Milano, 21.5.2018
Regia Michael Glawogger Sceneggiatura Michael Glawogger Fotografia Wolfgang Thaler Montaggio Ilse Buchelt, Monika Willi Musiche John Zorn Casa di produzione Lotus Film, Quinte Film Produktion Durata 122’
DOCUMENTARIO
Il documentario si apre su immagini d’epoca sovietiche, con i lavoratori che promettono fieramente di raggiungere nuovi record di produzione.
Quindi mostra la seguente citazione: «Non si può mangiare né bere per otto ore di fila e neppure fare l’amore. La sola cosa che si può fare per otto ore è lavorare. Ed è questa la ragione per cui gli esseri umani rendono così tristi ed infelici se stessi e gli altri».
Capitolo 1 – Eroi (Helden) Donbass, Ucraina. Uomini strisciano in angusti tunnel soprannominati “trappole per topi” per estrarre il carbone da miniere ufficialmente chiuse. È un lavoro faticoso, per di più illegale, da cui riescono a ricavarne giusto per sopravvivere. Si tratta delle miniere nelle quali lavorò negli anni trenta l’Eroe del Lavoro Socialista Aleksej Grigor’evič Stachanov, dando inizio allo stacanovismo. Mentre una nuova coppia di sposi, come da tradizione, depone ai piedi della statua a lui dedicata un bouquet di fiori, un gruppo di minatori festeggia la pensione di uno di loro bruciando il suo equipaggiamento da lavoro.
Capitolo 2 – Fantasmi (Geister) Kawah Ijen, Indonesia. File di uomini con contenitori di bambù in spalla salgono e scendono lungo le pendici di un vulcano. Immersi nei vapori malsani, estraggono dal cratere lo zolfo che trasportano poi a valle, alla stazione di pesatura. A seconda dell’età, dell’esperienza e della forza, possono trasportare fra le 155 e le 255 libbre di zolfo, per più di tre miglia di sentiero. Su quello stesso sentiero, le file di lavoratori incrociano quelle dei turisti che si godono la bellezza dello scenario naturale. I lavoratori stessi sono un’attrazione turistica e per qualche sigaretta o pochi soldi si prestano volentieri ad essere fotografati, oppure vendono statuette scolpite nello zolfo. In qualche modo, pur essendo impegnati in un lavoro così arcaico, sono raggiunti dalla globalizzazione. Uno dei portatori più giovani veste una maglietta dell’Inter ed è appassionato di Bon Jovi.
Capitolo 3 – Leoni (Löwen) Port Harcourt, Nigeria. In un enorme, affollato macello a cielo aperto bovini ed ovini vengono sgozzati, macellati, puliti, arrostiti e venduti, in un’articolata divisione del lavoro che coinvolge centinaia di persone, come Ishaq Mohammed, che nel giro di una giornata può uccidere qualche centinaio di capre, o come uno degli uomini che lavano le teste di vacca, che lavora anche come moto-taxista. Uno dei macellai riassume così il senso di questo luogo e del proprio lavoro: «Chi è nato con e attraverso il sangue proverà ogni tipo di sofferenza. Specialmente se è venuto al mondo in un posto che deve ancora conoscere la civilizzazione. Siamo nati nella sofferenza perché in questo Paese niente è come dovrebbe essere. Quindi ognuno qui fa il suo lavoro con pazienza. E se Dio nella sua infinita grazia ci dovesse concedere fortuna così sia.»
Capitolo 4 – Fratelli (Brüder) Gaddani, Pakistan. Sulle coste del Belucistan, enormi petroliere in disuso vengono smantellate per riutilizzarne il metallo. Gli operai sono in gran parte di etnia pashtun, provenienti dalle montagne del nord del paese. È un lavoro duro, pericoloso («Questo lavoro è la morte stessa […] La morte è sempre con noi»), mal retribuito, nel quale è fondamentale la collaborazione, per riuscire ad avere la meglio, pezzo dopo pezzo, su quelle gigantesche imbarcazioni: «Siamo come fratelli. E dobbiamo avere fiducia in noi. In fondo siamo tutto ciò che abbiamo. Se uno dei colleghi ha un problema ci riuniamo tutti e vediamo cosa possiamo fare e se possiamo risolvere il problema. Non ci sono mai litigi tra gli operai. Litigare ci ruberebbe solo le energie, cosa che non possiamo permetterci. Certamente è un lavoro di merda, ma nonostante ciò andiamo molto d’accordo.» Per sopportare una vita così difficile, non rimane che affidarsi a Dio: «Cosa è bene e cosa è male lo sa solo Allah. Facciamo il nostro lavoro e il resto è nelle mani di Dio».
