15 Stati membri chiedono di inasprire il Patto dell’Ue su migrazione e asilo
Adottato dal Consiglio europeo appena il 14 maggio scorso, il Patto su migrazione e asilo dell’Ue, molto criticato, è già messo in discussione da più della metà degli Stati membri. Che si tratti di motivazioni pre-elettorali, di tentativi di influenzare i prossimi Parlamento e Commissione, oppure della volontà di prendere posizioni nette in vista delle ratifiche e applicazioni nazionali del Patto, sta di fatto che i 15 governi hanno inviato ai vertici delle istituzioni europee una lettera congiunta chiedendo «nuove soluzioni per affrontare il problema delle migrazioni irregolari verso l’Europa». I ministri degli Interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca e Romania hanno infatti sottoscritto un testo in cui affermano che «le attuali sfide riguardanti il sistema di asilo e migrazione dell’Ue, compreso un forte aumento degli arrivi irregolari, sono insostenibili». Rivendicando la propria responsabilità di «sostenere la stabilità e la coesione sociale ed evitare il rischio di polarizzazione della società in Europa e la perdita di unità nella famiglia degli Stati membri dell’Ue», i 15 governi europei propongono di rafforzare «partenariati paritari, costruttivi e ampi» con Paesi terzi «soprattutto lungo le rotte del percorso migratorio», invitando a spostare l’attenzione dell’Ue «dalla gestione della migrazione irregolare in Europa al sostegno ai rifugiati, così come alle comunità ospitanti, nelle regioni di origine». L’intenzione è piuttosto chiara e potrebbe essere tradotta in “sosteniamoli a casa loro” nel controllo dei flussi migratori, con un’intensificazione degli sforzi e «nuovi modi per affrontare questo problema», concepiti attraverso un «pensare fuori dagli schemi». Schemi però già modificati dal Patto su migrazione e asilo e per questo profondamente criticati dalle Ong europee, per i rischi in termini di rispetto del diritto d’asilo e dei diritti umani.
Ma evidentemente non basta per i 15 governi dell’Ue, che auspicano «accordi globali e partenariati duraturi con i principali Paesi partner lungo le rotte migratorie», sulla base di «modelli ispirati alla dichiarazione Ue-Turchia e al protocollo d’intesa Ue-Tunisia». O ancora, portare i migranti intercettati «in un luogo sicuro predeterminato in un Paese partner al di fuori dell’Ue, dove si potrebbero trovare soluzioni durature anche basandosi su modelli come il protocollo Italia-Albania». Inoltre, al fine di «garantire sistemi di rimpatrio più efficaci» per i migranti che non necessitano di protezione internazionale, le «decisioni e le ispezioni di rimpatrio» dovrebbero avvenire, secondo i 15 governi dell’Ue firmatari della lettera inviata alle istituzioni europee, in «cooperazione con i Paesi terzi su meccanismi di hub di rimpatrio, dove potrebbero trovarsi i rimpatriati trasferiti in attesa del loro allontanamento definitivo».
Obiettivo “modello Rwanda”?
La richiesta/proposta rivolta da questi governi agli altri Stati membri e all’Ue è dunque di esternalizzare al massimo il controllo delle migrazioni, anche con modalità «fuori dagli schemi», nonostante alcune di queste abbiamo già mostrato i rischi che comportano in termini di violazione dei diritti e dei principi fondanti la stessa Ue.
L’idea di creare degli hub in Paesi terzi dove trattenere i migranti in attesa di rimpatrio, ad esempio, è molto simile al cosiddetto “modello Rwanda” adottato dal Parlamento del Regno Unito, in merito al quale l’Onu ha messo in guardia dalle conseguenze dannose. «La protezione dei rifugiati richiede che tutti i Paesi, non solo quelli confinanti con le zone di crisi, rispettino i loro obblighi. Questo accordo cerca di trasferire la responsabilità della protezione dei rifugiati, minando la cooperazione internazionale e creando un precedente preoccupante a livello globale» ha dichiarato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi. La nuova legislazione britannica, a cui sembrano ispirarsi i 15 governi dell’Ue, «trasferendo la responsabilità sui rifugiati, riducendo la capacità dei tribunali di controllare le decisioni di espulsione, limitando l’accesso ai rimedi legali e limitando la portata delle tutele nazionali e internazionali dei diritti umani per un gruppo specifico di persone, ostacola seriamente lo stato di diritto e crea un pericoloso precedente a livello globale» secondo Volker Türk, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il quale ricorda l’importanza che «tutti gli allontanamenti siano effettuati dopo aver valutato le specifiche circostanze individuali, nel rigoroso rispetto dei diritti umani internazionali e del diritto dei rifugiati».
Denunciate le “discariche del deserto”
Ma anche rispetto agli accordi con Paesi terzi sul controllo delle migrazioni, tipo quelli stipulati dall’Ue con Turchia, Libia e Tunisia, sono molte le denunce di violazioni dei diritti umani avanzate e comprovate. Ultimo in ordine di tempo è un reportage pubblicato dalla testata indipendente di giornalismo investigativo Irpimedia, che ha documentato il sistema esistente in Tunisia, Mauritania e Marocco delle espulsioni di massa dei migranti nel deserto. Intitolato Desert Dumps, che significa “discariche del deserto”, il reportage raccoglie testimonianze di persone originarie dell’Africa subsahariana che hanno vissuto direttamente l’esperienza di questi viaggi migratori della disperazione, trattate appunto «come spazzatura» dalle forze di polizia e sicurezza dei Paesi in questione: «Le persone vengono arrestate arbitrariamente per lo più in città. Sono poi portate in centri di detenzione dove vengono trattenute prima di essere caricate sui veicoli alla volta di aree desertiche, remote e inospitali dove vengono abbandonate senza cibo né assistenza». L’inchiesta dimostra però che mezzi e strumentazioni fornite dall’Ue e dai suoi Paesi membri sono della stessa tipologia di quelle impiegate dalle forze coinvolte nelle espulsioni di massa nei tre Paesi nordafricani analizzati. L’Ue riconosce l’esistenza delle espulsioni nel deserto, ma afferma che la responsabilità sia da attribuire ai Paesi partner. L’Italia è l’unico Paese coinvolto nell’inchiesta che ha ignorato le domande dei giornalisti. Nel gennaio 2024, ricorda Irpimedia, la commissaria europea agli Affari Interni, Ylva Johansson, ha ammesso di fronte all’Europarlamento di aver «visto questi report di persone che sono state deportate nel deserto», aggiungendo: «Alcuni di questi problemi sono stati risolti, ma non posso dire che questa pratica sia cessata. Quindi questo è, ovviamente, molto preoccupante».