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Mosche da bar

Milano, 14.5.2015
 
REGIA e SCENEGGIATURA: Steve Buscemi FOTOGRAFIA: Lisa Rinzler
MONTAGGIO: Kate Williams  MUSICHE: Evan Lurie INTERPRETI: Carol Kane, Mark Boone Junior, Steve Buscemi, Bronson Dudley, Anthony LaPaglia, Eszter Balint, Kevin Corrigan, Elizabeth Bracco, Daniel Baldwin, Steven Randazzo, Chloë Sevigny, Dudley Bronson, Michael Buscemi, Debi Mazar, Mimi Rogers, Samuel L. Jackson, Seymour Cassel PRODUZIONE: Addis Wechsler Pictures – Live Entertainment – Muse Productions  DISTRIBUZIONE: Live Entertainment (1997) – Orion Classics – Academy Pictures – Rcs Films & Tv DURATA: 91 Min
 
 
 
 
In una lontana periferia di New York, il bar Trees Lounges è il punto di ritrovo per motociclisti, operai, vecchi clienti, bevitori seri ma anche il luogo dove trascorrono le giornate alcuni personaggi strani. Bill, veterano di guerra, è un vecchio cliente abituale. Jakie e Stan sono una anziana coppia che da sempre litiga su tutto. Vic, il capobarista, è brontolone e cattivo, l’altra barista, Connie, è presa dagli affari ma ogni tanto si lascia andare ai complimenti dei clienti. C’è poi Tommy, 31 anni, meccanico disoccupato, sempre pronto a parlare e a passare la notte con ragazze appena conosciute. La sua ex fidanzata Lisa se ne è andata con Rob, il suo migliore amico e anche datore di lavoro. Lisa è incinta di otto mesi e Rob non sa se il figlio è suo o di Tommy. Questi un giorno si ritrova con un furgoncino per vendere gelati, lasciatogli da uno zio. Tommy va in giro e, passando di strada in strada, si fa aiutare dalla minorenne Debbie. Ad una festa, la ragazza fuma erba e passa la notte con Tommy. Il papà Jerry lo viene a sapere e lo riempie di botte. Uscito dall’ospedale, Tommy torna al bar e capisce che è il momento di riordinare la propria vita. Anche il vecchio Bill è stato ricoverato. Tommy al bancone pensa al futuro.
 
A New York  un meccanico disoccupato e senza scopi nella vita è il protagonista di un film che racconta la mancanza di senso che viene esorcizzata attraverso comportamenti logorroici con un eccesso di parole vuote.
 
LA CRITICA
 
“Malinconico e rassegnato, il personaggio che Steve Buscemi ha interpretato per il suo esordio come regista la dice lunga su cosa amano veramente i volti della nuova Hollywood. Qui l’aggressività. l’ironia e la strafottenza dei vari personaggi pre e post tarantiniani lasciano il campo al quadro disperato di una solitudine invasiva che si toglie la maschera per mettere in pubblico i propri fallimenti. Senza rimpianti ma con la pacata accettazione di chi sembra destinato a conoscere soltanto la sconfitta. Proprio come i frequentatori del bar Trees Lounge. persi per sempre dentro il bicchiere, ma comunque incapaci di accettare le conseguenze delle loro azioni. Buscemi filma senza vezzi post moderni, ‘ad altezza d’uomo’ attento soprattutto al lavoro sulla recitazione, all’aggressività fisica, a una centralità dell’attore. E ci offre il quadro desolato e pessimista di una società che, a differenza di Hollywood, non è più capace di credere nei sogni“. (Paolo Mereghetti, ‘Sette’, 10 luglio 1997)
 
“Robert Altman e John Cassavetes potrebbero essere i padrini di questo minuscolo capolavoro che con delicata sensibilità ritrae la triste e buffa commedia umana di un mondo alla deriva. Un mondo senza illusioni né speranze, colto attraverso notazioni, istantanee, facce mutate in tragiche maschere di solitudine che affascinano nella loro dura e commovente verità”. (Enzo Natta, ‘Famiglia Cristiana’, 6 agosto 1997)
 