Capitolo 5 – Futuro (Zukunft) Liaoning, Cina. In un paese lanciato in uno straordinario sviluppo economico, nelle acciaierie di Angang gli operai sono consapevoli dei cambiamenti dovuti al passaggio dall’economia pianificata all’economia di mercato, ma sembrano credere alla propaganda governativa e ad un futuro di progresso, benessere e prosperità. Uno dei vecchi operai si dice pronto a sacrificarsi come gli eroi del lavoro del passato, ma ammette che i propri figli potrebbero non seguire la stessa strada.
Capitolo 6 – Epilogo (Epilog) Duisburg, Germania. Mentre in Cina le acciaierie sono ancora in piena attività, nel cuore industriale della Vecchia Europa, le acciaierie Duisburg-Meiderich, che hanno lavorato dall’inizio del Novecento fino alla metà degli anni ottanta, sono state trasformate in un Parco paesaggistico (Landschaftspark). Oggi le luci che illuminano di notte il complesso industriale non sono più quelle degli altiforni in funzione 24 ore su 24, ma un’affascinante installazione artistica. Nelle acciaierie risuonano solo le voci dei turisti, non più i rumori dei macchinari. È quello della Cina o piuttosto questo, il futuro del lavoro manuale?
Splendida analisi del lavoro manuale nel ventunesimo secolo attraverso cinque episodi dedicati ad altrettanti contesti geografici: uno dei film chiave per tentare di dare una risposta in merito al futuro del lavoro manuale, alla sua scomparsa ed alla sua invisibilità.
LA CRITICA
Davvero scuri gli Orizzonti, in questo caso, scuri e quasi invisibili. Come i lavoratori di cui si parla nel documentario di Michael Glawogger, Workingman’s Death (Lo sfruttamento del lavoro manuale nel mondo). Gente di cui nessuno parla, di cui pochissimi sanno. Si parte dalle miniere russe dell’Ucraina (e da dove sennò?). Miniere di carbone alte meno di mezzo metro, dove è possibile solo strisciare, dove tutto si fa strisciando: si parla, si mangia, ci si raccontano le vicende familiari. Uomini e donne, senza distinzione. Come ai tempi di Stakanov. Solo che ora si corre il rischio di essere arrestati, perché per lo stato queste miniere sono fuori legge. E allora? Che fare? È destino che questa domanda non trovi risposta nella vecchia Russia. Michael Glawogger ci porta poi in Indonesia, nelle miniere a cielo aperto di zolfo, e sembra quasi di assistere alla versione aggiornata della novella pirandelliana Ciaula scopre la luna. Ma è il terzo episodio quello che, davvero, sconvolge. Si intitola Leoni e si svolge in Nigeria, in una sorta di mattatoio a cielo aperto. È il grido ininterrotto di “pelle budella e teste” a fare da colonna sonora, e pelle budella e teste sono quello che resta dei tanti animali che vengono sgozzati e macellati. Capre e vitelli, soprattutto. Non ci viene risparmiato nulla, e sfido chiunque a non distogliere lo sguardo dalle immagini almeno per un istante. Tutto ciò, sempre, in nome di Dio, “che ci ha dato questa vita di sofferenza e noi, in nome di Dio, la viviamo”. Fratelli si svolge invece in Pakistan, e racconta di operai “disarmatori”, nel senso che disarmano le navi facendole a pezzi con la fiamma ossidrica. Fatica e soprattutto pericolo, ma non c’è altro da fare. Però si sentono fratelli, ognuno aiuta l’altro. Di certo, qui, il mobbing non esiste. Avviandoci verso l’epilogo ci fermiamo brevemente in Cina, dove i giovani “non sono più obbligati come una volta a seguire le orme dei genitori”, e possono decidere di svolgere il lavoro che vogliono, almeno in teoria. I genitori, comunque, lavorano ancora negli altiforni. Che invece a Duisburg, nel nord della Germania dove il film si conclude, sono stati trasformati in attrazioni per i turisti. È il calore, il fuoco, che lega il film: il carbone, lo zolfo incandescente, le fiamme con cui si arrostiscono gli animali, la fiamma dei saldatori, gli altiforni. Ma è soprattutto la sensazione di distanza di tutto quello che abbiamo visto quella che alla fine del film ci sgomenta. E loro, i protagonisti, non si lamentano nemmeno più di tanto: è così, dicono, è questa la vita che ci è stata data. Con Michael Glawogger che ammonisce: “E allora, cominciate a vederci chiaro?”. (Alessandro Boschi – Cinematografo.it)
