I classici del cinema – A me la libertà

Milano, 7.9.2017

Regia: René Clair – Soggetto: René Clair – Sceneggiatura: René Clair Fotografia: Georges Perinal, Georges Raulet – Musiche: Georges Auric -Montaggio: René Le Henaff – Scenografia: Lazare Meerson – Costumi: René Hubert – Interpreti: Raymond Cordy (Louis), Henri Marchand (Emile), Paul Ollivier (lo zio), André Michaud (il caporeparto), Rolla France (Jeanne), Germaine Aussey (Maud), William Burke (il capobanda), Alex D’Arcy (il gigolo), Léon Lorin (il vecchio Gaga’), Jacques Shelley (Paul), Vincent Hyspa (la personalità sul palco) – Produzione: Films Sonores Tobis – Distribuzione: Cineteca Nazionale – Durata: 97’.

Emile e Louis sono due detenuti che trascorrono il loro tempo dietro le sbarre assemblando giocattoli e pianificando una possibile evasione. Quando cercano di scappare, le cose non vanno come avevano previsto e Louis resta in prigione. Ne esce qualche anno più tardi, mentre nel frattempo l’ex compagno di cella è diventato un industriale. Louis trova lavoro nella fabbrica di Emile, alla catena di montaggio, ma ben presto capisce che la fabbrica è fin troppo simile alla prigione che ha appena lasciato. Emile invece progetta di rendere il lavoro nella fabbrica completamente meccanizzato, ma qualcuno ha scoperto il suo passato di evaso e lo minaccia. Louis riesce a far comprendere all’amico che l’industria, il profitto, il progresso, non sono che un’altra prigione e la vera libertà per loro è lontano dalla fabbrica. Così i due partono insieme, per fare i vagabondi

Un classico sulla disumanizzazione del lavoro che affronta ante-litteram i temi della tecnologia e del fordismo oltre alla critica del capitalismo e delle relazioni basate solo sul denaro.

 

LA CRITICA

In carcere Emile si sacrifica per l’amico Louis, aiutandolo a fuggire. Tempo dopo si ritrovano, il primo operaio e il secondo padrone, ma in difficoltà, nella stessa fabbrica che sta per essere automatizzata. Partono insieme a fare i vagabondi, liberi. Considerato un “classico” degli anni ’30, ma sopravvalutato anche nei suoi significati sociali che in Italia la censura fascista smorzò nel titolo. Oltre a quella delle banconote al vento, è famosa la breve sequenza della catena di montaggio che ispirò Chaplin per Tempi moderni (1936). Notevoli i contributi di Georges Auric (musiche) e Lazare Meerson (scenografie). (Morando Morandini)

… E il sorvegliante di A nous la liberté, coi suoi baffi alla Guglielmo II è così piccolo quando si mette davanti alla porta della fabbrica e guarda il padrone con occhi così assolutamente e servilmente canini, che quasi non si riesce a rimproverargli il suo essere “cane” con gli operai. Chi rimprovera ad un cane di essere cane? E potrebbe forse la moglie di Cordy (Louis) vestire diversamente da come veste, avere degli amici diversi, non avere un amante? Certo non potrebbe. In sostanza tutto Clair, se un vero artista come lui potesse essere costretto in una formula, sta da un lato in questa comprensiva e cordiale umanità, che inclinerebbe a mettere volentieri su uno stesso piano ogni creatura umana, e dall’altro nella intelligenza troppo raffinata che glielo vieta. (…) La differenza fra Clair e Charlot è che quest’ultimo è un vero anarchico, profondamente corrosivo delle basi delle società, mentre il primo è un anarchico intellettuale. (…) Lo scetticismo di Clair è quello che gli fa accettare le convenzioni del cinematografo verso il quale, come mezzo espressivo, egli regge il suo comportamento in quella posizione scettica di cui abbiamo già tentato una descrizione a proposito del suo avanguardismo. (Umberto Barbaro)

