I protagonisti: Cornelio Fontana

Milano, 11.9.2006

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006.

Passione e impegno sociale a parte, il mio ingresso nel sindacato a tempo pieno ha origini tutt’altro che romantiche: fu soprattutto per non essere costretto a lavorare a Milano e fare il pendolare! Sono nato il 20 gennaio 1937 a Olgiate Comasco, dove ho sempre abitato. Mio papà faceva l’artigiano: era calzolaio. Era responsabile e presidente delle Acli di Olgiate Comasco. E’ stato in consiglio comunale, forse anche in giunta. Naturalmente era della Democrazia Cristiana: per mio padre non c’erano dubbi.

La mia mamma naturale è morta che avevo 2 anni. Mio papà prese una seconda moglie che lavorava in tessitura, come un po’ tutti in questa zona.
Ho altri due fratelli. Uno lavorava alle dipendenze di una stamperia a Como (Terragni) e poi di una ditta di valigeria a Olgiate Comasco. L’altro ha sempre fatto il rappresentante per la stessa ditta. Ambedue ora sono in pensione.
Ho frequentato le elementari e la terza media.
Ho cominciato a lavorare come meccanico alla Lario Curioni, una fabbrica di bilance alla periferia di Como (Camerlata). Io ero nella meccanica generale. Preparavamo i singoli pezzi che andavano nella bilancia. Sono rimasto lì dai 14 anni fino a 21/22 anni, il periodo immediatamente dopo il servizio militare. Era la metà degli anni Cinquanta.
Ero iscritto e militavo nelle Acli.
In fabbrica si lavorava abbastanza bene. La Curioni non era un’azienda che reprimeva le attività sindacali sul piano individuale e personale.
Il sindacato c’era, ma la stragrande maggioranza dei lavoratori (il 99%) erano iscritti alla Cgil. La Cisl era pochissima cosa. Appena entrato in fabbrica mi sono iscritto alla Fim Cisl. C’erano altri iscritti Fim, ma erano cani sciolti. Possibilmente non lo facevano sapere, erano degli aficionados: su 120 dipendenti eravamo 3 o 4 della Fim. Con il tempo e l’impegno siamo arrivati a 30 o 40 iscritti. In ogni caso non c’era un grande contrasto con la Fiom.
Come si è saputo che ero delle Acli, il titolare mi ha preso in simpatia.
Qualche anno dopo sono stato il primo della Fim ad entrare in commissione interna. E cominciai ad essere mal visto, perché avevo fatto il rompischemi. C’era qualcosa di diverso dal solito: al di là del fatto che la Fiom dentro l’azienda conviveva con il padrone e la direzione, il mio arrivo non era visto di buon occhio perché era insolito. I rappresentanti Fiom in commissione avevano tra i 40 e i 50 anni. Io, avendo 19/20 anni (cioè subito prima e subito dopo il militare), portavo una vivacità diversa.
In commissione interna si facevano gli accordi basati più sull’ambito economico che altro. Erano dei premi di produzione, eravamo all’Abc del sindacalismo. C’era il “p su h”, che era costituito dal prodotto diviso le ore lavorate.
Questi schemi erano un po’ il pallino della Fim. Infatti c’erano anche: prodotto diviso consumo di energia; prodotto diviso numero di addetti.
La nostra era un’impostazione molto avanzata che contrastava un po’ con la Fiom. Loro erano più portati per gli accordi a carattere generale, standard. Si monetizzava il tutto.
La Fim, invece, cercava di monetizzare con uno schema che faceva il rapporto tra quantità reali e misurabili, su delle cose che c’erano realmente.
Devo dire comunque che tutta questa esperienza del “p su h”, è stata da me sperimentata, soprattutto quando ero alla Fim come segretario, per cui qualche anno dopo, piuttosto che nel periodo in fabbrica, dove tutto era molto più “artigianale”.

Alla Cisl
Concluso il servizio militare l’allora vicepresidente delle Acli, che era anche un segretario della Cisl, mi ha chiesto di seguire la zona di Olgiate Comasco come delegato di zona. Era l’avvocato Paolo Sala, che poi divenne segretario regionale della Cisl lombarda.
