Cinema e lavoro – La parte degli angeli

Un film di Ken Loach (Inghilterra / Francia, 2012)

Milano, 7.9.2020

Regia: Ken Loach – Sceneggiatura: Paul Laverty – Fotografia: Robbie Ryan – Montaggio: Jonathan Morris – Musiche: George Fenton – Scenografia: Fergus Clegg – Interpreti: John Henshaw, William Ruane, Roger Allam, Daniel Portman, Paul Brannigan – Produzione: Entertainment One, Sixteen Films, Why Not Productions, Wild Bunch – Distribuzione: BIM – Durata: 101 min.

Robbie è un giovane sbandato di Glasgow che viene condannato per un barbaro pestaggio. Stavolta, però, nonostante la lunga fedina e la brutalità dell’atto, la condanna a 300 ore di servizi sociali è relativamente clemente per via del fatto che gli viene riconosciuto un generale sforzo nel cambiare la propria condotta, unito alla circostanza che a giorni diventerà padre. Già dopo le prime ore di lavori sociali, Robbie instaura un buon rapporto con Harry, il responsabile degli stessi, che lo accompagna all’ospedale dove sta per partorire la sua ragazza, Leonie, e lo soccorre dopo il pestaggio dei parenti di questa che cercano di dissuaderlo dal frequentarla. Ma Leonie ama Robbie e, seppure conscia delle difficoltà presenti, crede nella possibilità di crescere insieme il loro figlio. Harry ha creato un bel gruppo e, al di fuori dell’orario di servizio, organizza una gita istruttiva in una distilleria ad Edimburgo che risulterà decisiva per le sorti di Robbie e di altri tre ragazzi costretti ai servizi sociali. Alla nascita del piccolo Luke, il facoltoso padre di Leonie offre invano del denaro a Robbie perché si allontani dalla figlia. Questa, intanto, con l’aiuto di amici e parenti, sta cercando un’abitazione dignitosa, mentre Robbie sembra fatalmente legato a vecchie faide mai spente. Durante la gita si evidenzia il talento di assaggiatore di Robbie, il quale però, oltre alle degustazioni, ha fatto attenzione soprattutto alla notizia che presto verrà messa all’asta una botte di whisky di ingentissimo valore. Studiato un piano criminoso, Robbie si attiva con i tre amici del suo gruppo di recupero per sottrarre parte del preziosissimo liquido. Dopo una serie di peripezie, con grande arguzia Robbie riesce a sottrarre quattro bottiglie dell’introvabile whisky, ricavando da una sola di queste la considerevole cifra di 100.000 sterline che divide con i suoi compagni. Nella stessa operazione si è fatto abilmente assumere da una distilleria e così parte con Leonie e Luke per rifarsi una vita lontano dalle beghe di Glasgow, non prima di aver omaggiato Harry dell’altra bottiglia di sublime whisky sottratto nell’asta milionaria.

Loach è qui alle prese con il disagio giovanile senza dimenticare, come in tutta la sua opera, il tema del lavoro e sulle possibilità di riscatto sociale.

LA CRITICA

Ken Loach torna a riflettere sulla commedia umana, arte nella quale è indiscutibilmente maestro. Sceglie lo scenario della Glasgow che ama e ci offre il ritratto di uomini segnati dalla vita privilegiando tra tutti quello del giovane Robbie. È a quelli che questo nostro mondo libero etichetta come irrecuperabili che, ancora una volta rivolge la sua attenzione. Perché Loach è convinto che la possibilità di un riscatto sociale vada più che mai offerta in questi nostri tempi in cui il Dio Mercato reclama ingenti e quotidiani sacrifici umani.
Con il fido sceneggiatore Paul Laverty utilizza come leva narrativa il momento che, per ogni essere umano degno di questo nome, è costituito dalla nascita di un figlio. Decidere di averlo nonostante tutto significa, oggi, sperare apparentemente contro ogni speranza. È quello che fanno Robbie e la sua compagna Leonie contro il padre e i familiari di lei. In una società che conta più sulla ricaduta del delinquente (per poterlo allontanare a lungo dalla comunità) che sul suo redimersi la giovane coppia trova però ancora delle significative solidarietà. Perché il socialismo di Loach è di stampo umanitario e crede che sia ancora possibile quella pietas che i latini sapevano definire sgombrandola da ogni retorica commiserevole. Ecco allora che il ‘dannoso’ alcol, nelle specie di pregiatissimo whisky, finisce con il divenire strumento di riscatto in una storia che unisce con grande equilibrio dramma e sorriso e che (a differenza del prezioso liquido) va gustata appieno, senza moderazione. (Giancarlo Zappoli – MyMovies)