Se si abbandona il piano “umano”, se si considerano solo il mondo messo in causa e le marionette che lo abitano, allora si deve convenire che la riuscita è totale. Come al solito, l’universo è sostituito dalla scenografia, da grandi superfici nude e da angoli vivi. L’immensa officina, la cui architettura si ispira alle officine Ford di Detroit, vuole essere soprattutto scenografia. Grandi pannelli di legno compensato riproducono l’aspetto lineare del modello, ne compongono la geometria, pur rifiutando la “sostanza” cioè il cemento. Ridotta al suo solo aspetto esteriore, alle sue linee essenziali, la fabbrica diviene una fabbrica tipo, l’idea della fabbrica. Lo stesso si può dire della prigione, in cui gli allineamenti delle sbarre – anche quelle in legno leggero – compongono una scenografia che diviene l’idea della prigione. (Jean Mitry)

Convinto che l’immagine debba immediatamente parlare da sé, Clair fa abbondante ricorso a ritratti caricaturali facilmente riconoscibili e sviluppa una serie di elaborate e divertenti gag per mantenere desta l’attenzione su un racconto sostanzialmente drammatico e ammonitorio. Ma – come il regista stesso ebbe poi ad ammettere – il film sbaglia la scelta dei contenuti spegnendo nel consolatorio populismo da operetta lo spirito anarchico di una satira sociale e politica di grande attualità. L’apprezzamento per aver posto l’accento sulle dolorose contraddizioni del moderno capitalismo industriale cede, così, alla delusione per un’utopia picaresca (cui non sono estranei, comunque, i più battaglieri germi della successiva fantascienza a sfondo sociologico) e scarsamente critica, rendendo l’opera pregevole, ma in parte irrisolta.À nous la liberté – che gli stolidi censori dell’Italia fascista tradussero con il meno sospetto A me la libertà – fu al centro di una causa legale intentata dalla casa produttrice Tobis contro Charlie Chaplin accusato di aver plagiato le scene della catena di montaggio nel suo Tempi moderni. L’azione non ebbe seguito per l’intervento personale di René Clair che per il collega inglese nutriva grande ammirazione e al quale, forse, egli stesso era debitore di qualche buona idea. (Fantafilm)

Qui in particolare le sollecitazioni son parecchie: la satira sociale, l’invenzione parodistica, la concitazione allegra e trasognata del musical alternato e casalingo, la tentazione di una stilizzazione allegra ma polemica. E al tempo stesso le tentazioni politiche o, almeno, parapolitiche, evidenti nell’opera, e in fondo rare in un autore sostanzialmente più portato alla predicazione moraleggiante per quanto stilizzata, all’invenzione paradossale, alla finezza ironica del tratto, alla sapiente costruzione della sceneggiatura di ferro, al sorridente alambicco visuale, alla intricata e risolutrice eleganza delle immagini. “Quella” ‒ ha dichiarato René Clair ‒ “era l’epoca in cui mi sentivo più vicino all’estrema sinistra e in cui desideravo combattere la macchina quando diventa una servitù per l’uomo invece di contribuire, come dovrebbe fare, alla sua felicità”. Per quel che riguarda la stesura del film Clair ha anche precisato: “Dove invece mi sono sbagliato è stato nel fatto che, per evitare di far rassomigliare À nous la liberté a un film a tesi, ho utilizzato ancora la formula dell’operetta. Pensavo che personaggi che si esprimessero cantando avrebbero fatto capire meglio il carattere satirico che volevo dare all’opera” …… In certo senso qui c’è tutto il buono e il meno buono del film: vale a dire la costruzione minuta e ‘didattica’ insieme dell’universo prima carcerario poi industriale, l’uno omologato all’altro, l’uno ricollegato all’altro dalla stessa logica della lavorazione a catena, motivo polemico che all’epoca era nell’aria (quando nel 1936 apparve Modern Times, la produzione Tobis volle promuovere una causa giudiziaria contro Chaplin; con grande signorilità Clair disse che per quel che lo concerneva se plagio v’era stato lo considerava un onore, visto che tutti i cineasti avevano tanto imparato da Chaplin). Sono gli elementi che nel corso dei decenni hanno diviso storici e critici del cinema, compresi quelli più appassionati dell’opera di René Clair. Il film resta ancor oggi uno spartiacque di gusto e di gusti. (Claudio G. Fava – Enciclopedia Treccani)