L’area di Olgiate Comasco era prevalentemente tessile, anche se c’erano molte aziende meccaniche. C’erano la Falck a Dongo, la Ticosa a Como, nel tessile. C’era la Ranco, che oggi si chiama Sisme ed è la più grossa azienda privata di Como. Le grandi aziende erano queste. Il resto era media e piccola industria: Como ha un’occupazione molto variegata.
Essere il delegato di zona significava fare tutto. E devo dire che mi pagavano sempre regolarmente e con i contributi.
Pur essendo stati i miei familiari a trasmettermi l’idea di un impegno sul piano del sociale, il più largo possibile, proprio loro erano contrari all’assunzione in Cisl.
Ricordo un particolare. Qualche giorno prima di entrare alla Cisl, ero andato a Milano a fare un “capolavoro” (si usava, allora, nelle officine per vedere la professionalità) per essere assunto in un’azienda, la Ventura che si sarebbe spostata a Olgiate Comasco a fare gli stampi per i lamierini per la Sisme-Ranco. Si trattava di motorini dei frigoriferi. Dopo 15 giorni avrei dovuto passare nella nuova azienda, dando le dimissioni dalla Curioni. Perciò contemporaneamente mi trovai ad avere due possibilità di lavoro. L’andare a Milano sarebbe stata un’avventura pesante, tra treni e lunghi viaggi. Allora ho preferito la Cisl. Certo, in ogni caso, al centro di questa preferenza c’erano ragioni legate alla passione, se non ideologiche.
La famiglia era tutta contraria. Ma dato che sono in genere un bastian contrario, la loro opposizione era per me un incentivo a scegliere. E così feci. La scelta non è stata condivisa all’inizio, ma tutto è poi finito lì, senza strascichi.
Dopo due/tre anni di impegno come delegato di zona sono stato inviato al famoso ”corso lungo” per sindacalisti al Centro studi Cisl di Firenze. C’era anche Antonio Gilardi di Lecco. Era il 1964. Prima di entrare bisognava passare una selezione. Ci inviavano da Firenze domande e compiti da sviluppare per iscritto. Noi le inviavamo al professor Guido Baglioni che correggeva e mandava il suo giudizio. I candidati erano da tutta Italia: eravamo un migliaio circa. C’erano anche gli stranieri al corso, in particolare tre giovani somali. Uno di questi poi sarebbe diventato ministro del Lavoro in Somalia.
La prima selezione ci ha ridotto a 100 candidati. Dopo una due giorni a Firenze fecero un’ulteriore cernita. Nella commissione d’esame c’era il mitico Mario Romani insieme a Sergio Zaninelli, Vincenzo Saba e altri. Da 100 scendemmo a 33. E iniziò il corso. Dopo il primo mese altri sei o sette sono stati mandati a casa con le pive nel sacco. La durata totale è stata di sei mesi.
La selezione avveniva, senza dubbio, sul piano della preparazione, ma anche sul piano politico. In ogni caso, se uno diceva o faceva capire che era un democristiano fedele non aveva problemi… Ricordo che, anni dopo, quando ero segretario dell’Unione a Como, anche noi avevamo mandato un corsista. Disse che era un’attivista e iscritto al Psiup e venne mandato a casa subito da Franco Marini. Per dire il discorso dell’autonomia, allora…
In quel periodo non chiedevano più di spostarsi a lavorare per la Cisl in un territorio diverso da quello di provenienza, a differenza dei primi anni. Era già qualche tempo che succedeva così. Del nostro corso nessuno è stato spedito in territori nuovi. Forse la gente non si trasferiva più. O forse era una scelta diversa.

Alla Fim
Quando ritornai dal corso, nella primavera del 1965, eravamo in periodo congressuale. Pur trovandomi a Firenze, quindi, nessuno sapeva chi fossi e pochi mi conoscevano, venni eletto in segreteria al congresso della Fim Cisl di Como, utilmente sponsorizzato dall’avvocato Sala, che era il deus ex-machina della Cisl comasca, già allora segretario generale.
Rientrato da Firenze, dunque, andai alla Fim a seguire i metalmeccanici. C’erano 2.400 iscritti.
Sulla carta eravamo in due a seguire la Fim ma, in realtà, ero da solo. Sono sostanzialmente subentrato al segretario della Fim che era caduto in forte depressione: era veramente malato.Figurava lui, ma non c’era mai. Ero io il boia e l’impiccato: si doveva far tutto. Solo dopo qualche anno mi hanno dato anche il secondo operatore, poi il terzo. Comunque presto siamo saliti a quattromila iscritti.
