I protagonisti: Valerio Dalle Grave

Milano, 2.8.2006

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006.

Sono nato il 13 ottobre del 1935 a Santa Giustina, in provincia di Belluno. Sono il primo di sei figli e come tutti i primogeniti ho dovuto scarpinare parecchio e rinunciare a tante cose. Sono rimasto orfano all’età di quasi quattro anni, non ho praticamente conosciuto mia madre. Rimasto vedovo, mio padre si è risposato. Era capo operaio nei cantieri idroelettrici e quando avevo tre anni ci siamo trasferiti dal bellunese a Sondrio poiché aveva trovato lavoro nella costruzione della diga degli impianti di Lovero per l’Aem. In quegli anni erano tanti i cantieri aperti per la costruzione di dighe e. degli impianti idroelettrici della Valtellina. Ormai sono sessant’anni che sono qua e posso ritenermi valtellinese a tutti gli effetti, anche se non ho mai perso il legame con la mia terra di origine

Ho sempre abitato a Regoledo di Cosio, vicino a Morbegno. Ho frequentato le scuole lì e posso dire di aver avuto la disgrazia o la fortuna, dipende, di avere avuto dalla prima alla quarta elementare una maestra che era anche la segretaria comunale del fascio. Forse anche perché la maestra assomigliava tanto alla mia matrigna, ma proprio in quegli anni sviluppai una profonda repulsione nei confronti del fascismo. Basta dire che ricordo ancora la gioia e la felicità di un giorno del luglio ’43, quando con altri ragazzini della colonia ci hanno portato in piazza della chiesa e abbiamo visto un’enorme catasta di gagliardetti, libri, volantini: tutti i materiali del fascio che fino a pochi attimi prima erano nella casa comunale erano stati buttati dalle finestre e bruciavano in piazza. E io ero felice. Non ho mai sopportato il tentativo di intrappolare le persone e le loro idee.
Finite le scuole elementari sono andato in un collegio dei comboniani a Crema, dove ho frequentato la prima ginnasio. Dopo un anno però sono rientrato a casa, dove in fondo si stava bene. Era una casa di operai e avevamo il privilegio della tessera e del supplemento che ci consentiva di avere un po’ di patate e qualcosina in più degli altri. In collegio non sopportavo l’eccessivo inquadramento, la disciplina. Ero insofferente.
Tornato a casa, avrò avuto 12 anni, non sapevo neanch’io che cosa fare e ho convinto mio padre a mandarmi in Veneto, dalla mie nonne. Erano i mesi a cavallo tra ’47 e ’48, un periodo molto importante, perché per la prima volta ho cominciato a interessarmi alla politica. Mi sono buttato a capofitto nelle iniziative della parrocchia di Santa Giustina, incentivato da un bravo prete che ci seguiva.
Ho conosciuto persone che si occupavano di politica e ho cominciato a fare il “galoppino”, impegnato giorno e notte, per la campagna elettorale dell’aprile del ’48. Strappavo i manifesti degli avversari, distribuivo i volantini. Io stavo coi berretti verdi di Luigi Gedda, ma vinte le elezioni cominciai a approfondire, con la mia incoscienza e curiosità, le questioni della politica. Gedda in fondo non mi convinceva: come in collegio non sopportavo l’inquadramento, la disciplina, l’aggregazione comandata. E presi le distanze. Del resto, il berretto verde io non lo volevo, non l’ho mai portato. A malapena mi sono reso disponibile a diffondere il Vittorioso (mi piaceva troppo Jacovitti!!), in competizione con i ragazzi che distribuivano il Monello.
Dopo un anno, mio padre non sentì più ragioni: voleva riunire la famiglia e mi obbligò a rientrare a casa. Tornato a Regoledo mi disse: “Non hai voluto stare in collegio, adesso vieni a lavorare! Io non posso mantenerti agli studi”. Così, ancora prima di compiere i 14 anni, era l’autunno del 1949, mi portò nel cantiere dell’impresa Castelli e Pizzocchero, nell’alta Val Malenco.
Si stava costruendo la strada che avrebbe poi portato alle dighe di Campo Moro e Campo Gera. Sono rimasto là fino al luglio del ’53, in maniera continuativa salvo qualche mese che ho passato a Talamona dove stavano costruendo lo stabilimento della Snam e del Pignone.
