Cinema e lavoro – In questo mondo libero…

Milano, 18.4.2019

Regia: Ken Loach – Sceneggiatura: Paul Laverty – Fotografia: Nigel Willoughby – Musiche: George Fenton – Montaggio: Jonathan Morris – Scenografia: Fergus Clegg – Costumi: Carole K. Millar – Interpreti: Kierston Wareing, Juliet Ellis, Leslaw Zurek, Colin Caughlin, Joe Siffleet – Produzione: Ken Loach, Rebecca O’brien, Piotr Reisch, Rafal Buks Per Sixteen Films Ltd., Tornasol Films S.A., Spi International, Filmstiftung Nordrhein-Westfalen, Filmfour, Emc Produktion, Bim – Distribuzione: Bim – Durata: 96’.

Inghilterra. Angie è una ragazza madre, impiegata di un’agenzia di collocamento, dinamica e dotata di forte senso pratico, ambizione e coraggio. Ha alle spalle una vita disordinata in cui non è riuscita a costruirsi un futuro e ha bisogno di dimostrare a se stessa e agli altri che può farcela da sola, senza l’aiuto di nessuno. Dopo essere stata licenziata per aver reagito ad una molestia sessuale da parte di un facoltoso cliente, Angie si rende conto che per lei è arrivato il momento di dare una svolta decisiva alla sua vita. Così, insieme alla sua coinquilina Rose, decide di aprire una propria agenzia per inserire nel mondo del lavoro i numerosi immigrati in cerca di un’occupazione. In questo modo le ragazze senza quasi rendersene conto passano dall’essere sfruttate allo sfruttare loro stesse i lavoratori che smistano nelle diverse aziende richiedenti manodopera in nero e a basso costo. Angie dimostra subito di essere diventata una spietata capitalista senza nessuna remora per il suo comportamento, per il lavoro nero, a giornata, senza nessuna tutela a cui sottopone i lavoratori che si rivolgono a lei per sopravvivere in un mondo del lavoro sempre più precario e umiliante. Angie ha anche un figlio che vive con i genitori e che soffre del distacco della madre, arrivando a comportamenti aggressivi a scuola, per difenderne la reputazione. Insieme a Rose, il bimbo è forse il personaggio più dignitoso di tutto il film. Il padre di Angie è molto critico sul tipo di futuro che si sta costruendo la figlia, convinto che la si sia imbarcata in un’attività senza prospettive. Cerca di farla ragionare sui problemi etici che il suo lavoro comporta e che da questo sistema ne escano vincitori solo padroni e i mafiosi, inoltre cerca di spiegarle come la situazione peggiorerà ed esploderà in una guerra fra poveri per un lavoro mal pagato e senza diritti. Ma lei esplode con rabbia, esprimendo tutta la sua frustrazione per le difficoltà professionali incontrate, il suo bisogno di indipendenza, ribadendo la diversa situazione storica del mercato del lavoro, quasi disgustata dalla modesta carriera lavorativa del genitore. E giustifica le sue scelte per ottenere una vita migliore: se ciò comprende lo sfruttamento di persone, lei non ne è responsabile. I guai seri cominciano quando un edile non ha i soldi per pagare un lavoro svolto dagli operai di Angie e Rose, che arrivano a picchiare la stessa Angie e ad assalire la casa delle amiche. Angie viene poi attaccata e minacciata in casa propria. Le due ragazze saranno costrette, per pagare i loro debiti, a tornare a lavorare in un’agenzia di collocamento dove viene promesso lavoro in Inghilterra, ma localizzata nella stessa Ucraina (i cui migranti erano stati fra le maggiori vittime dell’organizzazione di Angie).

Arricchimento e sfruttamento degli immigrati oltre al tema del lavoro flessibile ed insicuro sono alla base della solita graffiante opera del regista inglese. Un film che non ha perso smalto pur col passare del tempo.