Le assemblee si facevano anche allora. Ma negli oratori, nelle case del popolo, nelle osterie, convocate alla sera dopo le 20. Quelle precongressuali erano partecipate. Ricordo che quelli della Falck venivano convocati all’oratorio di Dongo.
Fare il sindacalista non era un mestiere facile. Era abbastanza stressante. I picchetti fuori dalle fabbriche spesso duravano tutto il giorno. Quando andavo a Dongo per la Falck, iniziavano alle 5 di mattino. Da Olgiate Comasco a Dongo, del resto, sono 80 km di strada del lago. Dovevo partire alle 2.30 del mattino per essere presente in tempo al picchetto. È vero che gli attivisti in fabbrica davano una mano, ma se non c’era qualcuno del centro era tutto più difficile. Oggi, dopo tanti anni, non accade più. All’Unione di Como l’avvocato Sala voleva che alla mattina si firmasse il registro quando si entrava al lavoro. Io ero uno dei meno disciplinati. Una mattina arrivo alle 9.30 e trovo lui sulle scale: «Ho capito perché tu non fai le cose giuste – mi disse –. Guarda qui che orario che tiri». «Avvocato – risposi io – sono venuto via alla 1.30 dalla Falck e per arrivare a casa mia ci è voluta un’altra ora. Come facevo ad essere qui alle 7?». La sua risposta: «Basta, ti faccio fare il richiamo». E faceva il richiamo scritto. Dopo quei periodi, comunque, il registro per gli operatori è stato soppresso. Certo se uno è un lazzarone, va buttato fuori. Ma quelli erano eccessi.
Il lavoro era impegnativo. Non è che si facesse tanto lavoro di ufficio. Lì era il posto per riassettare un po’ le idee. Si era sempre un giro: la contrattazione aziendale, gli scioperi da preparare, i picchetti, le assemblee.
Ho sempre considerato importante il volantinaggio. Forse sono un nostalgico dei tempi che furono, ma era importante. Oggi i volantini non sono più distribuiti. Non so come sia possibile. L’opinione pubblica non è a conoscenza di ciò che succede in fabbrica. Le assemblee hanno seppellito il volantino. Come in tutte le cose, del resto, ci sono i pro e i contro. Prima il rapporto con i lavoratori passava dal volantino. Ci si poteva incontrare e parlare con la gente, dialogare. Quando poi si andava con il megafono in fabbrica, era diverso. Finiti tutti i discorsi, la gente riscappava in reparto. Interpretando così l’assemblea, è venuto meno anche questo tipo di rapporto particolare. Certamente, con l’assemblea si parla a tutti i lavoratori, anziché ai sette o otto più fidati che si trovavano fuori dal cancello, mentre distribuivi i volantini. Solo che, terminata l’assemblea, si pensava che tutti fossero stati indottrinati. Il che non era vero.
Ho passato in Fim tutta la seconda metà degli anni Sessanta. Fino al famoso contratto del 1969.
Mantenere l’organizzazione non era facile, da un punto di vista economico. Tutti gli anni si partiva con il tesseramento da quota zero. Era un bello stress.
Solamente con l’arrivo della delega è stato possibile darsi una struttura e una stabilità maggiore. L’autonomia finanziaria ed economica delle categorie prima non esisteva, tranne nelle realtà più grosse: a Como i tessili, a Lecco i meccanici, per esempio. Una volta era tutto incorporato nell’Unione. L’Unione era la mamma con la mammella.
Ai tempi in cui ero nella Fim, feci parte del consiglio generale nazionale. Quando dovevo andare a Roma per le riunioni, tre o quattro volte l’anno, andavo dal segretario dell’Unione a chiedere il permesso perché non avevamo i soldi. Così potevo comprare il biglietto del treno e pagarmi l’albergo.
Ad un certo punto, nei primi tempi miei alla Fim, si introdusse l’assegno sindacale. E tutti siamo schizzati in alto, come numero di iscritti. Il meccanismo era complicato, non era un termometro attendibile del tesseramento. Anziché raccogliere le quote con l’attivista, c’era un assegno che il datore di lavoro era tenuto a metter in busta paga ogni quattro mesi. Poi si mettevano fuori dalla fabbrica le cassette Fim, Fiom, dove i lavoratori potevano imbucarlo, dopo averlo firmato. Noi andavamo in fabbrica a ritirarli.