I primi tempi l’impatto è stato traumatico. Le prime settimane bazzicavo negli uffici dell’impresa, facevo un po’ di tutto, lavoretti vari. Poi mi hanno aggregato ai geometri per portare gli strumenti per le misurazioni. La bifa, le paline, anche il tacheometro: uno strumento pesantissimo che dovevo portare sulle spalle. Ero caricato come un somaro, ma tutto sommato accettavo abbastanza di buon grado questo lavoro perché cercavo di rubacchiare un po’ di mestiere ai geometri. Mi piaceva imparare, se avessi potuto avrei continuato a studiare.

Galoppino
Cercavo di inserirmi tra i geometri, ed ero in attesa di essere assunto, quando ho cominciato a fare il “galoppino” sindacale di Plinio Vanini, l’impiegato fac-totum dell’impresa Castelli nel cantiere di Tornadri, ultima frazione del comune di Lanzada. Vanini era un uomo molto impegnato: era nella segreteria della Cisl provinciale, oltre che attivista delle Acli e della Democrazia cristiana. Io dovevo attaccare manifesti e distribuire volantini – pochi e misurati a causa della penuria – tra gli operai e i minatori, anche la sera nelle baracche. Dovevo in sostanza eseguire gli “ordini” di Vanini. Avevo solo una pallida idea di che cosa fosse l’attività sindacale, però sentivo che quello che stavo facendo era una cosa buona. E poi mi piaceva, dovevo muovermi in segreto, in clandestinità: non dovevo farmi vedere dagli assistenti, dai dirigenti. Imparavo i piccoli sotterfugi, mi appassionava. Questo è stato il mio primo contatto con il sindacato. L’amicizia fra mio padre e Vanini faceva sì che io fossi “accettato” in cantiere con compiti che esulavano da quelli dell’impresa. A fasi alterne venivo anche “messo in forza” (cioè registrato a libro paga) regolarmente, ma io, a quel tempo, non mi curavo troppo del problema. Oggi, quel tipo di lavoro sarebbe classificato come “sfruttamento di minore”, ma allora non si andava troppo per il sottile, specie per un ragazzino figlio di un “capo” e amico dell’Impiegato che “faceva le paghe”: tutto andava bene così. Sembrerà strano, ma in fondo io ero soprattutto felice di poter mangiare a sazietà tre volte al giorno. Nel ’51, dopo un anno e mezzo di galoppate, finalmente mi venne consegnata la prima tessera della Cisl. Secondo la mentalità dell’epoca, forse ero troppo giovane per riceverla prima.
Comunque, a causa della carenza dei mezzi di trasporto, dell’insicurezza del lavoro, dell’estrema esiguità e saltuarietà dello stipendio, per me fare il sindacalista a quel tempo era un faticaccia.
Dopo quattro anni in Valmalenco, nel ‘53 ha cominciato a pesarmi l’isolamento della montagna. Riuscivo a scendere in valle solo ogni quindici giorni e vedevo i miei amici andare al cinema, a ballare. E io sempre in montagna…Mi son detto: <<Basta, sto diventando vecchio, se rimango qua sarò tagliato fuori dal mondo>>. Anche perché nel frattempo, siccome avevo voglia di apprendere, di studiare, di fare un lavoro diverso, avevo cominciato a seguire un corso per corrispondenza, per diventare geometra. La montagna insomma mi stava stretta, così dopo un duro scontro con mio padre ho deciso di venire via.
Il cantiere era al rifugio Zoe, mi sono caricato in spalla la valigia e sono arrivato a Sondrio: trentacinque chilometri a piedi, con la valigia in spalle. Arrivato in fondo alla valle, all’ultima curva da cui si vede la cima del Bernina, mi sono detto: <<Qui non verrò mai più a lavorare! Basta, chiuso!>>. E non ci sono più tornato davvero, tranne che a fare il sindacalista. Da Sondrio, tramite degli amici, ho trovato l’aggancio per andare a Milano.

A Milano
Negli anni ’50, il sistema produttivo della provincia di Sondrio era striminzito e la disoccupazione un vero problema. Ciò che allora costituiva una importante fonte di lavoro per tanta gente, erano i grandi cantieri per la costruzione degli impianti idroelettrici dislocati in tutta la provincia. Sotto questo aspetto gli anni ’40, ’50 e ‘60, furono gli anni d’oro per lo sfruttamento delle risorse idriche a scopo lucrativo da parte delle grandi Compagnie: Edison-Volta, Montecatini, Vizzola, Orobia e Aem. Fu una vera e propria colonizzazione del territorio: una sottrazione di risorse, senza che fossero corrisposte significative contropartite alle istituzioni e ai cittadini della provincia.
