Grazie, signora Thatcher

Milano, 9.7.2015
 
MONTAGGIO: Michael Ellis MUSICHE: Trevor Jones INTERPRETI : Pete Postlethwaite, Tara Fitzgerald, Ewan McGregor, Jim Carter, Stephen Tompkinson, Peter Martin, Philip Jackson, Mary Healy, Sue Johnston, Lill Roughley, Melanie Hill, Peter Gunn PRODUZIONE: Channel four – Miramax – Prominent features DISTRIBUZIONE: Bim distribuzione – Medusa video DURATA: 105 Min
 
Nel 1989 in Inghilterra, nella regione dello Yorkshire, l’ondata di chiusura delle miniere produce effetti devastanti tra le persone e le famiglie dei piccoli centri. La Grimley Colliery Band, dove suonano molti minatori, ha una tradizione ormai centenaria e diventa il baluardo della comunità. Il suo leader, Danny, minatore in pensione, ne ha fatto una ragione di vita, molti dei componenti, ormai disoccupati, non riescono a condividere questo entusiasmo e pensano di abbandonare. Un giorno torna in paese la giovane Gloria, nipote di Danny e primo amore di Andy, uno dei musicisti. Gloria si unisce alla banda e tra tutti torna l’entusiasmo.
 
 
Il film ricorda i 250.000 posti di lavoro persi grazie alla legge del profitto e si concentra su alcuni dei senza lavoro con le loro angosce e disperazioni raccontate attraverso i canoni della commedia.
 
 
LA CRITICA
 
I disoccupati sono le star del nuovo cinema laburista inglese che ci guarda negli occhi: in Mad City Travolta senza lavoro fa il bandito, in Full monty dei poveracci si spogliano per campare. E in Grazie, signora Thatcher del quasi “deb” Mark Herman, un gruppo di minatori, alcuni dei 250.000 che, dall’85 in poi persero il lavoro dopo le “cure” liberiste della Lady di ferro, si dedicano alla banda del paese di Grimley. Il film, civile e appassionato, commovente e furbo, massimalista e minimalista, racconta appunto il pubblico (sindacale) e il privato (sentimentale con birra) di questo villaggio inventato ma verosimile dello Yorkshire, dove ogni convivenza è messa a dura prova dalla perdita del posto (140 miniere furono chiuse) e della dignità. Piovono pietre, per dirla alla Ken Loach. Un bel concerto basterà a sollevare gli animi? Forse sì, specie se col suo flicorno arriva Tara Fitzgerald, che ha un colpo (musicale) di fulmine con Ewan McGregor (uno dei ragazzi “deragliati” di Trainspotting): ma sarà una cotta di classe, perché lei fa il marketing per i padroni. Finale in crescendo emotivo: il buon papà lasciato dalla famiglia è costretto a fare il clown per i bambini agiati; il vecchio capobanda all’ospedale, vittima del silicone; il gran concerto alla Royal Albert Hall di Londra. E soprattutto la consapevolezza di sapere dove si annida il vero onore. Basato sulla solidarietà tra umiliati e offesi (come in Marius e Jeannette) e sul rilancio del fattore umano contro la logica industriale, Grazie, signora Thatcher è un film che ci entra subito in vena per la dichiarata e perfino ingenua partigianeria, per la simpatia dell’impressionismo narrativo e per la bontà delle sue cause sociali.(…) Pieno di colpi bassi del destino, il film dimostra ancora una volta che non è vero che le persone normali non hanno nulla di eccezionale da offrire. Il regista coniuga gioia e fatica, prosa e poesia, la rabbia e l’ouverture del Guglielmo Tell, la vita e la musica, secondo una ineluttabile ricetta emotiva valorizzata da una compagnia ottima, in cui risalta Pete Postlethwaite (In nome del padre). Anche se la situazione offre poche occasioni d’ilarità, la commedia operaia è molto piacevole, sa essere brillante, scherza su cose serie (un disoccupato vale l’altro, il tema è universale) e dimostra come il rude proletario possa essere anche un musico raffinato. Il tutto, senza dimenticare mai la prima legge dello spettacolo: stupire, divertire, commuovere. E una sicurezza: questa classe operaia andrà in paradiso, con tutta la banda. (Maurizio Porro, ‘Il Corriere della Sera’, 14 febbraio 1998)
 
“Un bel film pur con qualche eccesso demagogico, sospeso tra commedia sentimentale e melodramma sociale, recitato benissimo da attori che a Cinecittà nemmeno ci sogniamo. Il regista Mark Herman fa tappa nel rumoroso caffè con biliardo tra le viuzze in saliscendi e le decorose case del villaggio, e naturalmente nei teatrini dove si svolgono i concerti dei fieri minatori, indecisi se abbassare la testa di fronte alle 23mila sterline offerte dalla ditta. Promemoria per Nerio Nesi: è vero che il portavoce dei minatori annuncia orgogliosamente davanti alla platea sbigottita di non voler ritirare la gigantesca coppa appena conquistata, ma poi, quando nessuno guarda, se la porta via. Come dire: democratici sì, fessi no”. (Massimo Bertarelli, ‘Il Giornale’, 13 febbraio 1998)
 
Proviamo, dunque, a parlare del film come se fosse semplicemente un film. L’errore (cinematografico) consiste nello scambiarlo per un manifesto politico o un esempio di cinema militante, quasi si trattasse di ‘Borinage’ l’archetipico documentario di Joris Ivens sugli scioperi minerari degli anni ’30. Se fosse così, avrebbe ragione chi gli rimprovera di risolvere tutto con un colpo di bacchetta magica: anche se, in realtà, la rivincita morale a Londra è pur sempre quella di una banda di neodisoccupati. Ma così non è. A lady di ferro Mark Herman contrappone sceneggiatura di ferro, mettendo in scena una commedia amara che dosa sapientemente commozione e sorrisi, solidarietà e sdegno secondo la più solida lezione del ‘cinema civile’ quando vuole arrivare al grande pubblico. I nostalgici della premier britannica troveranno ‘Grazie, signora Thatcher’ ‘rosso’ e fazioso; i duri e puri gli rimprovereranno l’uso dell’emotività, come hanno fatto con gli ultimi film di Ken Loach. Agli altri piacerà”. (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 9 febbraio 1998)
 
Commedia proletaria di forti connotati sociali, scritta dal regista (cresciuto nello Yorkshire) (…) con l’energia convinta e contagiosa di chi sta facendo la cosa giusta. (M. Morandini)
 
Commedia amara dai profondi risolti sociali, costantemente tesa com’è all’analisi dell’Inghilterra proletaria, Grazie, Signora Thatcher deve indubbiamente molto al cinema di Ken Loach: le analogie con film quali Riff Raff o Piovono Pietre sono infatti evidenti, anche se il risultato finale è di gran lunga inferiore. Il proscenio viene qui dato alla storia d’amore fra Andy e Gloria, ai difficili rapporti fra mariti e mogli, fra padri e figli, senza però quasi mai riuscire a suscitare vere emozioni e procedendo anzi stancamente fra luoghi comuni verso un finale volutamente demagogico che, per quanto toccante, male si accorda con lo sviluppo della storia e le caratteristiche dei suoi personaggi, risolvendo al tempo stesso con semplicismo ogni problema di relazione interpersonale e mirando unicamente ad infiammare gli animi e suscitare lo sdegno dello spettatore, senza la benchè minima preoccupazione di compiere un esame costruttivo e spassionato del quadro politico ed economico di quegli anni. (C. Cimmino – ReVision)