Era una sceneggiata. C’era chi versava il primo mese, chi il secondo. Ecco perché le iscrizioni sono aumentate, ma gli introiti sono rimasti tali o addirittura diminuiti. Alla Sisme-Ranco c’era il 90% di donne e ragazzini. Quell’assegno in maggioranza finiva nei negozi che vendevano dischi per comprare canzonette. Anziché versarlo molti lavoratori andavano a comprare il disco di Baglioni o di Celentano. Era allucinante.
Nelle fabbriche anti-sindacali veniva il padrone a vedere il momento in cui si aprivano le cassette. E quando non trovavamo l’assegno né dell’una, né dell’altra organizzazione, era lì che gongolava.
Ogni mese bisognava passare con il cartellone «Versa alla Fim Cisl». Poi passati i giorni in cui veniva distribuita la busta paga, si tornava a ritirarli perché, altrimenti, non c’erano i soldi per stamparli la volta successiva. Con la delega tutto è cambiato.

L’unità sindacale
Quando ero in fabbrica qualcosa di simile all’unità d’azione c’era, ma non per quanto riguarda le due federazioni Fim e Fiom a livello provinciale.
Si è cominciato pian piano.
All’inizio quando si andava a distribuire i volantini l’operatore della Fiom portava solo i volantini della Fiom. Ugualmente quello della Fim distribuiva solo il volantino Fim. Anche il colore del volantino era importante. L’unità d’azione era scarsa, ma erano i primi passi. Con l’andar del tempo abbiamo cominciato a non sovrapporci più nella distribuzione, ma ci si divideva i compiti, si risparmiava e il lavoro rendeva di più.
Dopo il mio arrivo alla Fim hanno cambiato il segretario della Fiom. Era un trinariciuto, un comunista veramente fatto con lo stampino. Prima si tenevano solo dei rapporti personali per il minimo indispensabile. Con l’arrivo di un nuovo segretario da Sesto San Giovanni, uno che aveva fatto il funzionario Fiom anche a Roma, i rapporti migliorarono. L’unità d’azione partì e più in là con il tempo diventò una cosa molto consistente, molto concreta, molto vissuta.
Tranne qualche vertenza aziendale con due posizioni diverse, d’altra parte è un fatto fisiologico, la situazione era positiva. Poi con gli anni, anche l’impostazione nazionale sarebbe venuta dietro su questa linea.
Noi, subito dopo l’esperienza di Lecco, abbiamo fatto la tessera metalmeccanica unitaria. E per primi abbiamo aperto la sede unitaria Fim e Fiom, con grossi scandali a Como perché andavamo insieme alla Cgil.
Come a Lecco l’unità è stata molto forte. Anche noi abbiamo convocato il congresso di scioglimento della Fim. La Fiom no. Tutti qui a Como nella Cisl ci dipingevano come dei matti. Con il senno di poi, forse, avevano ragione loro. Anche se poi arrivammo come Fim e Fiom ad avere appunto una sede unitaria, tessere unitarie, bilanci unitari. Tutta la battaglia del contratto del ‘69 è stata unitaria.
La Uil a Como non c’è mai stata, è stata inventata dopo. In realtà, c’era un accordo con i socialdemocratici per non impiantare la Uil a Como. Tanto che un socialdemocratico era nella segreteria dell’Unione di Como per garantire questo accordo.
Sull’unità d’azione avevamo forti contrasti con la segreteria dell’Unione locale. Tanto che l’avvocato Sala una volta mi mandò sotto i probiviri dell’Unione perché avevamo fatto un volantino per il 25 aprile e 1 maggio insieme alla Fiom.
Alla Fim nazionale c’era Pierre Carniti come segretario. Si incontravano a Roma negli esecutivi (Sala in quel periodo era nell’esecutivo nazionale). Ero stato dipinto come il “Giuda Iscariota”, non so. Allora partirono le lettere da Roma. E io risposi dicendo come Sala a Roma fosse unitario, ma un po’ meno a Como. Insomma, c’erano attriti notevoli.
La Fiom aveva meno problemi con la Camera del lavoro. Certo non erano entusiasti, ma, secondo me, erano più tolleranti. In Cisl i primi tempi erano difficili. Però siamo andati avanti.
