I Classici del cinema – Un condannato a morte è fuggito

Milano, 18.3.2020

Regia Robert Bresson Soggetto: Da un racconto di André Devigny Sceneggiatura: Robert Bresson Fotografia: Léonce-Henry Burel Musiche: Messa in Do minore di Mozart Montaggio: Raymond Lamy Scenografia: Pierre Charbonnier Interpreti: Maurice Beerblock, Jacques Ertaud, Charles le Clainche, François Leterrier, Roland Nonod Produzione: Societé Nouvelle des Etablissements Gaumont-Nouvelle Editions de Films/Alain Poiré/ Jean Thuillier Distribuzione: Cineteca dell’Aquila – Griffith – Immagine – Lab 80 Film Durata: 95′.

Dopo l’interrogatorio della Gestapo, un prigioniero politico tenta la fuga, ma viene riacciuffato e lasciato privo di sensi in una cella. Da quel momento si dedica con meticolosità a ideare un piano di fuga. L’arrivo di un nuovo compagno di cella gli fa temere di essere spiato, ma la condanna a morte gli infonde nuove forze. Trascorsi momenti di angoscia, riesce ad attuare felicemente il suo piano e a riconquistare la libertà.

Uno dei capolavori di Robert Bresson, girato dopo un altro capolavoro del regista francese come Diario di un curato di campagna, rimane film ancora attuale utilizzabile nelle scuole medie superiori per affrontare il tema dei diritti umani ma anche per approfondire la psicologia dei personaggi come vengono descritte da un’arte come quella cinematografica.

LA CRITICA

Il film si presenta come una specie di diario psicologico del detenuto (analogo al diario del curato), dal momento in cui viene catturato al momento in cui comincia i preparativi della fuga, dal momento in cui nella sua cella viene rinchiuso un altro al momento in cui gli comunicano la condanna a morte. l’infinita pazienza con cui l’uomo lotta per sopravvivere, ricorda un pò le avventure del naufrago Robinson Crusoe sull’isola deserta; ma Bresson è tutto intento a far trapelare la presenza di un inferno (la colonna sonora concreta, fatta di rumori di passi, di chiavi, di porte) e di un Dio (la sorte alterna dei preparativi, che inesorabilmente conducono lui alla salvezza, mentre gli altri saranno giustiziati).
L’effetto di straniamento di questi film è acuito dal commento esteriore: in Le journal d’un curè de campagne l’azione è presentata dalle frasi che il curato scrive sul suo diario, in Un condamné à mort s’est échappé una voce fuori campo spiega la scena, maestro di cerimonie per queste danze metafisiche di un’ascetica purezza (Piero Scaruffi).

Dal racconto di André Devigny: nel 1943 un componente della Resistenza, rinchiuso nel forte di Montluc di Lione, riesce a evadere con un giovane prigioniero comune. “Un’opera insolita che non assomiglia a nessun’altra” (A. Bazin). “Il film è un mistero. Il vento soffia dove vuole” (R. Bresson). Se il vento soffia dove vuole, pascalianamente hanno valore pensiero e volontà, coincidenti con una coscienza morale, con un’azione che è l’espressione di un rigore e di una libertà interiori, non piegati alle varie oppressioni del carcere terreno. Per il protagonista la fuga da un carcere nazista si fa lotta, intima e pratica, contro le proprie debolezze, scontro fisico e rarefatto con la durezza delle cose. Film calvinista con attori non professionisti e la Messa in do di Mozart nella colonna musicale. Altro titolo originale: Le vent souffle où il veut (Morando Morandini).

