I Classici del cinema – Perfidia. Les dames du Bois de Boulogne

Milano, 14.9.2018

Regia e sceneggiatura: Robert Bresson (tratto dal romanzo Jacques le Fataliste (1796) di Denis Diderot) – Dialoghi: Jean Cocteau – Fotografia: Philippe Agostini – Scenografia: Max Douy – Montaggio: Jean Feyte – Suono: René Louge, Lucien Legrand – Musica: Jean-Jacques Grunenwald – Interpreti: Maria Casarès (Hélène), Elina Labourdette (Agnès), Lucienne Bogaert (Madame D., madre di Agnès), Paul Bernard (Jean), Jean Marchat (Jacques), Yvette Etiévant (la cameriera) – Produzione: Les Films Raoul Ploquin – Direttore di produzione: Robert Lavallée – Distribuzione: Lab 80 – Durata: 96’.

Hélène e Jean sono amanti, non sono sposati ma non sono nemmeno interessati a diventare marito e moglie. Ad un certo punto però Jean decide di lasciare Hélène che sembra accettare di buon grado la cosa. In verità sta tramando una vendetta. Ha conosciuto la giovane Agnès, aspirante ballerina che per riuscire a vivere e mantenere la madre è costretta a prostituirsi. Hélène paga i debiti delle due donne e le manda a vivere in un bell’appartamento, costruendo loro una buona ma falsa reputazione. Fa in modo che Jean incontri Agnès al Bois di Boulogne e ben presto i due si innamorano e Jean pensa subito alle nozze. Hélène, che continua a parlare bene della ragazza si offre per organizzare un sontuoso matrimonio e convince la dubbiosa Agnès a rivelare il suo passato solo dopo le nozze. Subito dopo la cerimonia Hélène può finalmente assaporare la sua vendetta: rivela il passato di Agnès, la ragazza sviene perché era convinta che Jean ne fosse già a conoscenza e l’uomo la abbandona svenuta. La sera Jean torna dalla moglie e la trova inferma a letto a causa del cuore debole. La ragazza le chiede perdono ma aggiunge che sarebbe disposta a morire pur di lasciarlo libero ma l’uomo è fortemente innamorato e la implora di essere forte e vivere. La ragazza risponde con un debole sorriso: non morirà.

Les dames du bois de Boulogne è il secondo lungometraggio di Bresson. Un film che fa conoscere lo stile e le costanti del regista a partire dalle preoccupazioni spirituali in chiave fatalista fino alle questioni dell’adattamento cinematografico di un’opera letteraria. il film è interessante anche per il rinnovamento estetico e per la collaborazione di autori che hanno caratterizzato il cinema francese degli Anni Cinquanta (Astruc, Clément, Cocteau)

LA CRITICA

Una luce morta, di ghiaccio, accompagna fin dalle prime immagini le apparizioni di Hélène, mentre il volto lungo e stretto e il nero degli abiti e dei mantelli che ne fasciano la figura suggeriscono una “diversità” e solitudine senza riscatto. L’abbandono dell’amante, che essa ha orgogliosamente anticipato, la restituisce a un mondo di rapporti spenti e convenzionali. L’intensità e la violenza e della sua passione ci vengono suggerite dall’autore in negativo: dalla spietatezza della determinazione con cui la donna persegue la rovina dell’amante, avvertiamo il carattere estremo e irreversibile del suo amore. E anche il fondo stravolto da cui nasce la sapienza della macchinazione.
Questo “estremismo” dei sentimenti è condiviso da Agnès ma deve farsi strada faticosamente, tra bassezze e avvilimenti quotidiani: nel camerino pieno di fiori, dopo l’esibizione nel locale notturno, o nella casa affollata di amici occasionali, il volto della ragazza è segnato da una stanchezza profonda che si rovescia in gesti improvvisi e violenti di ribellione. Le sue potenzialità vitali, frustrate e inespresse, esplodono in movimenti di apparente, incontenibile allegria che ricade e si spegne su se stessa. La luminosità e lo splendore del volto, il bianco degli abiti, contrastano con l’oscurità e il “mistero” di Hélène, ma la separano anche dalla mediocrità di Jean e dalle ambigue connivenze della madre. All’operatore Agostini il regista aveva chiesto “una fotografia diffusa, molto avvolgente. degli effetti, ma degli effetti molto dolci. Passare dal bianco al nero, altrettanto netto, attraverso una gamma assai estesa di grigi”. (Adelio Ferrero, “Il castoro cinema”, gennaio 1976)

Secondo lungometraggio di Robert Bresson che, da un episodio del romanzo Jacques le fataliste et son maître di Denis Diderot, dirige e scrive (con l’ausilio di Jean Cocteau nei dialoghi) un melodramma raffreddato di alto rigore stilistico, significativo nel gettare le basi per il suo cinema futuro votato all’essenzialità. In controtendenza rispetto ai modelli di genere americani e inglesi dello stesso periodo, il regista francese cristallizza le emozioni in una dimensione atemporale e realizza un melò puro come un diamante, limpido nel suo rifiuto di abusati sentimentalismi e puntuale nell’analisi delle meschinità delle classi agiate. I personaggi icastici e archetipici, si muovono in ambienti lussuosi ma algidi, in cui l’atmosfera fortemente chiaroscurale (fotografia del maestro Philippe Agostini) diventa una sulfurea cornice che conta più delle consolidate dinamiche romanzesche (amore, odio, vendetta). Notevole lo stile marcato e personale di un autore già in totale controllo del mezzo cinematografico alla seconda esperienza dietro la macchina da presa. Finale bellissimo e straziante. Da riscoprire. In molti Paesi (tra cui Stati Uniti e Gran Bretagna) uscì solo negli anni ’60. (www.longtake.it)

Uno dei più sottovalutati film di Bresson, e già uno dei suoi capolavori. Il punto di partenza è il melodramma, ma il regista, attraverso una messa in scena ascetica, azzera gli elementi di finzione. (FilmTv)