Altrettanto hanno continuato i tessili: anche loro hanno fatto una sede distinta dalle rispettive confederazioni. Una maggiore unità c’è stata anche per gli edili e il settore legno, anche se non fino alla sede, che è venuta più avanti.

Grandi vertenze
Molti sono gli episodi significativi di quel mio periodo alla Fim. Si faceva contrattazione un po’ dappertutto.
Ricordo che in un grande stabilimento della Ranco a Lomazzo abbiamo aperto una grossa vertenza sui cottimi. Erano 400 dipendenti. Avevamo constatato che lì di fatto lavoravano a cottimo. Ma, in sostanza, non erano retribuiti con il cottimo. Abbiamo lavorato molto per ottenere che fosse loro riconosciuto il giusto salario.
Ci sono state anche le grandi vertenze sui premi di produzione. Erano abbastanza diffuse, anche nelle fabbrichette di 20, 30, 40 persone. «Ma cosa devo dare? Cosa è questa roba? – ci diceva il padrone –. Ditemi cosa volete e, se posso, ve lo do». Erano padroncini con l’idea del paternalismo nel sangue: non volevano star lì a diventar matti con le formule dei premi di produttività.
A molti di loro l’assemblea in fabbrica dava fastidio. A volte veniva il dirigente o il padrone a sentire. Noi dicevamo: «Lei non può star qui!». E lui rispondeva: «Qui è casa mia. Com’è che non posso stare qui?! E’ lei che è fuori posto!».
Un’altra grande azienda era la Zocca, una delle poche di Como, anche se adesso è chiusa. Producevano macchine utensili. Il padrone era un paternalista: per lui fare contrattazione era un’offesa personale. Mi diceva che alla fine del regime fascista aveva difeso le fabbriche, che era un figlio del sindacato. Era un emiliano, forse era stato il direttore della Maserati.
Ricordo che allora c’erano ancora gli assegni sindacali. Avevamo chiuso una vertenza sul premio di produzione dopo un mese e mezzo. Si erano fatti gli scioperi, ma tutto era finito. Eravamo in giro con la macchina a mettere i manifesti del “Versa l’assegno alla Fim Cisl”, quando arriviamo sul rettilineo della statale Milano-Como. La strada era bloccata: «Non saranno quelli della Zocca? Abbiamo fatto l’accordo da poco». Erano proprio loro. Era Pasqua e scadeva la rata del premio di produzione. Il padrone aveva detto: «Io non vi do i soldi». Abbiamo organizzato uno sciopero che è durato tutta la settimana santa.
Venne persino il questore in fabbrica a dirimere la vertenza. Il sabato santo eravamo lì: io e quello della Fiom fuori, il padrone dentro. Arrivò il questore con la macchina della polizia. Prima andò a parlare con il padrone. Poi chiamò noi e ci chiese la nostra versione. Ma il padrone disse che raccontavamo bugie. Allora ci ha portò in fabbrica e fece aprire all’impiegata un cassetto dove c’erano tutte le buste paga, già pronte, con la rata del premio di produzione. Il questore disse: «Ma allora perché tutto ciò?». «Si immagini se noi scioperiamo una settimana da mattina a notte, se il padrone ci diceva subito una cosa del genere – rispondemmo noi –. Questo qui ha fatto preparare le buste ieri sera per prenderci per il sedere». Fu una vicenda surreale.
Invece, alla ferriera di Orsenigo, con l’accordo degli operai, non si facevano le ferie. Così per farli stare in ferie abbiamo fatto gli scioperi d’estate.
C’era un rapporto molto stretto con l’Unione industriali di Como. A quel tempo il presidente era un mio amico, che possedeva una fabbrica fuori da casa mia. Eravamo cresciuti e divenuti ragazzi insieme. Era molto disponibile. Nel corso degli anni avvennero anche alcuni episodi spiacevoli, ma tutto sommato le cose andavano bene.
Una volta abbiamo buttato giù tutte le vetrate della loro sede. Era uno degli scioperi per il contratto del 1969. La polizia suonava la carica, ma non caricava nessuno. Partì un bastone, che stavamo usando per tenere i cartelli dell’«oggi sciopero», e finì sul cristallo: sono venuti giù 10 metri di vetrata. C’ero anch’io quel giorno. Il giorno dopo mi telefonò, alterato, l’avvocato Sala, che era a Roma per l’esecutivo Cisl confederale: «Ho letto il Messaggero in prima pagina che avete devastato l’Unione industriali di Como. Cosa avete fatto?». «Oh avvocato – dissi – è partito un bastone ed è venuta giù la vetrata…».