LA CRITICA

E se la rivelazione della 64esima Mostra fosse la bionda, vistosa e tostissima Kierston Wareing che nel film ‘In questo mondo libero…’ interpreta un’avida sfruttatrice di immigrati? Grandi applausi ha ricevuto al Lido Ken Loach che, fedele alla sua missione di regista del sociale, esplora questa volta l’amara realtà dei nuovi “schiavi” generati dalla globalizzazione. Con un film dominato proprio dalla Wareing, attrice poco conosciuta ma molto efficace, nel ruolo scomodo della carogna: Angie, una ragazza madre arrabbiata e ambiziosa, che a Londra mette in piedi un business sul lavoro precario di russi, polacchi, sudamericani, indiani, insomma la manodopera a basso costo sempre più richiesta dall’Occidente. (Gloria Satta, ‘Il Messaggero’, 2 settembre 2007)

Impetuoso, rigoroso, polemico, le sue storie ce le ha quasi sempre raccontate dalla parte degli oppressi, ora, con ‘In questo mondo libero’, continua a difendere gli oppressi ma analizza, con durezza, il punto di vista degli oppressori, una donna, per nulla fragile, che specula a Londra sulla tratta degli immigrati, meglio se clandestini, perché pagati poco e tenuti più a freno. Una donna analizzata anche nei suoi dubbi, sollecitati da un padre onesto e da una sosia cui ripugnano i suoi modi spietati, ma pronta a tirar dritto per la propria strada, incurante del male che fa, dei soprusi che commette, degli inganni cinici che ordisce. Un ritratto dal vivo che, come sempre in Loach, diventa anche il ritratto della società senza remore che l’attornia. Con ritmi affannati e tecniche decise. Un’opera maggiore. (Gian Luigi Rondi, ‘Il Tempo’, 2 settembre 2007)

Questa volta l’energia, la forza del film tendono a un altro tema, l’insicurezza, precarietà e flessibilità del lavoro, la sua modernizzazione a favore esclusivo dell’imprenditoria, le modalità lodate come massimo aggiornamento che hanno fatto perdere ai lavoratori autonomia, dignità, onore. (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 2 settembre 2007)

Con ‘It’s a Free World’, al contrario, l’inglese Ken Loach fa il verso a se stesso: l’odissea di due donne immigrate nell’illegalità, a cui le costringerebbe il governo ‘borghese’ appartiene in pratica alla routine polemico-sindacalista dell’autore de ‘Il mio nome è Joe’ e ‘Lady Bird, Lady Bird’. Impegnato soltanto a scuotere l’opinione pubblica dei compatrioti, il regista ricicla uno stile documentaristico che vorrebbe ispirarsi al realismo socialista, ma finisce col riciclare gli instant-movies televisivi del probo Channel 4. Più che la lotta tra approfittatori e lavoratori senza copertura, il film dall’andamento rumoroso e svelto sembra mettere in scena il match infinito di Loach con i propri fantasmi post-caduta del muro. (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 2 settembre 2007)

