nel finale sembra che tutto possa sistemarsi, ottenendo un insperato e forse irreale lieto fine, di cui però lo spettatore medio probabilmente avrebbe bisogno. Ed ecco che entra prepotentemente l’altra strada, l’altra parte della biforcazione iniziale. Il rapporto con una moglie insoddisfatta, schiva e sempre più distante. La gelosia infiammata dalla platonica liaison della coniuge con un parcheggiatore rumeno, ennesima figura stereotipata di ragazzo dell’est europa, con vene artistiche e animo nobile, sfruttato da un sistema marcio. Una paranoia, a dire il vero giustificata, che sfiora l’insanità mentale. Tutto ciò sporca inesorabilmente la faticosa ascesa ad eroe di un uomo la cui rettitudine morale sembrava essere segno contraddistintivo, creando un paradosso di coerenza, lasciando perplessità sulla reale efficacia di quella spruzzata di noir che, seppur intelligentemente spiazzante, sembra poco appartenere alla struttura brillante messa fino ad allora in piedi. Un meraviglioso Favino guida il cast come un metronomo; in sua presenza brillano tutti di luce riflessa, quando manca dalla scena sembra invece affievolirsi la scintilla. Rimane la sensazione di un buon film che avrebbe potuto essere per certi versi epocale, senza la pretesa di aggiungere troppa carne sul fuoco. (Riccardo Moglioni – Sentieri Selvaggi)