Prima di andare a Milano, Vanini mi disse: “Vieni su a Sondrio, ti faccio conoscere un personaggio importante che viene da Roma ed è commissario di Sondrio”. Questo personaggio era Luigi Macario. Mi hanno presentato a lui come un “ragazzo sveglio, un buon galoppino”. Sveglio lo ero per forza. Era il ’53, avevo 17 anni e mezzo, ma solo dal punto di vista anagrafico ero un ragazzino. Su in montagna con gli operai e i minatori ho dovuto per forza crescere in fretta. I carpentieri, i minatori, i muratori, in prevalenza erano reduci dalla guerra, dalla prigionia, ed erano gente dura. Bestemmie a tutto spiano e ubriacature: questo era il loro modo di vivere.
Era un ambiente molto crudo, duro, che ti faceva crescere e maturare in fretta. Se per esempio mentre portavo l’acqua in miniera, ad uomini costretti a lavorare in condizioni terribili, per caso si sporcava con della terra erano dolori. Volavano scapaccioni, nel migliore dei casi. Oppure senza battere ciglio mi rovesciavano il secchio dell’acqua ed ero poi costretto a tornare alla sorgente a prenderla.
La vita era dura insomma…
Macario deve averlo capito, a prescindere dai mille elogi che mi hanno fatto davanti a lui. Mi chiese se ero disponibile a continuare la mia attività anche a Milano, ma in modo diverso e più impegnativo. Risposi di sì senza pensarci due volte.
Iniziai la mia attività di militante sindacale a Milano in zona Giambellino, nei cantieri edili in cui lavoravo. Su indicazione di Macario mi ero messo in contatto con un certo Panzeri, segretario di zona della Cisl milanese. Fu lui a spiegarmi che avrei dovuto inserirmi nei cantieri, guardare, ascoltare e dire alla Cisl quali erano le cellule rosse. Ci davamo appuntamento una volta alla settimana, il venerdì sera o il sabato pomeriggio alle sede delle “Edizioni Cinque Lune”, casa editrice finanziata dagli americani. Lì si stabiliva come organizzarsi. Io dovevo fare l’informatore occulto, insomma la spia. In quell’inverno del ’53 tra l’altro stavano rinnovando il contratto degli edili e c’erano in giro i manganellatori del Pci che non andavano molto per il sottile. Andavano in giro con i camion, residuati bellici, e se trovavano operai che non scioperavano erano dolori. Una volta sono arrivati nel mio cantiere e ad un gruista che non voleva scioperare hanno attaccato la corrente alla gru. Per fortuna la cabina aveva il pavimento di legno.
Dal Giambellino mi hanno trasferito in un cantiere in via Forze Armate e poi all’Ortica, dove c’era un vero e proprio covo di comunisti. Nel frattempo a mio padre capitò un guaio: fu travolto da una slavina. In quell’occasione capii che per lui era arrivato il momento di cambiare vita, anche perché cominciava da avere i primi problemi di salute che si rivelarono silicosi, di cui è morto. Così, insistetti perché scendesse dalle montagne e venisse a Milano, a lavorare per il cantiere della Gandini. Non è stato semplice, perché da capo operaio si è trovato a fare il magazziniere. Per un cantiere di città non aveva sufficiente esperienza. Fu comunque un bene perché l’impresa per cui lavorava aveva preso in appalto una parte dei lavori del Cern a Ginevra e un giorno che andai a trovarlo mi propose di andare in Svizzera a lavorare: “Visto che ti piace andare in giro”, mi disse. Io ne parlai con Panzeri proprio il giorno in cui era presente l’americano delle edizioni Cinque Lune. Era un sindacalista, un pezzo grosso. Un contatto importante, perché allora la collaborazione col sindacato Usa era decisiva, per il sostegno economico che poteva arrivare alla Cisl che allora era proprio agli inizi, soffriva un isolamento ancora notevole. Noi eravamo visti alla stregua dei padroni.