Robbie è cresciuto in mezzo alla feccia di Glasgow. Suo padre era feccia, lo è suo fratello, lo sono tutti i suoi amici, lo è lui che entra e esce dal carcere per crimini violenti e insensati. Ma adesso che sta per diventare padre e che per una volta riesce a rimanere fuori dal carcere capisce che deve dare una svolta netta. Con il gruppo di sbandati con cui svolge lavori socialmente utili elabora quindi un piano di fuga dalla vita come l’ha vissuta fino ad adesso. Il protagonista (Paul Branningan, speriamo di rivederlo), smilzo e violento ma intelligente, con una lunga cicatrice sulla faccia (“E’ tutto quello che vedono di me, specialmente ai colloqui di lavoro”) è un personaggio dalla cui parte si sta volentieri, ma lo stesso è vero per tutta le deandreiana banda di cleptomani e alcolizzati a cui deve badare il simpatico assistente sociale Harry. E sarà Harry, con la sua passione per il whisky, a dare involontariamente a tutti una possibilità per provare a uscire dal destino a loro assegnato, o almeno per vivere bene per un pò. Scegliendo al solito volti sconosciuti (tranne uno) e uno stile di recitazione non marcato Loach da’ la sensazione che non si tratti di personaggi tridimensionali o sfaccettati, ma di personaggi reali. Loach si dissocia nuovamente dal vizio del cinema d’autore di flagellare lo spettatore, con un riuscito equilibrio di dramma e commedia (del resto nel film precedente avevamo il fantasma di Cantona…). Così come per le fiabe, è importante che i film ci mostrino che i draghi si possono sconfiggere, che non si esca dal cinema chini e senza speranza (come può capitare nel magistrale ma soffocante “Amour”). Non ci riferiamo agli insopportabili lieto fine conciliatori alla “Forrest Gump”, ma agli squarci di possibilità, lo sguardo verso l’alto del protagonista de “La schivata”, gli inserti musicali di “Dancer in the Dark”, le visioni di Malik in “Il profeta”. L’anno scorso abbiamo avuto due splendidi esempi di film duri, volendo spietati, ma luminosi, in “Il ragazzo con la bicicletta” e “Miracolo a le Havre”, quest’anno il meraviglioso “La guerra è dichiarata”. Senza raggiungere tali vette, “La parte degli angeli” si colloca in questo filone. Molto dell’equilibrio tra denuncia e leggerezza sta ovviamente nella sceneggiatura: c’è il carcere usato come strumento di controllo sociale, ma c’è anche qualche giudice umano, i pestaggi capitano ma con un pò di fortuna (e velocità e determinazione) si possono anche evitare. Soprattutto ci sono persone che decidono di dare a Robbie una chance. Anche in regia Loach innesta sulla usuale sobrietà del suo stile alcune soluzioni in grado di colpire con efficacia lo spettatore (anche se le colonne sonore continua a non gestirle bene). Fin dalla doppia sequenza iniziale abbiamo una vera e propria doccia scozzese passando dalle risate alla rabbia prima che finiscano i titoli di testa. Loach mette in chiaro che non siamo di fronte al dramma sociale nè alla commedia pura. Nel film (come nella vita) ci sono momenti veramente duri come l’incontro di Robbie con una sua ex vittima che è uno dei picchi del film, anche nella messa in scena del flashback. Come nella vita però, questi momenti si alternano al divertente e all’assurdo, condensati nel riuscito personaggio di Albert, un deficiente totale che però è parte integrante della banda come jolly, (anche se c’è chi non capisce perchè lo tengano con loro…). Il film comprende la violenza delle degradate periferie post-industriali e la Scozia dei paesaggi incantati, del whisky e dei kilt, vissuta dagli scozzesi stessi con estrema ironia, prendendo in giro tanto sè stessi quanto i turisti a caccia di emozioni alla Braveheart. In uno scambio di battute molto significativo, quando la banda dei servizi sociali deve presentarsi ad una occasione importante si dicono (cito a memoria): “Guardiamoci, siamo tutti vestiti sempre in tuta da ginnastica, è chiaro che siamo della feccia” “E se ci mettiamo eleganti sembra che stiamo andando in tribunale” “Beh allora mettiamoci il kilt, almeno sembreremo solo dei ridicoli montanari” “Ottima idea!” E’ un film consigliato non solo ai fan di Loach, ma anche a chi lo ha apprezzato in passato ma l’ha perso ultimamente di vista, e soprattutto a chi crede che i film di questo tipo siano noiosi e pessimisti. Il premio della giuria a Cannes è stato un po’ eccessivo? Forse, ma non si vede perché debbano sempre piovere pietre…(Alberto Mazzoni – Ondacinema)