“Chi ancora usa le mani? Un nobile documentario americano di Michael Glawogger esplora, alle latitudini improbabili del mondo, oltre le colonne d’Ercole della sociologia classica, i lavori manuali e disumani di cinque Paesi. Un po’ folk di Mondo cane, ecco la cartina degli inferi contemporanei, tra mito e stakanovismo, miniere d’Ucraina, la fonderia in Cina, le cave di zolfo d’ Indonesia, la macellazione animale in Nigeria (tremenda). Volti sporchi, espressioni di dolore e di fatica con poche gioie, un documento shock tutto basato sulla forza delle immagini con qualche affascinante compiacimento per questi lontanissimi dannati della Terra.” (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 7 luglio 2006)
Una frase di William Faulkner ricorda che è la necessità di lavorare otto ore al giorno a rendere infelici gli uomini. Scorrono immagini di repertorio da cinegiornali sovietici, mentre una colonna sonora tutta percussioni scandisce il ritmo. Si apre così Workingman’s Death, il bellissimo film documentario del regista austriaco Michael Glawogger, già autore di Megacities, presentato al 62° festival di Venezia nella sezione “Orizzonti”: un’indagine in cinque parti sul lavoro manuale nel XXI secolo. La macchina da presa si addentra nelle miniere di carbone dell’Ucraina, segue i minatori di zolfo indonesiani, filma il caos di un mattatoio nigeriano, la fatica degli shipbreakers, i demolitori di nave in Pakistan, registra le speranze degli operai di un’acciaieria di Anshan, in Cina. Eroi, fantasmi, leoni, fratelli, futuro…Uomini che cercano di guadagnarsi il minimo per sopravvivere a rischio della propria vita, in situazioni di sicurezza e igiene a dir poco precarie: la fatica, il sudore, la paura, ma anche un’estrema dignità, la consapevolezza di dover lottare per avere un posto nel mondo. Glawogger registra tutto questo con una lucidità impressionante, il suo occhio non nasconde nulla della miseria e precarietà delle situazioni che incontra, non arretra di fronte alle immagini più cruente (al limite del disgusto quelle del mattatoio di Port Hancourt), eppure mantiene sempre uno stile alto, elegante, con carrellate e panoramiche ampie, scene di grande suggestione, inaspettati squarci lirici. Non c’è retorica o volontà di denuncia, il commento è praticamente inesistente, il senso del film emerge dalla forza delle immagini e dal montaggio, dai volti e dalle parole delle tante persone incontrate lungo il cammino, che vengono a riempire quasi un ideale album fotografico. E, aldilà dell’indignazione e della pietà, chi guarda non può fare a meno di ammirare la tenacia e la speranza di migliaia di umili persone, quegli “ultimi” che ancora oggi costituiscono il pilastro su cui poggiano il presente ed il futuro, anonimi eroi da paragonare ai monumenti che celebrano la dignità del lavoro. L’epilogo, con tutti quei ragazzi che si aggirano in un’acciaieria tedesca, ormai dismessa e trasformata in parco naturalistico, è la speranza di un futuro migliore, in cui gli uomini finalmente riescano (parafrasando Marx) a realizzare la propria essenza nelle loro opere. (Aldo Spiniello – Sentieri Selvaggi)