Ci sarà la neve a Natale?

Milano, 16.6.2015
 
REGIA: Sandrine Veysset  SCENEGGIATURA: Sandrine Veysset, Antoinette De Robien  FOTOGRAFIA: Hélène Louvart MONTAGGIO: Nelly Quettier MUSICHE: Henri Ancillotti INTERPRETI: Dominique Reymond, Daniel Duval, Jeremy Chaix, Jessica Martinez, Flavie Chimenes, Alexandre Roger, Xavier Colonna, Fanny Rochetin, Guillaume Mathonnet PRODUZIONE: Humbert Balsan  DISTRIBUZIONE: Istituto Luce   DURATA: 93 Min
 
Negli anni Settanta, nella campagna del sud della Francia, in una sera d’estate si raccoglie il fieno. C’è una madre con sette figli, tutti al lavoro. La fatica è grande e loro sono soli. Ad un certo punto arriva un camion, scende un uomo che sembra il padre. È dolce con i più piccoli ma severissimo con i più grandi, che obbliga a lavorare duramente e maltratta di fronte alla madre. Poi fa caricare i prodotti sul camion e se ne va in città a trovare l’altra famiglia, per lui quella importante, che vive in modo agiato e tranquillo. Nella casa di campagna dove manca tutto, la madre cerca di mandare avanti la vita quotidiana, resistendo alla violenza psicologica dell’uomo con cui passa anche momenti belli. Quando però lui comincia a dimostrare un’attenzione particolare per la figlia maggiore, lei trova il coraggio di ribellarsi e cacciarlo via di casa. Intanto è arrivato l’inverno, e si avvicina il Natale. Nella grande casa non c’è il riscaldamento. Una sera, la mamma sistema tutti i figli a dormire in un’unica stanza. A notte fonda, si alza e accende il gas. Dopo un po’ uno dei piccoli si sveglia, ha sentito la neve che comincia a cadere e chiama tutti gli altri. Lei subito chiude la stufa, e tutti i bambini corrono fuori a giocare.
 
Film semplice e vero dove la campagna scandisce il ritmo delle stagioni e del lavoro. Una figura di padre di figli illegittimi sfruttati e trattati come schiavi che ben rappresenta l’arroganza del potere. Distribuito nel nostro paese (con risultati commerciali deludenti) alla fine del 1997 il film rivela la poesia e la spontaneità di una giovane regista della quale purtroppo arriverà da noi una sola opera, oltre a questa.
 
LA CRITICA
 
“Ci sono film che scorrono davanti agli occhi senza pretendere nessuno sforzo, altri che ti impongono di metterti al passo, sintonizzare il tuo respiro con quello dei personaggi e immergerti totalmente nella loro cornice ambientale e sentimentale. È il caso di ‘Ci sarà la neve a Natale?’ opera prima della trentenne Sandrine Veysset (…) Di ‘Ci sarà la neve a Natale?’ colpisce lo stile frammentario urtato e allusivo: idoneo a descrivere una realtà che l’autrice conosce bene, senza superfetazioni romanzesche. Talune scelte espressive, come la quasi totale assenza di musica, appaiono rigorose; e così la secca quotidianità dei dialoghi. Niente psicologismo né appelli del cuore: tutto è riferito in una chiave vagamente atonale come una catena di fatti della vita che si spiegano solo con la vita. Sembra facile, ma dietro c’è già una poetica matura, e la sensibilità di un’attrice come Dominique Raymond, che proviene dal teatro e non ne porta traccia nella dosatura delle espressioni e dei gesti”. (Tullio Kezich, ‘Il Corriere della Sera’, 20 dicembre 1997)
 
“C’è qualcosa della fiaba crudele nel primo e premiatissimo film della scenografa Sandrine Veysset, trent’anni, di Avignone, arrivata alla regia dopo aver lavorato con Lèos Carax. Ma va cercato molto in profondità. La struttura è fiabesca; il tono invece è aspro, secco, realistico, non fosse per la dimensione incantata introdotta dai giochi dei bambini, dall’inesauribile calore materno, dal bellissimo colpo di scena finale. Che suggella questo film ellittico, pudico, molto personale, sospeso in un’epoca concreta e insieme indefinita grazie alla quale il reale trapassa nell’onirico con una naturalezza rara”. (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 27 dicembre 1997)
 
“Qualcuno, in Francia, ha evocato il nome di Maurice Pialat a proposito di questa coraggiosa opera prima, e non ha avuto torto. Nell’esibizionismo generalizzato del cinema di oggi, un film del genere merita molta considerazione. E meriterebbe anche di trovare una nicchia di spettatori attenti, ai quali è in grado di offrire un’alternativa originale alle fin troppo smaglianti proposte di Natale. Gli interpreti (ai personaggi adulti danno volto Dommique Reymond e Daniel Duval) sono così credibili, che li diresti presi direttamente dalla vita”. (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 21 dicembre 1997)
 