Messa da parte la rabbia che ha contraddistinto il loro ultimo lavoro (L’altra verità), Ken Loach e il sodale Paul Laverty (sceneggiatore) tornano con una commedia travolgente, alcolica e dalla trivialità liberatoria: The Angels’ Share – bellissimo titolo che indica quel 2% di “spirito” che si disperde nell’atmosfera ogniqualvolta viene aperta una cassa di whisky invecchiato – riporta il cineasta britannico a confrontarsi con le contraddizioni di un microcosmo che sembra conoscere alla perfezione. Stavolta, Loach tiene il dramma a distanza – il burrascoso passato del protagonista sembra appartenere ad un film preesistente, in realtà mai girato – e si concentra sulla vitalità di un percorso che, a tutti gli effetti, prende strada facendo i connotati del romanzo di formazione. Di (tras)formazione sarebbe meglio dire: Robbie è un poco di buono in superficie, ma dentro di sé nasconde un talento fuori dal comune. Che saprà sfruttare a suo vantaggio, imbeccato dalla sana, straordinaria “condivisione” del bonario Harry (John Henshaw, il Bombolo di Manchester, già diretto da Loach ne Il mio amico Eric), l’uomo chiamato a sorvegliare Robbie e gli altri ragazzi durante le ore di servizio. Generoso e consapevole delle traversie che contraddistinguono le loro esistenze, li “inizierà” ai piaceri del whisky: passione che li condurrà, tutti insieme, prima ad un meeting di degustazione ad Edimburgo, poi, all’oscuro del loro mentore, alla distilleria del Dornoch Firth. Dove, a breve, avrà luogo un’asta per assicurarsi il finora sconosciuto e preziosissimo whisky più importante del mondo.. Ed è proprio nella forza del gruppo, nell’assoluta compensazione tra l’astuzia di Robbie e la contagiosa deficienza di Albert (Gary Maitland), sommata ad alcune trovate improvvise, all’energia dei dialoghi e alla capacità di raccontare un mondo anche solo attraverso un atteggiamento, che il film di Ken Loach trova il giusto equilibrio tra risate e ottimi sentimenti. Quando la trivialità diventa poesia. Premio della Giuria al Festival di Cannes. (Valerio Sammarco – Cinematografo.it)

Il riscatto in un bicchiere di whisky. Anzi in una botte. È la parabola del nuovo film di Ken Loach, che appartiene al lato sorridente del suo cinema, quello che va da ‘Riff-Raff’ al ‘Il mio amico Eric’. Fiabe moderne, spesso irresistibili, più che commedie. Perché la speranza è l’ultima a morire, specie per gli ultimi della lista. E il vecchio Ken, 76 anni e neanche un compromesso, è uno dei pochi ancora capaci di accendere l’immaginazione degli spettatori senza umiliarne l’intelligenza. (…) Loach è un regista corale, scuola Monicelli; e se uno solo ce la fa, tutti, per folli o disperati che siano, meritano amore e comprensione. Come Robbie scopra il suo talento, come lo coltivi studiando il vocabolario del whisky, come Loach stenda su questo mondo di fanatici e bottiglie vendute a prezzi astronomici un velo di interesse e insieme di ironia, converrà scoprirlo al cinema. Ma è bello che dietro il colpaccio di Robbie ci sia anche il sogno, qualcosa in cui credere, un mistero che dona piacere solo a chi ha disciplina, passione, fiuto. Il riscatto, in fondo, inizia lì. (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 13 dicembre 2012)

Ken Loach tra ‘I soliti ignoti’ e ‘Full Monty’. Glasgow popolare, tra disoccupazione e piccola criminalità. (…) Commedia, questa volta, ma il radicamento ambientale sempre quello. Difficile non rilevare del manierismo, la scorciatoia di un buonismo manicheo che divide il campo secondo parametri ideologici sclerotizzati. Le buone cause del regista inglese basteranno a scaldare i cuori ma non a dire che fa sempre bei film. (Paolo D’Agostini, ‘La Repubblica’, 13 dicembre 2012).