Il passaggio all’Unione
Nel 1973 sono entrato nella segreteria dell’Unione. Dopo un mandato sono diventato segretario generale nel Congresso del 1977. E sono rimasto fino al 1985, qualche mese prima della scadenza naturale del secondo mandato.
All’Unione cambiò la prospettiva e direi che non è stato esaltante. In categoria c’era l’attività dinamica quotidiana, magari senza organicità e filo logico, perché bisognava prendere quel che veniva.
All’Unione non era così. Il mestiere del segretario generale non era chiaro. A posteriori posso dire che doveva avere un ruolo di immagine, di coordinatore. Se anziché interferire (come sarebbe tentato), tiene un ruolo di questo genere è meglio. È un ruolo preso un po’ più all’esterno, piuttosto che all’interno dell’organizzazione. Però tutti quelli che lo fanno, tentano di fare quello che facevano prima in categoria: il sindacalista, il loro vero mestiere. Invece, è un po’ diverso.
A essere sincero non ho mai digerito il rapporto con le categorie del pubblico impiego: i postali quelli dell’Inam, dell’Inps. Mi sono sempre ridotto a uomo di parte: non li potevo soffrire. Gli ospedalieri, gli statali…forse i comunali un po’ di più. Però bisognava fare anche quella parte di lavoro. In ogni caso svolgere un compito senza verve, senza coscienza, non è il massimo. La si vive male, se è da fare per ragioni d’ufficio.
I primi tempi all’Unione, la mia vecchia categoria di origine mi cercava perché avevo esperienza. Dopo appena qualche mese si aprì una vertenza alla Ranco di Lomazzo. Era estate. Al ritorno dalle ferie gli operai (400 dipendenti di cui l’80% donne) trovarono la fabbrica chiusa completamente: c’era un deliberato della Borsa di New York. Questa piccola multinazionale (con due fabbriche in Italia e una in Inghilterra) aveva investito, ma voleva dismettere. La Ranco di Olgiate Comasco era già stata venduta. Ugualmente per quella di Lomazzo era stato deciso di non investire più e chiudere. Ma il rapporto strettissimo con l’Unione industriali ci tornò utile.
Avevamo provato la mediazione al ministero del Lavoro. Avevamo incontrato tutti i partiti politici a Roma. In un giorno abbiamo fatto il pellegrinaggio: piazza del Gesù, via delle Botteghe Oscure, via Nazionale. Bisognava tentarle tutte, ma non riuscimmo a combinare niente.
Allora l’Unione industriali ci propose di andare in America nella sede centrale per sbloccare la situazione. Come si fa ad andare in America? «Ci pensiamo noi» dice l’Unione industriali. Quello della Fiom disse: «Dipende chi paga». Il presidente degli industriali rispose: «Non preoccupatevi, paghiamo noi. Voi dovete delegarne due. Noi mettiamo in atto tutte le nostre capacità e vediamo cosa riusciamo a fare». Vennero scelti il segretario della Fiom e il sottoscritto per le confederazioni. Iniziò l’avventura.
Nel frattempo in Italia le donne della Ranco hanno fatto, dalla fine di agosto fino al ritorno dall’America nella prima decade di dicembre, un’occupazione della fabbrica con le brande per dormire, con il prete che andava a dire la messa alla domenica mattina. Non era una fabbrica occupata solo con lo striscione rosso fuori. Avevano fatto i turni per l’occupazione. Secondo me, dopo quell’episodio, a Como non hanno più fatto una roba del genere, così bene.
Procurato l’appuntamento con il presidente della multinazionale siamo partiti per l’America, diretti a Columbus, capitale dell’Ohio. Il viaggio fu: Milano, New York, Philadelphia, Colombus. L’Unione industriali di Como si era tanto attivata che avevamo come assistente anche un delegato del consolato italiano a Cleveland, la città industriale dell’Ohio. Siamo partiti al sabato, la trattativa era al lunedì. Lunedì sera, seppure con qualche incomprensione, avevamo concluso.
