Fuocoammare

Milano, 3.3.2016

Distribuito in una cinquantina di sale con incassi decisamente scarsi il film vincitore a Berlino di Gianfranco Rosi divide il pubblico, come d’altra parte aveva diviso Sacro Gra dopo l’oro veneziano. Già perchè chi si aspettava un documentario classico è stato deluso da Fuocoammare (una espressione che risale alla seconda guerra mondiale, quando il mare faceva paura, ed adattata all’oggi dove il mare è diventato una tomba per centinaia di migranti). Nessuna immagine sensazionalista, nessuna denuncia come vorrebbero alcuni, ma un grande rispetto per gli abitanti di un’isola che si merita il Nobel per la Pace per la capacità di accogliere esseri che fuggono da fame e guerre. E questi abitanti sono ben rappresentati da Samuele, un ragazzino che gioca con una fionda ma che convive con le sue paure,  e da un medico alle prese con la morte quotidiana mantenendo la pietà e la partecipazione alle tragedie senza eccedere. Rosi da questo punto di vista è ammirevole e non specula sulla morte come fanno in troppi. Semmai lancia un messaggio alla nazione ed ad una Europa  (“pigra” come l’occhio di Samuele) che chiude le frontiere ed usa la tragedia dei profughi per difendere piccoli interessi locali. Un anno a Lampedusa per filmarla senza pregiudizi e con grande onestà riprendendo le persone dal vero nell’ambito della loro vita quotidiana. Alla faccia di chi avrebbe preferito un film ideologicamente forte con una denuncia sociale e politica che buca già troppi schermi televisivi. Ma il cinema, appunto, è altra cosa e vuole concentrazione sulle storie vere e non grida per attrarre l’attenzione di chi è indaffarato in tutt’altre occupazioni. Quindi a chi decidesse di gustarsi Rosi  (che naturalmente consigliamo) si armi di una pazienza affascinata dalla bellezza invernale dell’isola lontana dalle cartoline e dalle foto turistiche.