Un film di Oren Moverman (Usa 2014)
Milano, 22.2.2021
Regia: Oren Moverman – Soggetto: Jeffrey Caine, Oren Moverman Sceneggiatura: Oren Moverman – Fotografia: Bobby Bukowski – Montaggio: Alex Hall Scenografia, Kelly McGehee – Interpreti: Richard Gere, Jena Malone, Danielle Brooks, Geraldine Hughes, Yul Vazquez, Ben Vereen, Jeremy Strong, Brian d’Arcy James, Tonye Patano, Colman Domingo – Produzione: Cold Iron Pictures, Lightstream Pictures – Distribuzione: Lucky Red – Durata: 120 min.
George (Richard Gere) vive a New York senza fissa dimora, vagando e arrabattandosi ogni giorno per trovare un pasto e un rifugio dove ripararsi. Nel suo vagabondaggio fatto di alcol, elemosina, fila alle mense e ai dormitori dei poveri, al Bellevue Hospital (il più grande centro di accoglienza per clochard di New York) incontra uomini e donne disperati come lui, invisibili per i rispettabili cittadini, spesso disprezzati e tenuti alla larga, trattati senza dignità da assistenti sociali cinici e rassegnati. George ha una figlia, Maggie (Jena Malone), che ha abbandonato quando aveva 12 anni, dopo essersi separato dalla moglie e che da allora è sempre vissuta con la nonna materna; da quel momento la sua vita ha avuto un tracollo inesorabile, segnato dalla perdita del lavoro, poi della casa, che lo ha portato, quasi senza accorgersene e senza veramente ammetterlo a se stesso, a vivere da senzatetto. Grazie all’amicizia che nasce con uno dei rifugiati del centro accoglienza, si convincerà a tentare di recuperare il rapporto con la figlia, ormai adulta, cercando di rimediare al passato e di farsi perdonare per averla abbandonata.
La vita di un disoccupato senza fissa dimora serve al regista ed a Richard Gere (che ha creduto nel film fin dall’inizio) per denunciare il sogno americano e l’indifferenza verso gli invisibili della società. Purtroppo, sia negli Usa che da noi, uscito con due anni di ritardo, ha avuto limitata distribuzione anche se, in occasione della campagna #HomelessZero promossa dalla Federazione italiana organismi per i senza dimora, il film è stato proiettato in 24 città italiane in collaborazione con la stessa distribuzione italiana.
LA CRITICA
Gli invisibili segue George nella sua perpetua peregrinazione, documentando i suoi incontri con altri disperati come lui, con assistenti sociali ben intenzionati che usano l’ironia e la rassegnazione come lame di coltello, con giovinastri che lanciano oggetti ai barboni e vegani gentili pronti ad offrire un piatto di riso. E con Maggie, la figlia che George ha abbandonato a 12 anni, lasciandola nelle mani della nonna materna mentre lui precipitava giù per la tana del coniglio. La sua favola nera, da quel momento in poi, è quella di Alice nel paese degli orrori, personificazione dell’incubo più condivisibile dei nostri tempi: la perdita di un lavoro, di una casa, e dunque di un’identità. Che è soprattutto un’identità maschile. La storia di George è infatti inquadrata anche come la messa in crisi di un genere che, soprattutto negli Stati Uniti, ha creduto nel mito del self made man: non a caso l’uomo ripete ossessivamente di essere stato “salvato” da donne gentili, non a caso il suo precipitare è cominciato con la perdita della moglie, non a caso è attraverso la figlia che cerca di ritrovare la strada. Con Gli invisibili, che è anche il titolo del 30esimo album di Bob Dylan, Oren Moverman conclude la trilogia dedicata alla critica sociale dell’America post 11 settembre cominciata con Oltre le regole -The Messenger e proseguita con Rampart, creando una parabola contemporanea che non abbassa mai lo sguardo e non si concede soluzioni facili. George è un “uomo ri”: rifiutato, rilocato, rimpiazzato. La sua vita è un prefisso che nega la sua unicità e sottolinea il suo essere sostituibile, spostabile, facilmente dimenticabile. Il rischio apparentemente incosciente del film – assegnare a Richard Gere, anche produttore, il ruolo del protagonista – è in realtà un saggio investimento in metacinema, prima di tutto perché se un divo come Gere può precipitare in quella voragine di degrado e disistima, significa (simbolicamente parlando) che può capitare ad ognuno di noi. Gere si fa schermo bianco per le nostre paure, scegliendo (volontariamente) una recitazione completamente passiva, una fissità dello sguardo solo occasionalmente reattiva, mai attiva. Nella sua (caratteristica) apatia c’è lo smarrimento esistenziale di un personaggio persino irritante nel suo ostinarsi a vivere nel presente senza iniziare quella risalita a lui accessibile, in quanto bianco, istruito, e di gradevole aspetto. Di più: Gere presta