Bisognava aspettare il giorno dopo per fare i verbali in inglese e in italiano. L’unico che capiva queste cose, ed era in grado di battere a macchina, era l’avvocato dell’azienda. Un abruzzese che faceva parte di uno studio di legali internazionali di Milano, molto bravo. «No, per fare queste cose, dato che i tasti della macchina da scrivere sono messi in modo diverso – rispondeva – per la traduzione devo fare una faticata: fino a domani a mezzogiorno non è pronto niente». Martedì non c’era l’aereo che partiva per l’Italia. Mercoledì potemmo rientrare: un pendolarismo moderno. Ma in questo modo abbiamo salvato l’azienda.
L’accordo si basava sulla riapertura immediata per 200 persone, cui seguiva un calendario di ripresa nei mesi successivi, per gli altri. Nella trattativa avevo chiesto che i primi a riprendere fossero gli iscritti al sindacato. E per questo l’accordo rischiò di saltare. Allora ho rammentato quelle poche cose che mi ricordavo dal Centro studi di Firenze, quando ci spiegavano del sindacato americano. Ci avevano detto che in America, quando il sindacato entra in una fabbrica, quasi automaticamente sono tutti iscritti. L’americano, sentendosi dire che, dopo aver firmato per far rientrare subito solo 200 operai, i primi da assumere sarebbero dovuti essere gli iscritti al sindacato, ha pensato che lo stavamo imbrogliando. A quel punto chiesi all’avvocato di tradurre letteralmente le mie parole, perché altrimenti avremmo rischiato di attraversare l’oceano e prendere una scornata per niente. In questo modo ci siamo intesi e tutto è andato a buon fine: abbiamo salvato un’azienda che avevano deciso di chiudere. È stata una bella e positiva esperienza.
Ma Fim e Fiom nazionale erano contrarie. Ci prendevano a pesci in faccia. «Ah, andate con i padroni!» dicevano. Sono andato a Roma e mi hanno fatto una lavata di testa: «Non ci si può compromettere. Abbiamo una fabbrica a Genova, americana, occupata da un anno e mezzo. Ferma. Queste cose non si fanno». «Come non si fanno? – dicevo io –. Dobbiamo salvare 400 posti di lavoro. Tanto noi non ci perdiamo. Se non combiniamo niente, siamo al punto di partenza. Però tentiamo anche questa strada». È andata bene.
Al ritorno ci hanno chiamato a rapporto. A seguire questa vicenda era Gianni Bon. Come gli diedi il verbale d’accordo disse: «Lo metto nel cassetto, mettiamolo via, non facciamolo vedere a nessuno». «Mettilo dove vuoi – ho ribattuto –. Per noi va bene così. Riprendere subito con 200 persone e nel giro di 2/3 mesi con quasi tutti gli altri, è un successo. Soprattutto in un territorio dove tutto il tessile sta chiudendo». L’assemblea aveva approvato l’accordo. E i lavoratori ci portarono a pranzo per 3 o 4 mesi di fila.
Mi è capitato anche di andare, da segretario dell’Unione, dal vescovo di Como, che era un lecchese: il mio caro amico monsignor Tarcisio Ferraroni. Era una figura carismatica, molto vicina e attenta al sociale, al mondo del lavoro.
La Riva Rossi era un’azienda che faceva i trenini in scala. Era seguita dai tessili. Volevano chiudere. Qualcuno suggerì di telefonare al vescovo. Mi sembrava inutile: cosa poteva fare un vescovo? Chiamai, comunque, la curia, chiedendo del vescovo. «Un momento che glielo passo subito». Dopo qualche secondo la stessa voce risponde: «Sono ancora quello di prima, il vescovo. Ma non ho il telefonista. Faccio finta di averlo. Faccio tutto io. Cosa c’è?» Ci accordiamo per un appuntamento per il giorno dopo alle 9.30. Al mio arrivo c’era il salone pieno di preti. Arrivò il vescovo con la sigaretta in mano. «Sei qui a fare?». «Ma avevamo l’appuntamento…» «Ah sì. Vieni là». Dopo due ore di colloquio non avevo più argomenti. Che mano poteva darmi il vescovo per riaprire la fabbrica di trenini? E lui mi diceva: «No, stiamo qui a contarla su». «Ma ha di là la sala piena», protestavo. «Lasciali là, mi contano su un sacco di bugie e balle. Hanno il tempo da perdere quelli lì». Insomma a quei tempi dialogavamo molto facilmente e bene con il vescovo.