All’estero
Tornando alla Svizzera, l’idea mi attirava. Innanzitutto avevo sicuramente bisogno di guadagnare un po’ di soldi. E poi mi incuriosiva il grande cantiere del Cern, di cui si parlava tanto. Allora non si discuteva che del Patto di Roma, dell’Europa unita, di Ispra che nasceva come primo laboratorio di ricerche nucleari. C’erano grandi attese rispetto alle nuove ricerche e questo mi invogliava ad andare. Così decisi e concordai con Panzeri che innanzitutto avrei preso contatti con il sindacato svizzero e poi anche lì avrei cercato di seguire le mosse dei comunisti. Si sapeva infatti che alcuni comunisti si erano trasferiti e da lì manovravano gli emigranti. A Ginevra quindi avrei dovuto continuare per la Cisl lo stesso lavoro iniziato a Milano.
Non fu un’esperienza facile. Sono stato picchiato dalla polizia, arrestato, portato al confine. Nel cantiere però ero abbastanza considerato, tanto che mi hanno anche mandato ad Amburgo a vedere come sperimentavano calcestruzzi speciali per la ricostruzione del porto, completamente distrutto dai bombardamenti della guerra.
Dopo un anno e mezzo rientrai in Italia, per assolvere gli obblighi di leva. Avrei potuto evitarlo, a patto che rimanessi fino a trent’anni in Svizzera. Ne avevo solo ventuno e proprio non mi andava di rimanere bloccato all’estero solo per evitare il militare. Arrivato al distretto, però, scoprii di essere in ritardo e che per la leva avrei dovuto aspettare alcuni mesi. Decisi allora di espatriare di nuovo e andai in Francia, dove cercavano operai, carpentieri, operai esperti nella zona di Sant’Etienne, tra Lione e Tolosa. Una desolazione: per chilometri e chilometri intorno a noi non c’era nulla, solo praterie. Dovevamo aprire un pozzo per una miniera di carbone e bisognava costruire tutto l’impianto. Eravamo due italiani, 3-4 francesi e una cinquantina di algerini. Io non mi trovavo, non era una ambiente facile e ho anche preso la malaria. Dopo un mese mi convinsi a tornare in Italia e aspettare la chiamata. La collaborazione con Panzeri, sotto le direttive di Macario, si concluse con la mia chiamata al servizio militare (novembre 1957) e per tacito accordo, rimase un fatto riservato tra noi. Terminati gli obblighi militari a circa metà del 1959, dopo ben diciotto mesi di istruttore al Car di Verona, decisi di fermarmi in provincia e tornai a prendere contatto con la Cisl provinciale. Fu una delusione.

Il distacco dalla Cisl
La Cisl di Sondrio navigava in acque non buone, non cresceva. Vanini era morto e tante cose erano cambiate. Mi meravigliai per il fatto di dover fare anticamera per parlare col segretario generale, Mario Cardàno, e fui deluso anche dalla distaccata freddezza con cui mi accolse quando dovetti andare in sede per alcuni problemi sorti alla Talea, un’azienda tessile di Regoledo di Cosio, dove facevo l’elettricista. Dopo che gli ebbi esposto i miei problemi, anziché discuterli mi fece la paternale. Mi invitò ad essere meno pretenzioso e più conciliante col padrone, perché era una “brava persona” che dava lavoro a tanta gente, perché era “uno dei nostri”, e così via. Mi disse di ricordarmi che oltre ai diritti avevo anche dei doveri nei confronti dell’azienda per cui lavoravo. Mi irritai al punto che gli stracciai la tessera in faccia.
Quell’esperienza fu per me anche la conferma delle voci provenienti da altre fabbriche della zona sull’inettitudine del segretario provinciale. Decisi di allontanarmi temporaneamente dalla Cisl, anche perché scoprii che a fare del vero sindacato, in quel momento, erano le Acli. In quegli anni era segretario provinciale delle Acli un certo Renzo Dal Cason (divenuto poi imprenditore alimentare), che si mise in competizione politica con Cardano e con la Cisl. Scoprii in seguito che anche Dal Cason aveva frequentato il corso lungo al Centro Studi Cisl di Firenze. Stare con le Acli a fare sindacato era per me una situazione abbastanza anomala, ma per il momento andava bene così, perché la Cisl era allo sbando sul piano organizzativo, prigioniera dell’egemonia democristiana, inefficiente, quindi poco credibile.