Ruota intorno a una donna straordinaria Ci sarà la neve a Natale?, primo film della regista francese Sandrine Veysset. Straordinaria proprio nel significato letterale di fuori dall’ordinario, dalla normalità cui siamo abituati. Anche un po’ pazza, certo, come di continuo la apostrofa il padre-padrone che da anni la ama e la maltratta insieme, facendole procreare un figlio dopo l’altro; ma soprattutto eccezionale, diversa, animata da un’incredibile, invincibile forza interiore. (Luigi Paini, Il sole 24 ore, 4 gennaio 1998)
 
Alle stagioni che passano, agli spettatori che restano: così, su per giù, si legge fra i titoli che scorrono via veloci alla fine di Ci sarà la neve a Natale? ( Y aura-t-il de la neige à Noel?, Francia 1996). Sono tre, appunto, le stagioni che si susseguono nel film. Dice Sandrine Veysset che, tornando nel Sud della Francia per girare le diverse parti di questa sua opera prima – dalla piena estate alla fine di dicembre -, una delle emozioni più forti era data proprio dalla gioia di misurare le trasformazioni del paesaggio, del clima, dei volti, il crescere veloce e il mutarsi portentoso dei bambini. Basta quest’osservazione, per intuire quanto di “materno” ci sia, in questo suo racconto che ha i tratti d’un realismo puntiglioso e quelli, complementari, d’una favola insieme crudele e dolce. Realistiche, certo, sono le atmosfere e i luoghi, la vita che trascorre sempre uguale di mattino in mattino, di fatica in fatica. Eppure, c’è qualcosa d’incantato, nel modo in cui la Veysset guarda il lavoro nei campi, i giochi dei bambini, l’immensità della calura d’agosto, l’ossessione del battere interminabile della pioggia. Una magia domina le immagini di Ci sarà la neve a Natale?, una magia che ci è ben nota e che tuttavia è tanto delicata e caduca che un nulla basterebbe a dissiparne gli effetti. Intessuta di memoria, questa magia evoca sensazioni lontane eppure ancora e sempre vive: il piacere di perdersi, bambini, nel “trionfo dell’esserci” d’un pomeriggio d’estate, o nel tempo sospeso d’un gioco inventato con povere cose rubate alla banalità della vita (magari, come nel film, con zucchine trasformate in velieri, o con piccole pietre e fango messi insieme fino a farne un villaggio in miniatura, ma grande come l’immaginazione). In fondo, il segreto dello sguardo incantato di Ci sarà la neve a Natale? è nel punto di vista dal quale la Veysset racconta: è lei stessa una di quei sette ragazzini che, ben più di vent’anni fa, s’affacciano alla vita confortati dall’amore sicuro d’una madre forte e solare. E questo vale non solo e non tanto in termini strettamente autobiografici, ma anche e soprattutto in termini d’emozione. Davvero, alla sua macchina da presa riesce d’essere leggera e intensa come la memoria. Dunque, il suo realismo non ha bisogno di farsi ridondante, pleonastico. Le è sufficiente accennare appena, perché qualcosa in noi – forse proprio la memoria di cui è intessuta la magia d’essere spettatori – porti a compimento significati, fatti, sensazioni. Così, quando il film smette d’essere solo realistico e si fa anche fiaba, in platea non s’avverte alcuno stacco improvviso. Anche fiaba, appunto, Ci sarà la neve a Natale? è a proposito del padre. Il suo egoismo è terribilmente realistico, al pari della sua avarizia e della sua cecità d’amore. È un Orco, quest’uomo che nega la legna al fuoco dei suoi figli, che li “usa” come animali o cose, che li tiene chini sul lavoro dei campi, che non si ferma di fronte all’incesto. Ma è proprio per questo che, anche nei momenti peggiori, qualcosa in lui resta dell’ambivalenza emotiva che d’un Orco fa appunto un Orco. C’è, nella sua immagine, come il ricordo d’un antico fascino negato, d’uno spavento che si vena d’amore, smarrendosi nella meraviglia del passato. Fiaba, ancora di più, il film è a proposito della madre. Per gran parte dei 90 minuti complessivi, la macchina da presa la segue, la osserva. Ne sfiora leggera e delicata i movimenti, il corpo, i vestiti, la fatica, il sorriso. Ne mostra – da lontano, come doveva apparire ai figli, più di vent’anni fa – il mistero silenzioso della passione con il suo uomo, evocata da lui con un cenno o una frase, brevi e sicuri come un comando, e poi nascosta dietro una porta chiusa. Ne racconta il furore deciso, senz’ombra di paura, quando le tocca difendere i figli dal loro stesso padre. Soprattutto, ne evoca la dolcezza, il senso di continua e immediata vicinanza, il calore. È lei, per i sette ragazzini in balia dell’Orco, il principio d’ogni sicurezza, la possibilità stessa d’inventare giochi colmi di meraviglia, di perdersi nel tempo sospeso dell’estate. Come solo nelle fiabe può accadere, appunto, basta un suo cenno, un suo tocco, per sentirsi felicemente presi nell’immensità d’una vita che inizia. Persino quando il realismo della vicenda minaccia di precipitare in tragedia, il tono della narrazione rimane fiabesco. Per i suoi sette figli, la morte avrà il sapore della vita: d’una vita trasfigurata dalla festa, dalla speranza d’un dono, dal gioco d’uno stanzone zeppo di letti, tutti insieme in attesa dell’indomani. E fiabesco è il finale imprevisto, con la neve che scende a coprire di bianco il mondo, promessa vitale di futuro. Un futuro che ora, infatti, è qui sullo schermo, in questo film dedicato alla gioia delle stagioni che passano e alla memoria degli spettatori che restano.  (Roberto Escobar Il Sole-24 Ore, 4 gennaio 1988)
 