alla storia, senza alcuna vanità, la sua vecchiaia, i suoi capelli bianchi e il suo inedito fisico rilassato che contrasta con il ricordo indelebile, nell’immaginario collettivo, del suo American gigolò intento a fare flessioni a mezz’aria. Ecco come sono finiti gli anni Ottanta, dice Moverman, il reaganismo edonista e la certezza del benessere: oggi Julian Cole non ha l’armadio pieno di camicie di Armani, ma come in American Gigolò cerca la salvezza attraverso una donna che abbia pietà della sua anima e prenda per mano il suo disorientamento. Un disorientamento che Moverman descrive per immagini spesso inquadrate attraverso quel vetro che divide un qui da un là, ricordandoci costantemente che potremmo essere noi, a trovarci dalla parte “sbagliata”. Il mondo che racconta è fatto di superfici riflettenti, in una infinita rifrazione di percorsi umani destinati a perdersi in un altrove incerto. Allo straniamento dello spettatore contribuisce il sound: nessuna colonna sonora, solo rumori d’ambiente che isolano, distraggono, confondono. Con lentezza talvolta esasperante scivoliamo in quel nulla chiassoso insieme a George, ci risvegliamo in ambienti che non ci appartengono e sottolineano la loro estraneità attraverso l’esperienza sensoriale. Gli invisibili racconta un tempo (anche mentale) interminabile che si consuma in un continuo passaggio fra interno ed esterno, e testimonia la crisi di un paese brancolante fra le macerie di una grande illusione collettiva. (Paola Casella – MyMovies)
La sua ultima ospite cambia casa e George, 60enne alcolizzato e senza lavoro, bianco, sano e di aspetto gradevole, diventa a poco a poco uno dei molti homeless di NY: girovaga, chiede l’elemosina, si ubriaca, fa la fila alle mense e ai dormitori per i poveri, copula con una barbona, subisce la compagnia di un nero mitomane e logorroico. La sua unica speranza è la figlia barista che però lo rifiuta perché lui l’ha abbandonata a 12 anni. Il 3° LM dell’indipendente Moverman prosegue la cruda dissezione dello sfacelo sociale USA dei primi Duemila: il sogno americano si è trasformato in un incubo. Gli “invisibili” sono le migliaia di sradicati – senza casa, senza lavoro ma soprattutto senza legami affettivi – che pullulano nelle megalopoli. Moverman inquadra spesso George da lontano per rendere l’indifferenza con cui sono guardati dalla gente “normale”. Nelle 2 storie complementari – quella della progressiva caduta di George e quella della sua sofferta possibile risalita – l’interpretazione di Gere (che ha anche prodotto il film), basata sulla sottrazione, senza concessioni all’istrionismo, è una delle carte vincenti. C’è in essa un rimando per antitesi, forse intenzionale, al Julian Kay di American gigolo (1980), quando George dichiara che, prima di diventare senzatetto, se l’era cavata facendosi ospitare da donne cui piaceva. George è Julian Kay 35 anni dopo? (M. Morandini)
Gli invisibili è un film sul sogno americano disgregato, sulle dissezioni sociali che la nuova economia capitalista ha mostruosamente creato, sul pullulare di vite inascoltate senza più legami affettivi, e infatti Moverman non poche volte inquadra il nostro tragico “eroe” da lontano, da prospettive sghembe, filtrate dalle vetrine, distaccate, quasi a rispettarne il dolore con delicato pudore e allo stesso tempo compiendo la scelta estetica, e anche “etica”, di “visualizzare” l’indifferenza con cui gente come George viene vista dai “normali”.
Gere s’impegna in sottrazione, con misura stimabile, e si compenetra appassionatamente in George, uomo che sino alla fine non capiamo se è matto, sano o soltanto uno sfortunato, e se il film in qualche modo funziona lo si deve alla sua onestà interpretativa, alla sua irreprensibile immersione appunto nel personaggio. Anche se, ammettiamolo, raramente abbiamo visto un barbone che, nonostante la povertà e il fatto che si lavi poco, rimane così piacente e attraente. Ed è inevitabile che, essendo Gere a interpretarlo, qualche stonatura emerga inevitabilmente e la simbiosi non sempre appaia credibile….. Gli invisibili , in buona sostanza, nonostante Gere che non fa Gere, non sortisce l’effetto sperato e anche il tema del difficile rapporto padre-figlia, alla fin fine, rientra tutto sommato nei canoni della tradizione hollywoodiana melodrammatica, artificiosamente sentimentalistica e prevedibile, quasi a confermare ancora una volta che Hollywood proprio non ce la fa a schivare appieno la retorica e casca nei soliti tranelli moralistici anche quando vorrebbe far Cinema riflessivo e impegnato fuori dagli standard. (Stefano Falotico – Racconti di cinema)