Il film – presentato al festival di Cannes il 15 maggio 1957, premio per la migliore regia – ha come sottotitolo una citazione (Le vent souffle où il veut) dal Vangelo di Giovanni (3,5 – 8). A Nicodemo che gli domandava come un uomo possa nascere quando è vecchio, Gesú rispose: “Non stupire per quel che ti ho detto: voi dovete nascere di nuovo. Il vento soffia dove vuole. Tu senti la sua voce ma non sai donde venga né dove vada”. È il mistero della Grazia. Bresson, in questo che è certo il suo film più austero, offre una meditazione sulla fede e sul destino dell’uomo. Interroga le immagini (la realtà che le immagini creano) per ottenerne una risposta che sa impossibile. Un condamné à mort s’est échappé può essere letto, con ogni ragione, come una parabola, quantunque nulla contenga di religioso. Siamo agli antipodi del precedente Journal d’un curé de campagne. Ma i due film sono legati da un solido filo tematico. La storia del curato di Ambricourt nasceva da una forte volontà di redenzione (di liberazione). Da una analoga volontà nasce la storia del tenente Fontaine. La prima conduce a un esito apparentemente negativo (la sconfitta e la morte), la seconda a un esito positivo (la fuga riesce). Il fatto solo che la volontà esista, e che sia così tenace da sfidare le prove più dure, rivela in che cosa realmente consista la natura dell’uomo. Per questo, infatti, l’esito non può che essere, in ogni caso, positivo. “Che cosa importa?” scrive il curato morendo. “Tutto è Grazia.”
In una storia rigorosamente laica e terrena, il regista fa sentire – forse ancora più che nel Journal – la presenza del soprannaturale. La fuga di Fontaine dal forte di Montluc a Lione, durante la Resistenza, è anche un miracolo. Il prigioniero non vince soltanto contro la costrizione ma anche (soprattutto) contro se stesso, la sua debolezza umana (“Il tremendo è decidersi”, confessa al suo vicino di cella). Intorno a lui il regista alza – attraverso inquadrature strette, ambienti soffocanti, muri senza appigli, finestrelle che lasciano appena passare la luce – una griglia di isolamento. La fotografia è grigia, sporca: comunica costantemente il senso dell’abbandono e della degradazione. La macchina da presa esplora il mondo della reclusione quasi senza muoversi: registra i fatti minimi, quelli che toccano (fisicamente) il protagonista, e trascura tutti gli altri perché tutto il resto è fuori della portata visiva del prigioniero (solo rumori giungono dall’esterno: dalle altre celle, dai corridoi, dal cortile, dalla strada davanti al forte, dalla vicina stazione ferroviaria). Fontaine, che pure ha contatti numerosi con gli altri detenuti, è alla fine (e sempre) solo con se stesso. È questo che il ritmo ossessivo del montaggio comunica allo spettatore. Il film inizia con l’inquadratura di una lapide: “Qui, durante l’occupazione tedesca, soffrirono diecimila uomini, vittime dei nazisti. Settemila soccombettero”. Dopo i titoli, una didascalia: “Questa storia è vera. lo la racconto così com’è, senza ornamenti. Robert Bresson”. Un’altra didascalia indica: “Lyon, 1943”. Un’auto della Gestapo trasporta alcuni prigionieri. Uno, approfittando di una sosta, balza e scappa. I tedeschi lo inseguono e lo raggiungono. È Fontaine. Al forte lo sbattono in una stanza e lo torturano. Vediamo quando esce, su una barella. L’interno di una cella. Si apre la porta. I tedeschi buttano dentro Fontaine, la faccia coperta di sangue. Poi gli buttano addosso la giacca. Così comincia la prigionia. Fontaine è in una cella a pianterreno. Si arrampica come può sino alla finestrella, parla con un altro detenuto in cortile. I contatti si ripeteranno i giorni successivi. L’amico (Terry) gli fa avere una matita e carta: così Fontaine potrà comunicare con l’esterno. Terry gli procura anche una spilla, per aprire le manette che lo immobilizzano. Improvvisamente, il detenuto è trasferito in una cella all’ultimo piano. Non importa. Per Fontaine l’essenziale è concentrarsi sul pensiero della evasione. La sua giornata