Cinema e lavoro – Le meraviglie

Un film di Alice Rohrwacher (Italia, 2014)

Milano, 7.6.2021

Regia: Alice Rohrwacher – Sceneggiatura: Alice Rohrwacher – Fotografia: Hélène Louvart – Montaggio: Marco Spoletini – Musiche: Piero Crucitti – Interpreti: Monica Bellucci, Alba Rohrwacher, Margarete Tiesel, Sabine Timoteo, André Hennicke, Sam Louwyck, Maria Alexandra Lungu, Agnese Graziani – Produzione: Tempesta, Rai Cinema, Cineteca del Comune di Bologna – Distribuzione: BIM – Durata: 110 min.

Una famiglia di apicoltori abita in un casale nei paesaggi bucolici dell’Umbria.
Wolfgang è il pater familias, poi c’è la madre Angelica e, infine, le loro quattro figlie: Gelsomina, la più grande, Marinella, la seconda, e le più piccoline, Caterina e Luna.
Insieme a loro vive anche Cocò, un’amica di lunga data. La loro è una vita che segue i tempi della natura, nell’estenuante attesa del passaggio da una stagione all’altra.
La famiglia non solo deve occuparsi delle api mellifere, ma prendersi cura anche dell’orto e dell’allevamento di un esiguo gruppo di pecore. La loro piccola comunità di apicoltori è il quadro perfetto di una società rurale che vuol mantenere i suoi principi nonostante il progresso imposto dallo sviluppo industriale. Un equilibrio, però, che si spezza un’estate, quando alcuni eventi destabilizzano bruscamente il mondo della famiglia campagnola: prima l’arrivo al casale di Martin, un bambino in affido, molto introverso e con serie difficoltà a integrarsi socialmente; poi l’incontro con una troupe televisiva che sta girando proprio nei terreni vicini al loro. È così che Gelsomina conosce Milly Catena, una ammaliante conduttrice tv che si occupa di un format che mette in risalto le famiglie tradizionali, premiandole. Desiderosa di partecipare al concorso indetto dall’emittente, la ragazzina deve fare i conti con il rifiuto del padre che non comprende minimamente le sue esigenze di adolescente…

Le meraviglie, premiato a Cannes, è un film tra passato e futuro e pone anche il problema del lavoro contadino di fronte alla evoluzione della modernità. Una rappresentazione della vita e del lavoro in campagna senza edulcorazioni e romanticismi.

LA CRITICA

Gelsomina è un’adolescente introversa che vive nella campagna umbra con i genitori e le sorelline. Primogenita tutelare e solerte nelle faccende familiari, Gelsomina è inquieta e vorrebbe andare via, scoprire il mondo che comincia dopo il suo casale. A trattenerla è un padre esclusivo e operaio, alla maniera delle sue api, che guarda a lei ancora come a una bambina. La loro routine, scandita dalle stagioni e dall’impollinazione delle api mellifere, è interrotta dalla presenza di una troupe televisiva e dall’arrivo di Martin, un ragazzino con precedenti penali che deve seguire un programma di reinserimento. L’esoticità di una conduttrice tv e di un adolescente senza parole impatteranno la vita di Gelsomina e della sua famiglia, promettendo ciascuno a suo modo ‘meraviglie’. L’estate intanto sta finendo e una nuova stagione è alle porte.
Truffaut diceva che “l’adolescenza lascia un buon ricordo solo agli adulti che hanno una pessima memoria” ma quella di Gelsomina sembra essere una stagione felice, condivisa con la natura e una famiglia anarchica che parla italiano, tedesco e francese. Figlia di Wolfgang e di Angelica, la giovane protagonista di Alice Rohrwacher, conferma il coinvolgimento della regista per quell’età delicata di cui coglie ancora una volta la gravità rispetto alla futilità della vita adulta. Perché l’adolescenza porta con sé la scoperta dell’ingiustizia, dell’impunità dell’adulto, a cui tutto è permesso, anche un cammello in giardino. Di contro, una ragazzina che rovescia il miele nel tentativo di rendersi utile, crede di aver commesso un delitto, di aver deluso il padre, referente mitizzato e maschile dei suoi pochi anni. Ma l’ora del distacco suona e arriva con Martin, un piccolo amico che le corrisponde e che la corrisponderà. Delicato e sensibile, lo sguardo di Alice Rohrwacher si infila in quella relazione, realizzando una nuova cronaca dell’adolescenza dopo quella di Marta, corpo celeste dentro un paesaggio urbano depresso e fanaticamente osservante. Il talento dell’autrice, rivelato nel suo primo lungometraggio e negli interstizi di una Calabria miserabile e bigotta che simulava interesse per la formazione spirituale dei sui figli, si riconferma ne Le meraviglie e dentro un paesaggio rurale che esalta la sua vocazione documentaristica. Attraverso gli occhi di Gelsomina contempliamo una comunità ‘dissidente’ che si è ritirata in una dimensione bucolica, dove produce miele, insaccati, marmellate, salse di pomodoro e prova a resistere al mondo fuori. Un mondo che prende la parola e il microfono per mezzo della televisione regionale e naïf, dei suoi concorsi a premi, le coreografie rudimentali, le melodie stupide, le promesse di fare meraviglie per la gente del luogo. Ma la vera meraviglia è assicurata dalle api di Wolfgang e dischiusa dalla bocca acerba di Gelsomina, che ha il nome di un fiore e come un fiore è richiamo per le api. Indeciso nella prima parte sulla strada da percorrere, Le meraviglie è intuito e afferrato dagli sguardi di Alexandra Lungu e Sam Louwyck, figlia e padre riconciliati in un campo e controcampo che rinnamora e annulla la distanza. Ramingo sulla natura e sugli ambienti, il film aderisce progressivamente al personaggio centrale, Gelsomina, ormai aliena alla sua ‘comunità’ e pronta a salpare per l’isola che c’è e ha il volto di Martin e di una nuova età. Wolfgang, preferendo finalmente farsi amare che temere, la ‘reintegra’ in seno alla famiglia, ammirando la giovane donna che è diventata dentro una notte chiara. Per loro è il tempo della comprensione, è il conseguimento della complementarietà: Gelsomina è uguale a suo padre, Gelsomina è diversa da suo padre. È un corpo che spinge alla vita ma spinge a suo modo. A papà non resta che guardarne la bellezza, accettando la legge irreversibile delle stagioni. (Marzia Gandolfi – MyMovies)