Buscemi ha preso parte a più di cinquanta film. E in molti di essi ha assunto le sembianze dell’Uomo Nei Guai, un personaggio un po’ picaresco e un po’ idiota che si affanna in tutti i modi per sbarcare il lunario o tirarsi fuori da qualche situazione difficile, senza quasi mai riuscirvi. Sfortunato con le donne e con la vita, Buscemi rappresenta l’icona contemporanea del perdente, una figura tragicomica sempre un gradino più in basso rispetto agli altri: che impugni una pistola da killer o faccia il fattorino in un albergo, egli finisce comunque per restare schiacciato dagli eventi senza quasi rendersene conto. Mosche da bar è il suo primo lungometraggio, e in esso sembrano convergere in blocco molte delle esperienze accumulate in dieci anni di frenetico lavoro sul set. Il risultato è un film imperfetto e sconnesso, ma che proprio in questa incompiutezza trova una dimensione narrativa efficace. Ogni elemento del film risente di un senso generale di disarticolazione, nel senso letterale di “incapacità di articolare”: come ha avuto modo di sottolineare lo stesso Buscemi in un’intervista, “è stato difficile trovare qualcuno che si interessasse a questa produzione; è stato difficile trovare i soldi; ma il problema più grosso è stato creato sicuramente dalla mia incapacità personale ad essere abbastanza articolato da spiegare cos’è che in effetti volevo”. Mosche da bar è un film permeato dai vuoti di senso, da una sorta di afasia che si esorcizza attraverso la logorrea. Le parole rimbalzano impazzite addosso a chi le pronuncia, tornando nel nulla da cui erano giunte nell’istante stesso in cui si materializzano. E Tommy-Buscemi, animale da bar né infame né lodevole, è il punto centripeto e insieme contrifugo di questo turbinio di materia vuota. Sia il titolo originale che quello tradotto per il pubblico italiano mirano a identificare l’aspetto più importante del film con il bar come microcosmo e luogo di accentramento dell’azione. Ma se in quello americano è il locale stesso che si impone come fulcro delle storie, il riferimento alla figura del barfly che troneggia nel titolo italiano, oltre che a richiamare alla memoria balordaggini bukowskiane e abbrutimenti disumani, tende a spostare l’attenzione sulle persone che ronzano attorno a un bancone incapaci di deviare la rotta verso altre mete. Data questa premessa, il titolo italiano ci sembra più efficace, ma sicuramente meno appropriato rispetto a ciò che poi accade nel film. L’alcolismo non rientra nella sfera degli eventi. È un elemento scenografico, un dato di fatto che esiste come supporto e che pochissimo influisce sulla concatenazione narrativa. I personaggi di Mosche da bar bevono, certo, e lo fanno anche con continuità e determinazione, eppure non vi è quasi rapporto tra i pochi ed esili fili della trama e il locale del Trees Lounge. Le bevute di Tommy e dei suoi amici allo sbando sono più che altro un elemento della caratterizzazione: influiscono sulla recitazione e li segnano come appartenenti a quella working class di periferia che di rado viene rappresentata nel cinema americano contemporaneo. Se si pensa a esempi analoghi all’interno del cinema britannico (Loach, Leigh, Winterbottom e innumerevoli altri), si nota subito come la raffigurazione di un proletariato “genetico” composto di soli perdenti dediti in forme più o meno pesanti all’alcolismo e sopraffatti dalle tragedie dell’esistenza sia talmente consolidata dal punto di vista dell’immaginario che risulta quasi difficile accettare che possa accadere qualcosa di diverso. L’ubriacone americano, invece, è spesso trasfigurato da un alone di romanticismo (un esempio recente: il Nicholas Cage di Via da Las Vegas): che si tratti di un artista o di un uomo qualunque, l’asservimento alla bottiglia o ad altri tipi di dipendenza nociva costituisce nella maggior parte dei casi un espediente per raccontare la storia di una caduta, un passaggio da una condizione di benessere e felicità a una di abbrutimento (e non è esclusa la possibilità di una redenzione). Il film di Buscemi sembra accostarsi di più ai modelli britannici: non vi sono cause scatenanti né passaggi di stato eclatanti; se anche Tommy non avesse rubato i soldi dalla cassa, se anche non fosse stato licenziato, se anche la sua donna non l’avesse lasciato, probabilmente la sua vita non sarebbe stata molto diversa. Ed è per lo stesso motivo che non c’è alcuna possibilità di risalire. Il film non ha un inizio né una fine. Le cose che succedono nell’ora e mezza che separa i titolo di testa da quelli di coda sono solo una fetta (la “tranche de vie”?) di un continuum esistenziale scandito dalla ripetizione di piccoli gesti senza conseguenze. Ciò nonostante Mosche da bar è essenzialmente un film divertente, che non risulta mai noioso neppure nelle parti più disarticolate, neppure quando Buscemi cade vittima di un narcisismo istrionico che lo porta a recitare sopra le righe, neppure quando la musica si fa troppo invadente. Un grande pregio del film: da Buscemi, data la sua rete di relazioni all’interno dell’universo cinematografico contemporaneo, ci si poteva aspettare una caterva di omaggi e apparizioni e comparsate a benedizione del primo film tutto suo. E invece in Mosche da bar, a parte un minuscolo cameo di Sam Jackson, non c’è nessuno. Neppure Jarmusch.  (Alessandra Di Luzio, Cineforum n.365, giugno 1997)
 
Divertente, asciutto, minimalista, stilisticamente quieto, all’insegna di un realismo comportamentale alla Cassavetes che, pur sconnesso e frammentario, ha un suo timbro personale. Nel ritratto di Tommy, stralunato nullafacente e fallito a tutti i livelli, che si è scritto addosso, l’attore-regista conferma la sua bravura di caratterista anomalo (M. Morandini)

 

 
 
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