è scandita dai “riti” del carcere (le uscite dalla cella, la sosta al lavatoio, la pulizia dei secchi nel cortile, il rientro in cella) e dalla preparazione della fuga. Con un cucchiaio si fabbrica un piccolo scalpello per incidere il legno della porta, lentamente, un giorno dopo l’altro, sino a scardinarne gli assi. Mantiene collegamenti con gli altri, soprattutto con Terry e con il pastore che incontra regolarmente al lavatoio. Sarà un duro colpo per lui quando Terry sarà trasferito in un altro carcere. Ma questo non gli impedirà di continuare. Gli assi della porta hanno ceduto: basterà solo toglierli al momento opportuno. Fontaine prende accordi con il detenuto (Orsini) che occupa la cella di fronte alla sua. Intanto prepara, con mezzi di fortuna, le corde necessarie per calarsi dai muri di cinta. Ma Orsini non aspetta, e tenta precipitosamente la fuga da solo. Lo catturano e lo condannano a morte. Prima di essere fucilato, riesce a comunicare con Fontaine, dicendogli che è indispensabile procurarsi dei ganci: solo così si potrà far presa sui muri e arrampicarsi. Questa informazione preziosa (provvidenziale: solo chi ha tentato la prova è in grado di conoscere il “segreto” della fuga) stimola Fontaine a moltiplicare gli sforzi. Il vecchio Blanchet, suo vicino di cella, lo segue e lo consiglia passo passo. Per i ganci si può smontare la griglia che protegge la lampada. Non è semplice, occorre tempo e grande prudenza. Occorrono, poi, altre corde. Per questo Fontaine fa a pezzi gli indumenti che gli hanno mandato.
Con infinita pazienza, il prigioniero mette a punto ogni dettaglio. Blanchet ha l’impressione che questa smania di perfezione e questo bisogno estrema sicurezza nascondano indecisione e paura. Ed è vero. Ma, ora, un fatto esterno e tremendo interviene. Fontaine è prelevato e condotto al comando della Gestapo, dove gli comunicano che sarà fucilato. Deve fuggire subito, e solo, anche se sa – dopo il fallimento dì Orsini – che l’impresa è disperata. Ed ecco, di nuovo, la soluzione provvidenziale. Gli danno un compagno di cella. Dapprima egli ne diffida: questo Jost, ragazzo sporco e spaurito (la provvidenza è misteriosa), potrebbe essere una spia. Ma non ha scelta: solo in due si può fuggire. Rivela a Jost il suo piano. E, una notte, i due scardinano gli assi della porta, escono nel corridoio, raggiungono la terrazza, si calano nel cortile. C’è una guardia. Per proseguire bisogna sopprimerla. Fontaine, approfittando del passaggio di un treno che copre ogni altro rumore, le salta addosso e la strangola. Rimangono due muri da superare. Per il primo non ci sono difficoltà. Quando sono in cima (intanto le ore passano, l’alba si avvicina), si trovano di fronte il muro esterno. Sotto, nel fossato che separa i due muri, gira una guardia in bicicletta. Non ci si può calare. Non resta che tendere una corda fra un muro e l’altro (provvidenziali ganci) e, aggrappandosi ad essa, attraversare il fosso. Esitano, il pericolo è grande. Fontaine, finalmente, passa. E poco dopo si trova nella strada. Salta anche Jost. Fontaine lo accoglie ai piedi del muro, ancora incredulo: “Se mia madre mi vedesse”. È il primo segno della felicità. In campo lungo, Jost e Fontaine si allontanano. Una locomotiva in manovra li supera sbuffando.
Tutta l’azione è narrata dalla voce fuori campo di Fontaine (in cui si identifica il comandante André Devigny, il vero protagonista della fuga da Montluc). Non c’è attesa per la soluzione che già sappiamo positiva. C’è, invece, l’interesse per il meccanismo dell’azione (come si concatenano i diversi segmenti) e per il comportamento del protagonista. Sono, perciò, i fatti interiori che contano (e i fatti esterni solo come riflesso di quelli interiori). Bresson li espone pienamente, senza forzature (nessuna violenza è descritta), ma con inflessibile – distaccata, fredda precisione. La vita non ha bisogno di commenti: il vento soffia dove vuole. Chiedersi perché sarebbe, forse, blasfemo (Fernaldo Di Giammatteo – 100 film da salvare).