La campagna, le attività agricole, gli spazi rurali di cui il nostro paese è ancora estremamente ricco, hanno subito negli ultimi anni un doppio processo che solo all’apparenza è contradditorio. Da un lato si è visto un progressivo spopolamento e abbandono dei luoghi che si trovavano lontani dalle città: i piccoli paesi di montagna o quei posti che hanno più difficoltà di accesso alla rete infrastrutturale, sono stati progressivamente abbandonati; chiusi i cinema, così come le attività imprenditoriali e culturali, diradata la presenza di scuole e ospedali. Dall’altro lato però ha preso sempre più piede una tendenza culturale – a volte una pura e semplice moda – che invece ha elevato la ruralità a oggetto del desiderio: il cibo tipico, gli agriturismi, un sempre più insistito richiamo anche a sinistra a termini come “comunità” e “tradizione” che in passato erano stati appannaggio unicamente della destra, sono diventati un leit motiv ideologico trasversale. Realtà come Slow Food o Eataly ne sono un emblema, ma sono solo la punta di un processo sociale ben più profondo. La campagna uccisa come realtà lavorativa e sociale, è stata resuscitata nella forma di un’icona inoffensiva. Se la vita in campagna è così dura, molto meglio è limitarsi ad andarci a mangiare. E poi tornare a casa. Se chi tradizionalmente abitava in campagna è andato in cerca di condizioni di vita (e di lavoro) più confortevoli, si è assistito però anche a un parziale movimento inverso, magari poco rilevante in termini numerici ma molto significativo dal punto di vista culturale. Molti giovani, spesso cresciuti in un contesto urbano e con una buona istruzione alle spalle, hanno deciso di lasciare la città per andare ad abitare in campagna. Dalla necessità si è passati alla scelta. La famiglia che vediamo ne Le meraviglie è di quest’ultimo tipo. Si tratta di una coppia che ha deciso di andare a vivere in campagna perché lo voleva, o perché pensava – magari un po’ ingenuamente – che fosse meglio far crescere là le proprie quattro figlie. Come dice la regista non c’è nulla della presunta saggezza che si trasmette di generazione in generazione (e che di solito è solo ideologia a buon mercato): si tratta semmai di gente che “ha letto dei libri” e che “ha imparato a fare l’orto su dei manuali”. La prima grande idea di questo film è allora quella di collocare lo sguardo a questa altezza: non concedere nulla alla rappresentazione edulcorata di un’autenticità contadina fuori dal tempo. La campagna de Le meraviglie è cruda, è dura eppure non è un unilaterale racconto di una vita di stenti e di fatiche. Ci si spacca la schiena e si lavora tutti, bambini compresi, ma lo si fa sullo sfondo di una scelta, non di una necessità; per una passione, che come spesso accade nelle passioni solipsistiche e ossessive dei nostri tempi, include anche una buona dose di autodistruttività (la famiglia de Le meraviglie pare sempre sull’orlo del collasso emotivo e materiale). La seconda bella trovata del film è poi quella di articolare i rapporti famigliari in una zona grigia dove violenza – soprattutto verbale – e autoritarismo stanno accanto senza contraddizione a una relazione di complicità e riconoscimento reciproco tra genitori e figli. Perché le famiglie nel mondo reale sono così: né soltanto dei luoghi di distruzione delle relazioni, né degli idilli di comprensione, ma entrambe le cose nello stesso momento e nella stessa relazione. La figura del padre (interpretato da Sam Louwick) in questo senso è paradigmatica: è lui che da patriarca decide che cosa la famiglia e le figlie debbano fare o non fare, ma nello stesso tempo il suo ruolo incarna anche un tentativo di