Nel ’60 mi sposai e il padrone della fabbrica dove lavorava mia moglie mi offrì un posto di lavoro. Ho accettato subito, per il semplice fatto che avevo giurato a me stesso che se avessi deciso di mettere su famiglia mai avrei voluto ripetere quello che avevo passato io: cresciuto dalla matrigna, a causa della morte prematura di mia madre, con un padre sempre in giro per cantieri che rientrava a casa ogni 15-20 giorni. <<La mia vita non deve essere così>>, mi ero detto. <<Se mi sposo voglio lavorare vicino a casa ed essere presente>>. Così cominciai a lavorare alla Talea, dove mi trovavo bene ma non tolleravo il clima autoritario e di paternalismo. Dal ’49, quando seguivo Vanini, l’impiegato visto come la “longa mano” del padrone nonostante facesse attività sindacale, i tempi erano cambiati. Ed era difficile accettare che il rappresentante sindacale fosse il capo del personale!
Nel ’62-63, comunque, con la crisi del tessile l’azienda cominciò ad avere difficoltà, entrò in sofferenza e mi trovai disoccupato. Un disastro: avevo appena comprato il terreno e mi ero indebitato per costruire casa! Per fortuna, dopo alcuni mesi in un cantiere in Svizzera e dopo aver deciso di cercare lavoro in Italia poiché non volevo dividere la famiglia ma non potevo nemmeno far licenziare mia moglie (troppi debiti per la casa!), verso la metà del ’63 trovai posto alla Brevet Van Berkel di Prata Camportaccio, in Valchiavenna. Lì cominciò l’avventura poi sfociata nella clamorosa vertenza sindacale con annessa occupazione della fabbrica, per difendere 280 posti di lavoro messi a repentaglio da una dirigenza aziendale costituita da una banda di speculatori disonesti che per anni hanno succhiato soldi pubblici. Un marchio mondiale di prestigio che occupava 280 lavoratori, era in mano ai banditi! Il direttore veniva in stabilimento con l’amante, organizzavano festini. E quando alla casa madre, olandese, se ne sono accorti, hanno deciso di chiudere per non compromettere il marchio. Per cercare di salvare la fabbrica e convincere gli olandesi ad andare avanti abbiamo occupato l’azienda: per quattordici giorni mi trasferii là giorno e notte, perché dovevamo curare i macchinari. Alla fine, però, dopo aver tenuto il presidio fuori dalla fabbrica per un’altra settimana, abbiamo dovuto arrenderci e ognuno ha dovuto arrangiarsi come meglio ha potuto. Fu una fortuna trovare, tramite un ex collega, un posto da elettricista in un’azienda chimico-mineraria di Novate, vicino a Chiavenna.
La vertenza Berkel fu per me una grande esperienza, perché fino ad allora coinvolgere i lavoratori nelle iniziative sindacali era stato sempre molto difficile. Chi non aveva un fratello o un amico che frequentavano i sindacati difficilmente si avvicinava. Si basava tutto sul contatto personale. Dovevi esporti e spesso prendevi “legnate” da parte dei capi, dalla direzione. I lavoratori, poi, non erano subito pronti ad esprimere la loro solidarietà. Avevano troppa paura di perdere il posto di lavoro. Non potevano certo permetterselo. Negli anni Cinquanta, del resto, era davvero un “far west”: diritti e tutele erano miraggi. Lavoravi dal lunedì mattina al sabato sera, riposavi solo la domenica. Quanto ai dodici giorni di ferie che ti spettavano, previsti addirittura dalla Costituzione, non si doveva insistere molto per averli. Perché trovavano il modo di mandarti via in quanto “rompiscatole”. Se poi addirittura decidevi di non farle era meglio, si continuava a produrre. E tanti non le facevano, perché così avevano la paga doppia e facevano anche bella figura con l’azienda. E i lavoratori, prima di reagire, subivano di tutto. Non era come a Milano, dove si facevano scioperi, picchetti, e addirittura chi non partecipava rischiava di prenderle. In valle era tutto un “brontolame, testa china e tutti dentro a lavorare”.