Ken Loach e i co.co.co., Ken Loach e la legge Biagi, Ken Loach e il lavoro interinale… Ken Loach e il cinema; fortunatamente: It’s a Free World (« È un mondo libero») è prima di tutto un bel film di quelli che il compagno Ken riesce a fare quando è ispirato, quando le urgenze sociali e sociologiche rimangono sullo sfondo e trionfano i personaggi, i loro sogni; le loro lotte, le loro delusioni. Lo pensiamo da anni, diciamolo una volta di più: Ken Loach, apparentemente il cineasta più militante sulla piazza; é rimasto l’ultimo a fare il vero «cinema hollywoodiano», ovvero quel cinema fatto di personaggi forti; di ottimi attori, di sceneggiature di ferro e di conflitti narrati senza mediazioni intellettualistiche. Fateci caso: nei film di Ken Loach non ci si rende mai conto di quel che fa la macchina da presa, non si notano i. movimenti di macchina e le «belle» inquadrature. Non perché non ci siano, ma perché Loach le nasconde sotto la forza della vecchia, benedetta trama. Sapete chi era il maestro di questo stile, l’uomo che teorizzava l’invisibilità del regista e della messinscena? Howard Hawks, il regista di Susanna e del Fiume rosso. E prima di lui Charlie Chaplin, inglese come Loach. Poi, certo, ci sono i co.co.co. Che in Gran Bretagna hanno un nome diverso e sono quasi tutti. stranieri. It’s a Free World parla di loro. Ma soprattutto parla di Angie, una ragazza poco più che trentenne (interpretata da un’esordiente stupenda Keirston Wareing), un’inglese tosta, divorziata con figlio a carico e con genitori anziani che dopo 10 minuti di film viene licenziata. Angie lavora in un’agenzia di lavoro interinale specializzata nel reclutare lavoratori nell’Europa dell’Est: è brava, ma ha il difetto di rifiutare sempre le avances dei colleghi. Rimasta a spasso, decide di aprire – assieme all’amica Rose, un’inglese di colore con la quale convive – un’agenzia in proprio. Gli inizi sono difficili, e un «ufficio» nel retro di un pub non è il massimo del «trendy», ma quando i datori di lavoro si vedono arrivare in fabbrica Angie a bordo della sua moto, fasciata in abiti di pelle che lasciano poco all’immaginazione, ci cascano quasi tutti e fanno affari con lei. Affari che vanno benino… ma andrebbero anche meglio se Angie e Rose rinunciassero a far tutto secondo le regole. In fondo, che male c’è a subaffittare un appartamento a lavoratori stranieri che dormono a turno? O a trovare un impiego (e un passaporto falso) anche per un clandestino? I guai cominciano quando una squadra di operai polacchi non viene pagata perché la ditta per cui lavorano fallisce, ed Angie deve trovare 40.000 sterline in contanti: altrimenti ci andrà di mezzo suo figlio, un bambino difficile che vive con i nonni e si chiede sempre che lavoro faccia sua madre… Loach e il suo sceneggiatore Paul Laverty costruiscono il film come un duro «j’accuse» sulle condizioni di lavoro nella «libera» Inghilterra, ma non hanno paura di virare sul giallo, quando serve: e lo sanno fare, a differenza di tanti italiani che ora non abbiamo voglia di nominare. Ne esce un apologo sul capitalismo, un sistema nel quale nessuno può rimanere puro con i propri sogni; ma ne esce anche un signor film, che si segue con il fiato sospeso, facendo il tifo per Angie e arrabbiandosi con lei quando diventa una padroncina cinica e spietata. (Alberto Crespi, ‘L’Unità’, 2 settembre 2007)

