Cinema e lavoro – Le biciclette di Pechino

Milano, 17.02.2017
 
Regia: Wang Xiaoshuai Soggetto: Peggy Chao, Hsiao-ming Hsu Sceneggiatura:Peggy Chao, Hsiao-ming Hsu  Fotografia:Jie Liu Musiche:Feng Wang Montaggio:Ju-kuan Hsiao, Hongyu Yang Scenografia:Anjun Cao Interpreti: Lin Cui (Guo Langui), Xun Zhou (Quin), Yuanyuan Gao (Xiao), Shuang Li (Da Huan), Yiwei Zhao (il padre), Yan Pang (la madre) Produzione: Arc Light Films – Asiatic Films – Beijing Films – Eastern Television – Public Television Service Foundation – Piramide Productions Distribuzione: Teodora film Durata: 103’
 
Il sedicenne Guei, appena arrivato a Pechino dalla campagna, trova lavoro presso un’agenzia di recapito postale. La magnifica bicicletta che la società gli ha fornito per svolgere la sua attività dovrà essere ripagata con cospicue rate mensili. Un giorno la bicicletta di Guo viene rubata. Il ragazzo si mette a girare per la città sperando di ritrovarla. La bicicletta è finita nelle mani di Quin, uno studente che l’ha comprata di seconda mano col denaro rubato al padre. Quando Guo ritrova la sua bicicletta, Quin non gliela vuole ridare. Dopo essersela più volte sottratta a vicenda, i due giovani decidono di tenerla a turno un po’ per uno. A causa dello scontro con una banda rivale, i due sono inseguiti da un gruppo di loro coetanei per i vicoli della città antica. Nel corso della zuffa che ne segue, la bicicletta è completamente distrutta. A Guo non rimarrà che portarsela a casa ancora una volta ma ormai a pezzi.;
 
Questo omaggio del regista della “sesta generazione” del cinema cinese al capolavoro di De Sica fece scoprire come la modernizzazione del paese e la condizione giovanile fosse critica. “Ladri di biciclette” non era solo un film, ma un vero e proprio viaggio nella Roma postbellica. “Le biciclette di Pechino” è la stessa operazione sulla capitale cinese alle prese con il lavoro, la povertà ed i cambiamenti.
 
LA CRITICA
 
Film vincitore a Berlino del “Gran premio della giuria” e di quello per i migliori attori esordienti, Le biciclette di Pechino è un Ladri di biciclette riambientato nella Cina d’oggi e rivisitato in uno stile che, a tratti, evoca i lavori di Won KarWai. Vederlo, ti fa intuire quello che dovettero provare, tanti anni fa, gli spettatori del nostro neorealismo e in particolare del film diretto da Vittorio De Sica, che Le biciclette di Pechino evoca sia nel titolo sia nella trama: un’impressione di verità e di semplicità che, malgrado i risvolti drammatici, è anche senso di leggerezza di fronte all’artificiosità della stragrande maggioranza del cinema. Non può essere che questo il motivo per cui Wang Xiaoshuai, regista tra i più dotati della “sesta generazione” dei cineasti cinesi, è incorso in parecchie grane con la censura del suo Paese, malgrado non sia né un oppositore né un severo giudice del regime comunista. La semplicità e il rigore etico con cui ci mostra la vera Pechino, i suoi vecchi quartieri minacciati dalla modernizzazione, la sua gente autentica, che cerca come può di vivere e di sognare, ha qualcosa di intrinsecamente rivoluzionario. E la cosa che sedimenta di più nella memoria è la rappresentazione di una Pechino senza cittadini adulti, impregnata di una fisicità e di una violenza sempre latente che lasciano una strana sensazione di disagio (Roberto Nepoti – La Repubblica)

È la violenza a farla da padrona in Le biciclette di Pechino. Una violenza mai messa in scena in modo compiaciuto ma, al contrario, con realismo e crudezza. È la violenza a mediare inizialmente il rapporto fra i due protagonisti che, senza esclusione di colpi, lottano come animali per il possesso di quella bicicletta che significa il posto di lavoro, per l’uno, o la conquista di una ragazza, per l’altro. Quando finalmente i due troveranno un accordo sarà ancora un atto di violenza – quello di una banda giovanile che pesterà entrambi a sangue – a por fine al loro rapporto, che sarebbe anche potuto sfociare in un reciproco sentimento di amicizia. Pur con gradazioni diverse, i due protagonisti vivono entrambi una condizione di povertà se non di privazione. L’uno dipende interamente dal suo lavoro – e dal magro salario mensile è costretto ogni mese a rinunciare alle rate per l’uso e il possesso del suo mezzo di trasporto – l’altro vive in una famiglia che non può assolutamente permettersi di spendere denaro per comprare una bicicletta al figlio maggiore. È proprio questa condizione di povertà che finisce col determinare il furto di denaro al padre, di cui si rende colpevole Quin, e la durezza della lotta per il possesso della bicicletta. Interessante è il modo in cui il regista e sceneggiatore del film costruisce un chiaro parallelo fra i due protagonisti attraverso un evidente difficoltà di comunicazione che caratterizza entrambi e che si evidenzia nel loro deliberato e ostinato rifiuto del linguaggio, nel rinchiudersi in un mutismo quasi esasperante (si vedano i silenzi del fattorino con l’amico e dello studente con la fidanzata, per non dire del modo in cui si rapportano fra loro). Altro elemento centrale è indubbiamente quello relativo alla città. La macchina da presa del regista segue le corse su due ruote del protagonista, rubando immagini su immagini alla Pechino contemporanea, passando senza soluzione di continuità dai quartieri commerciali, pieni di grattacieli, hotel a cinque stelle e ristoranti di lusso, a quelli più popolari, con le loro umili case, le piccole botteghe di artigiani, le stradine che s’intrecciano fra loro riportando chi le percorre al punto di partenza. Ma questo sguardo documentario s’intreccia sempre alla percezione individuale del protagonista, al suo smarrimento, alle sue incertezze di fronte a una metropoli lontana anni luce dal suo mondo. Ecco allora le soggettive, le inquadrature dal basso sugli alti edifici, le panoramiche sul traffico cittadino, i campi lunghi che richiedono di essere scrutati con attenzione prima di potervi individuare il “piccolo” Guo in sella alla sua bicicletta. Ma, il regista ci ricorda, questo sguardo spaesato non è solo quello del protagonista. È anche quello delle altre migliaia di giovani che, come lui, arrivano nella capitale dalla provincia. Ecco così, in una delle immagini più belle del film, che gli occhi di tutti i neoassunti dell’agenzia di recapito si perdono nella mappa, appesa a un muro, dell’immensa città che dovranno imparare a conoscere come le loro tasche. (Dario Tomasi – Aiace)