Sindacalista
Anche se conclusa con la chiusura della fabbrica nell’inverno 1965, con il successivo fallimento della Società di gestione e con la condanna della dirigenza per bancarotta fraudolenta, la vertenza Berkel fu condotta con sapiente regia da Achille Pomini, ormai segretario generale della Cisl della provincia di Sondrio e anche da Giuseppe Voltolini della Cgil. Segnò l’avvio di una nuova stagione strategica per tutto il sindacato e di riscatto per la classe lavoratrice della provincia. La vicenda della Berkel mise in luce anche me, tanto che Pomini mi chiese se avessi mai pensato di fare il sindacalista a tempo pieno. “Io ho sempre pensato di fare quello che la Cisl mi ha detto di fare. Non so se a tempo pieno o no”, ho risposto. L’idea mi ispirava, sia perché il segretario mi sembrava una persona in gamba, sia perché in fondo non mi andava molto di fare l’elettricista in un’azienda mineraria. Ne parlai con mia moglie, spiegandole che la proposta mi allettava, ma la paga base sarebbe stata più bassa di 20mila lire al mese. Lei mi disse: “Io non capisco nulla di questioni economiche, scegli tu che va bene”. Nel 1966 sono entrato alla Cisl di Sondrio a tempo pieno.
C’era tutto da costruire, ma ci siamo detti: <<Se lavoriamo in sintonia possiamo fare qualcosa di buono, può essere una grande avventura>>. E così fu. Era il ’66, avevamo trent’anni tutti e due e tante speranze. Lui aveva più esperienza di me, aveva frequentato il Centro studi di Firenze e almeno in materia di contrattazione, di accordi interconfederali, era più aggiornato. Io avevo molta passione, molta verve, ma esperienza vera e propria al di là delle mie schermaglie e delle mie spiate non ne avevo. Solo tanta voglia di lavorare.
Nelle prime battaglie in valle puntammo a ridurre l’orario di lavoro, per avere almeno il sabato pomeriggio libero. Poi avviammo trattative sui premi di produzione, con padroni davvero gretti e ignoranti. Di quelli che quando andavamo davanti alla fabbrica a distribuire i volantini venivano fuori a dirci: <<Fino qua sono padrone io e tu non mettere dentro punta del piede perché te la taglio via con la zappa>>. Anche i lavoratori, comunque, non erano preparati. Se non erano politicizzati, e se lo erano non è detto che fosse meglio, diffidavano dei sindacati.
Avevamo tutto da costruire, soprattutto insegnare ai democristiani e a tanta brava gente che scioperare contro i “padroni” non era peccato, anzi. Non fu facile, perché avevamo contro un po’ tutti, anche in casa “nostra”: dovevamo scontrarci coi preti, coi parlamentari cattolici, con la gente che si fidava più della chiesa che di noi. Quando occupammo il Trivio di Fuentes per avere la statale 36 e andammo fuori dalla chiesa di Delebio, per distribuire i volantini della manifestazione, il prete addirittura chiamò i carabinieri, per cacciarci via. La maggior parte dei lavoratori, del resto, erano democristiani e ascoltavano i preti, più che i sindacalisti.
Gli estremismi non mi sono mai piaciuti, né da una parte né da all’altra. Ho lottato contro i comunisti a Milano e a Ginevra. Ho lasciato la Svizzera perché perseguitato dalla cellula comunista, mentre in Valtellina il mio vero nemico è stata la Dc. E non è stata meno dura, anche per la mia famiglia. Un giorno, tornato a casa, trovai mia moglie che piangeva a causa delle continue pressioni delle sue colleghe perché io smettessi di fare il sindacalista. Persino dal titolare si era sentita dire che la sua presenza in azienda era incompatibile con il mio lavoro. E che lui, solo per rispetto di suo fratello prete, non avrebbe preso provvedimenti. Questo era il clima in quegli anni e ho un grande rispetto di mia moglie, per la forza con cui ha sopportato tutto questo. Più di una volta si è sentita dire da qualche amica: <<Meglio che non ci salutiamo più, perché avere rapporti di amicizia con te ci fa perdere altre amiche>>. E’ dura, per una donna di paese, sentirsi dire queste cose. I figli per fortuna non hanno avuto problemi, forse perché appartenevano ad un’altra generazione. Anzi, forse loro sono stati un po’ favoriti dal fatto che io conoscevo molte persone.