Alla fine del film, tra le altre dediche, ce n’è una curiosa: “alle stagioni che passano e agli spettatori che restano”. In effetti il film vive dei colori che mutano, del clima che varia con il passare dei giorni; la macchina da presa percepisce il trascorrere del tempo e i cambiamenti delle cose. Ascolta il soffiare del vento, i rumori, le voci e i suoni portati dall’aria. Attende gli scenari che la natura via via appronta ……. Il film però non scivola nella metafora: le stagioni che passano non riflettono le ansie e le miserie degli uomini, non rappresentano stati d’animo alcuno. Anche se può capitare che la neve possa dare una felicità nuova e rivestire la realtà dei colori della favola. (Angelo Signorelli – Cineforum n. 370) Una giovane regista francese che, senza aver mai girato nemmeno un cortometraggio, scrive la sua prima sceneggiatura e riesce a dirigere il suo primo film, una ragazza che viene dalla campagna, adora i bambini, la loro spontaneità, ed avrebbe amato lavorare con Anna Magnani. E’ Sandrine Veysset, studentessa di lettere, pittrice di scena in alcuni lungometraggi, rivelatasi improvvisamente con il suo Ci Sarà La Neve A Natale?, un film duro e solare al tempo stesso, che si stacca nettamente dal panorama trnsalpino degli ultimi anni, per il quale ha ricevuto, fra gli altri, il Premio César come migliore opera prima ed il Premio Louis-Delluc come miglior film francese dell’anno. ….come in ogni “favola” che si rispetti, la storia è piena di orchi e di Cenerentole. Il padre è l’orco, il padre padrone che legata a sè una donna sfrutta con naturalezza estrema lei ed i propri figli per poi la sera tornare in famiglia, quella vera, legalmente costituita. Un uomo che sa essere dolce e crudele, amorevole ed inflessibile, inumano fino al punto di arrivare ad insidiare la figlia più grande. Orchi sono anche i due figli maggiori, quelli legittimi, soggiogati dalla personalità paterna, ma appena meno responsabili, riscattati solo in minima parte da qualche piccolo gesto riparatorio, e su chi siano le Cenerentole non c’è di certo ombra di dubbio. … Tutti convincenti gli attori, dalla Reymond a Daniel Duval, l’impenetrabile padre avido di denaro e di potere, a tutti i piccoli protagonisti, spontanei e credibilissimi in questa loro prima esperienza cinematografica, così come la stessa Sandrine Veysset che, malgrado la giovane età e la totale inesperienza, dimostra, con uno stile asciutto e rigoroso, una invidiabile maturità ed una notevole capacità di direzione. Certo, l’appunto di fondo che alla regista può essere mosso è quello di una concezione saldamente ancorata ad un passato che, dopo anni di lotte sociali e di battaglie per l’emancipazione della donna, non dovrebbe più esistere, ma alla domanda se si ritiene possibile che ancora oggi una madre possa rispondere ai soprusi con il solo amore, senza essere in grado di scegliere, di decidere di cambiare, lasciandosi tutto alle spalle, non ce la sentiamo, con tutta sincerità, di escluderlo categoricamente, e tanto meno avendo a che fare con i valori ed i ritmi della campagna, ben poco decifrabili per chi, come noi, vive nella frenetica ed alienante dimensione metropolitana. (Carlo Cimmino – ReVision)