Lo sguardo di Angie (Kierston Wareing) è di ghiaccio, svuotato di emozioni. O forse in esso trionfa l’unica emozione ancora possibile: quella d’una solitudine impaurita e furente, che si fa stile di vita. Attorno a questa solitudine si sviluppa la storia, anch’essa di giaccio, di In questo mondo libero (…). Con lo sceneggiatore Paul Laverty, Ken Loach racconta un’umanità che alcuni osservatori da tempo chiamano “flessibile”, e lo fa senza pesantezze sociologiche e senza cedere alla tentazione dell’ideologia. Che cos’è dunque la flessibilità di Angie? Nel film lo spiega lei stessa, con una consapevolezza che non chiede e non ammette consolazioni. Il padre Geoff (Colin Caughlin) l’ha appena sorpresa a fare il suo mestiere di mercante di braccia. Vecchio operaio sindacalizzato, torna a vedere un’antica pratica che aveva creduto finita. A pagarne le conseguenze, aggiunge, sarà il nipote Jamie (Joe Siffleet), costretto a competere per un posto di lavoro insicuro e mal pagato con quegli stessi poveri esseri umani che Angie compra e vende al di fuori e contro ogni legge. Certo, aggiunge, lui non si mischierebbe mai “con quegli animali” del Fronte Nazionale. Eppure, implicito,c’è nelle sue parole il sospetto d’una disponibilità al rifiuto anche violento degli immigrati. A frenarlo, per ora, restano il suo passato e la sua appartenenza politica, che la sceneggiatura non dichiara, ma certo suggerisce. Insomma, Geoff ha un punto di vista sul mondo, una storia di vita. E in nome di tutto questo rinfaccia alla figlia il suo tradimento. Al contrario, Angie non ha appartenenze, e non ha passato. Per trent’anni tu hai fatto lo stesso mestiere, dice al padre quasi con rimprovero. Quanto a lei, invece, a più di trent’anni non ne ha alcuno, di mestiere. La sua vita è segnata dal fallimento d’ogni tentativo di costruirsi una storia lineare e coerente. Non è legata ad alcun passato, Angie, e non spera in alcun futuro. O meglio, immagina che il suo futuro avrà il volto del suo presente: esposto al rischio, mutevole, privo di senso che non sia quello immediato e labile del denaro. D’altra parte,come dichiara al padre,non accetterebbe mai una condizione sociale misera come la sua. Questa è la sua “flessibilità”, questa assenza di storia di vita, questa mancanza di stabilità e appartenenza e, insieme, questa volontà disperata di emergere, di avere successo da sé sola e per sé sola. Non è morale lo sguardo di Angie sul mondo, e nemmeno immorale. In lei c’è piuttosto una scissione fredda tra un residuo senso morale e i comportamenti. Quando la socia Rose (Juliet Ellis) è presa da qualche scrupolo, o almeno da qualche timore, la sua risposta è netta, definitiva: «Lo fanno tutti». Non sembra ci sia ipocrisia, in queste parole. Davvero Angie è certa che non ci siano limiti e che non valgano regole, quando si tratta di emergere, o di affrancarsi anche solo un po’ dalla sconfitta. Lo fanno tutti,e questo giustifica ognuno. D’altra parte, chi sono questi “tutti”? Non sono un corpo sociale, e ancora meno una classe. Si tratta invece della somma algebrica di singoli egoisti, aggressivi e inaffidabili, ognuno in guerra con ognuno. Di questo è certa Angie. Lo è a tal punto, che nella stessa prospettiva vede e vive ogni sentimento, a parte l’amore per il figlio,e forse l’affetto per il padre. Nel suo mondo non ci sono relazioni che non siano economiche e quantitative. Anche l’amicizia,l’amore e il sesso si perdono in questa miseria contabile. Non ha pietà, ma neppure vero odio. Quando per caso ne è tentata, subito considera che non se li può permettere, nella guerra che ha dichiarato al mondo e che il mondo le ha dichiarato. Se per caso le capita di sorprendersi di fronte alle condizioni in cui vivono i suoi ” clienti”, poi fa in modo di trarne vantaggio. Perché dovrebbe comportarsi diversamente? Lo fanno tutti, appunto. Insomma, Angie immagina di essere sola in un mondo dove ognuno è solo, unico artefice di se stesso, tanto dei propri fallimenti quanto dei propri successi. Anche in questo senso la sua mancata, frammentaria, “flessibile” storia di vita capovolge quella del padre, passata nella certezza d’esser parte di un gruppo, e di condividere con tanti altri suoi pari sia il merito delle vittorie sia la responsabilità delle sconfitte. Tutto questo raccontano Ken Loach e Paul Laverty. E mai permettono che la sociologia o l’ideologia si sovrappongano allo sgomento dei loro e dei nostri occhi, di fronte alla guerra che Angie dichiara al mondo, e che con lei dichiarano i molti smarriti nella sua stessa solitudine impaurita e furente. (Roberto Escobar – Il Sole 24 Ore – 7/10/2007)