La mia entrata in segreteria coincise con l’uscita di scena del segretario precedente, che nel ’48 c’era già, durante il periodo della Cgil unitaria. Questi voleva la sua liquidazione giustamente. E non avevamo i soldi per pagarla. Una dimostrazione che le difficoltà economiche, insomma, continuavano ad esserci. Ecco, perciò, l’andare a Roma a prendere soldi. Mi ricordo che a fine mese pagare gli stipendi e i contributi Inps era sempre un impresa che ti faceva andare a casa la sera e non dormire.
Già in quegli anni Settanta a Como, appena entrato in segreteria, c’erano le riunioni carbonare. Negli ultimi periodi del mio secondo mandato i rapporti in segreteria divennero turbolenti. Si decideva una cosa per poi andare negli organismi e scoprire che chi era in segreteria si metteva contro per sostenere altro. Questioni più organizzative, che politiche, per la verità. Era un inferno vivere gli ultimi mesi in quel modo.
Allora presentai al Consiglio generale un ordine del giorno per dire che se non si fosse cambiato metodo mi sarei dimesso. Andato sotto nella votazione, ho dato le mie dimissioni. Credo di essere uno dei pochissimi che si è dimesso da segretario generale. In realtà qualcuno mi aveva suggerito di non pronunciare mai la parola dimissioni, perché il rischio, mi dicevano, è che vengano accettate.
A parte le battute io ero un sostenitore del «fino al secondo mandato». E il mio lo stavo finendo. Così, a seguito del capovolgimento di 4 o 5 voti nel mio Consiglio generale, ho lasciato tutto.
Come segretario generale sono stato sostituito da Paolo Nardini, dopo cinque mesi in cui sono rimasto per garantire continuità. Non si riusciva a trovare il sostituto e la confederazione non nominava il commissario. Dopo che Luigia Alberti è stata scelta come segretario generale della Cisl Lombardia, ha delegato Nardini prima come facente funzione e poi si è fatto eleggere nel congresso del 1985.

Al regionale
Io passato al regionale Cisl a seguire il settore organizzativo. Non mi trovai bene. Era, allora, una sovrastruttura. Avevo l’impressione che dal confederale non venisse delegato sostanzialmente niente, se non aspetti formali che non servivano. Nella sostanza, nell’organizzativo c’era poco mandato. Sul piano politico, può darsi che fosse un po’ diverso.
Quella del regionale è stata un’esperienza, per dirla nel nostro dialetto, «per mazà il temp». Serviva a poco. Si faceva fatica a trovare il lavoro, a trovare da fare. Se poi uno, per non disturbare i segretari generali, non faceva niente: era quello che andava bene. Perché non creava problemi. Questa fu la mia impressione, ma non vorrei che fosse esagerata.
Andai in pensione sei mesi prima di raggiungere l’età della pensione di vecchiaia. Nel 1992, l’anno della svalutazione della lira e della prima stretta sulle pensioni che mi convinse ad andare in pensione di corsa, anche se perdendo una piccola percentuale economica. Ho preferito, anche perché ormai era un’esperienza finita la mia. In realtà sarebbe bastato non prendersela e avrei potuto vivere bene anche quegli ultimi anni.
Con la Cisl ho chiuso. Non mi va più di impegnarmi. Ogni tanto i pensionati mi chiedono, ma rifiuto sempre. In verità seguo poco anche le vicende interne all’organizzazione.
Forse vedo tutto con gli occhi del nostalgico e del fuori età.
Forse i tempi sono cambiati, ma ricordo che anche quando era al regionale l’avvocato Sala aveva un contorno di teste d’uovo, di intellettuali che gli davano supporti notevoli. Il segretario generale ha bisogno di avere consulenti: i Baglioni, gli Onida e gli altri. Anche a livello nazionale c’erano.
L’anno del mio corso lungo a Firenze era l’anno dei congressi. Ricordo che Storti si era ritirato una settimana intera per abbozzare la sua relazione al congresso. La mattina lo vedevamo scendere nei viali con gli appunti scritti, insieme a Romani e agli altri. Si passavano i fogli, le correzioni. C’era uno scambio e un supporto intellettuale di un certo tipo. Questa è la strada dovrebbe seguire la Cisl per essere sempre più ascoltata nella nostra società.