Il congresso del’65, che vide la vittoria della “linea Pomini” contro quella conservatrice capeggiata dal Cardàno e soci, segnò una svolta radicale. Finalmente ci liberammo dell’etichetta di “sindacato democristiano”. Emblematico di questo periodo è quanto accadde in occasione di un convegno in Provincia dell’autunno del 1965. Pomini, per celebrare degnamente il suo successo e per dare slancio al nuovo gruppo dirigente eletto dal V congresso, invitò a Sondrio il segretario generale della Cisl Bruno Storti, a quel tempo presidente in carica anche della Cisl internazionale. Si chiese per l’occasione di poter utilizzare il salone della Provincia, allora presieduta dal democristiano Angelo Schena, che di primo acchito rifiutò. In seguito, grazie alle pressioni del vicepresidente Giorgio Scaramellini che lo mise al corrente del rischio che avrebbe corso e delle conseguenze negative che avrebbe incontrato sul piano politico, vietando l’uso del salone al presidente della Cisl internazionale, Schena modificò la sua posizione e concesse (per la prima volta nella storia) l’uso del salone ad una organizzazione sindacale. Storti, in quell’occasione, denunciò le pressioni politiche che costantemente riceveva dal senatore Athos Valsecchi (boss della Dc provinciale), per far trasferire il neoeletto segretario Achille Pomini. Storti fu lapidario: <<L’unico potere in grado di rimuovere Pomini dalla Cisl di Sondrio é quello dei lavoratori iscritti>>. Quella dichiarazione, accolta da un fragoroso applauso, costituì una formidabile “copertura politica” per la nuova dirigenza e una grande lezione di democrazia per tutti i militanti presenti in sala. Qualcuno ci accusava impropriamente che con la nostra azione sindacale pretendevamo di volerci sostituire al potere politico. Non era così. La Cisl non voleva sostituirsi a nessuno; voleva fare bene solo il suo dovere di libero sindacato dei lavoratori.

Le lotte in valle
Con la Cgil, all’epoca, avevo pochi rapporti. Era stretta a doppio filo con il Pci e questo ci allontanava. Ci scontravamo perché come erano gretti la maggior parte dei preti, allo stesso modo erano estremisti i comunisti.
Dopo il VI congresso del 1969, apertosi il dialogo con Cgil e Uil e schiarito anche il panorama dei potenziali alleati politici e istituzionali, avviammo un’intensa fase rivendicativa. La prima vertenza importante di quel periodo riguardò i collegamenti stradali: si doveva rompere l’isolamento con il resto della Lombardia e dell’Italia e chiedemmo un nuovo tracciato della strada statale 36. La strada che da Lecco portava a Sondrio era quella fatta costruire da Massimiliano d’Austria, l’altra che costeggiava il lago fino a Como dalla regina Teodolinda! Una situazione allucinante, tanto che quando con la colossale manifestazione al Trivio di Fuentes, dove la strada si biforca con una che arriva a Bormio e va allo Stelvio e l’altra che va a Chiavenna e prosegue per lo Spluga, abbiamo bloccato tutto, anche imprenditori e artigiani furono dalla nostra parte. Assenti le associazioni imprenditoriali, furono invece presenti i partiti Psi, Pci, Psdi, Pri con i loro parlamentari. Per la Dc alcuni sindaci e l’amministrazione provinciale, rappresentata da alcuni assessori e dal suo presidente, Giorgio Scaramellini.
Il nuovo tracciato della SS. 36, dopo lungaggini burocratiche e interferenze politiche che ne ritardarono la realizzazione, fu ultimato negli anni ’80. All’inaugurazione, che avvenne solo nel 1984, era presente, con tutti i maggiorenti, il ministro Nicolazzi già in odore di incriminazione per corruzione. I sindacati, che per primi sollevarono il problema, furono invece assenti.
Quei primi successi catturarono l’attenzione dell’opinione pubblica. Cosicchè, quando nel 1975 scoppiò la crisi del Cotonificio F. Fossati di Sondrio (1.800 addetti) e contemporaneamente della Spalding-Persenico di Gordona (500 addetti), non fu difficile mobilitare la gente di Valtellina e Valchiavenna a sostegno delle due grosse vertenze. Le crisi del 1975 segnarono una svolta nelle relazioni sindacali. Le istituzioni seguirono abbastanza le nostre indicazioni e si impegnarono veramente a sostegno delle iniziative da noi proposte: si trattava, del resto, di salvare migliaia di posti di lavoro. Pomini andò via da Sondrio conclusa la vertenza Fossati, nel 1976, chiamato dalla confederazione a fare il commissario di Bolzano. Rimasi io a seguire la chiusura della vertenza: a gestire il passaggio dal fallimento alla nuova gestione Eni. Ho esercitato il ruolo di segretario di unione dalla metà del ’75 a quando fui eletto segretario generale nel ’76. Nel ’77 il congresso il congresso mi ha confermato e sono andato avanti fino all’ ‘83, quando ho dovuto dimettermi per problemi di salute. Comunque sono sempre rimasto lì, ho lavorato con gli altri fino all’acquisto della nuova sede.
Dopo la grande battaglia per la strada statale 36, cominciammo a ragionare sulla piattaforma rivendicativa per lo sviluppo, per creare posti di lavoro e ottenere dalla Regione una politica di solidarietà nei confronti della Valtellina, oltre che impegni sociali dalle imprese idroelettriche come Enel, Aem e Falck, e l’Eni che dal Trivio al Passo Spluga occupava il territorio con l’oleodotto.

Lo sviluppo del territorio
Partimmo con un documento difficile da digerire, ma poco impegnativo dal punto di vista operativo, tanto che la Cgil lo approvò senza problemi. Andati via Pomini per la Cisl e Contini per la Cgil, siamo rimasti io e Leoncelli, per la Cgil, che per fortuna capì che l’unico modo di ottenere qualcosa di sostanzioso per la gente era aggrapparsi alla piattaforma. La vertenza fu inaugurata con uno sciopero generale e una grande manifestazione tenuta a Sondrio nel luglio del 1978. Il rapporto con le grandi aziende si dimostrò subito di estrema difficoltà, mentre ben diverso fu quello con il governo regionale tanto che solo su questo fronte riuscimmo a raggiungere qualche risultato Da Aem ottenemmo solo il finanziamento della scuola alberghiera di Sondalo (l’ex sanatorio). Di tutt’altro tono, invece, i rapporti con la Regione: al termine di una estenuante trattativa accettò di finanziare i progetto speciale Valtellina (legge n°61 dell’81), con ben 20 miliardi di lire. Una somma notevole, per il 1980!
Quel primo sostanzioso finanziamento creò le condizioni per stipulare un accordo in provincia sul suo utilizzo, tra Comitato del Piv (Piano investimenti per la Valtellina), Cgil, Cisl e Uil. L’intesa prevedeva di costituire: un fondo di rotazione finalizzato a sostenere nuovi investimenti per le aziende industriali; un consorzio Fidi per le piccole aziende; il marchio Valtellina a tutela dei prodotti locali; il finanziamento per l’acquisto e la infrastrutturazione delle aree industriali attrezzate di Gordona, Morbegno e Tirano.
La Cisl era impegnata a far sì che il sindacato partecipasse attivamente alla gestione della legge e dei fondi assegnati, ma la cosa non fu possibile a causa del boicottaggio da parte del Pci e della Cgil. Il fatto di avere estromesso il sindacato, tutto sommato non dispiacque nemmeno alla Dc.
Avevamo però molte aziende che chiedevano fondi e dovevamo finanziare lo sviluppo del territorio. La Cgil si fidava di noi, così con l’aiuto di Paolo Nardini, allora segretario della Cisl Lombardia, riuscimmo ad agganciare Angelo Caloia, già molto influente nel mondo bancario italiano. Peccato però che del “progetto finanziaria” non se ne fece nulla, poiché le banche locali non vollero esporsi. E’ nato un fondo a rotazione, nell’ambito del Piano investimenti per la Valtellina, poi a livello regionale è nato Confidi. Tutto procedeva fino alla grande frana del 1987, che scombussolò tutto. Un disastro annunciato dalla piccola frana di Tresenda che il 13 maggio del 1983 portò via alcune case e causò diciassette vittime. In quell’occasione cominciai a pensare che in questa provincia fragile per la stabilità geologica si potesse far nascere un centro di controllo sulle frane. All’epoca della frana di Tresenda ero membro della giunta della Camera di commercio e il presidente, Renzo Magaretti, capì l’importanza di una proposta per finanziare qualcosa di più stabile. Così interpellai l’Ismes di Bergamo e presentai la proposta di allargare il controllo anche alle parti sensibili del nostro territorio, così soggetto a frane. Eravamo appena riusciti a far nascere l’osservatorio, gestito dalla Corival (società cooperativa di produzione di servizi di monitoraggio del territorio, affiliata al Cenasca Cisl, costituita il 12 aprile del 1986), e a farlo partire quando il 18 luglio 1987 una grande frana si è staccata nella Val Pola e ha seppellito il paese di S. Antonio Morignone, causando decine di vittime. La presenza dell’Ismes, se non altro, è servita per aiutare a tenere sotto controllo l’assetto della frana di Spriana e Valchiavenna. E questo, bisogna dirlo, è avvenuto per merito della Cisl di Sondrio.