preservazione dell’unità famigliare nel momento in cui questa è continuamente minacciata. Ma Le meraviglie prova a fare anche qualcosa in più, perché mette dentro a questo sguardo complesso e sfaccettato sulle relazioni famigliari un romanzo di formazione adolescenziale, che ne costituisce il perno principale: quello di Gelsomina, la più grande della quattro figlie, che come tutti gli adolescenti vive la contraddizione tra l’appartenenza al proprio mondo e il desiderio di qualcosa che potrebbe andare oltre. Questo qualcosa è incarnato dall’arrivo nella campagna di una specie di presenza aliena, che è quella della televisione commerciale e del suo potere d’incanto, simboleggiato da una fata/conduttrice televisiva/Monica Bellucci. E così il desiderio di Gelsomina di avere qualcosa in più per la sua vita finisce per intrappolare la sua famiglia in quel tritacarne dell’ideologia contemporanea che è la retorica del “tipico” e del “tradizionale”: quello sguardo che chiede soltanto se il miele venga fatto così come lo facevano gli etruschi. E il padre che quando faceva da patriarca urlava a destra e manca, in questo contesto non riesce più a spiaccicare una parola. Il problema è che con l’arrivo della televisione a venir turbato non è solo l’equilibrio famigliare ma anche quello del film che se nella prima parte aveva saputo gettare uno sguardo complesso su una ruralità inattuale e un po’ incosciente, finisce – un po’ come il padre di fronte alla telecamera della TV – a non saper più bene cosa dire. L’impressione è che Alice Rohrwacher non sappia proprio che riflessione tirare fuori da tutto quel materiale, potenzialmente di straordinario interesse, che aveva saputo mettere sullo schermo. Non prende la strada che pasolinianamente potrebbe difendere il valore della ruralità contro la barbarie dell’arrivo della televisione, dato che quella stessa decisione di andare a vivere in campagna è in un certo senso il frutto di una mediazione culturale urbana. Ma non prende neanche la strada del conflitto (in un certo senso eterno) tra la volontà del padre di determinare il desiderio della figlia e il bisogno di questa di trovare una strada tutta per sé, nonostante la prima parte del film abbia molti elementi per andare in questa direzione. E non decide nemmeno di indagare l’implicita violenza autodistruttiva della pluralità dei rapporti famigliari nonostante l’utilizzo dei molti personaggi comprimari sia tra le cose più efficaci del film (tra questi non possiamo non menzionare la piccola Agnese Graziani nella parte di Marinella, che buca lo schermo ogni volta che compare sulla scena). In un certo senso decide di fare tutte queste cose insieme confondendo un po’ se stessa e lo spettatore. Molte critiche qui a Cannes hanno sottolineato i problemi di scrittura de Le meraviglie, soprattutto nella seconda parte del film. Tuttavia crediamo che anche quando un film non funzioni completamente – qualunque cosa questo voglia dire – non sia mai imputabile a un presunto “errore” da parte dell’autore o dell’autrice. A maggior ragione quando si tratta di una regista come Alice Rohrwacher, il cui talento è qui fuori discussione. Il problema è, per così dire, squisitamente teorico, o persino politico. Perché voler mostrare l’estraneità di questa famiglia a quell’ideologia televisiva che vorrebbe ridurre la vita rurale a un’icona di una tradizione è non solo inefficace dal punto di vista della rappresentazione, ma forse persino sbagliato. Da dove verrebbe infatti quest’estraneità? Non certo da una tradizione dato che né il padre né la madre interpretata da Alba Rohrwacher possono vantare una precedente appartenenza a questo luogo di campagna. In un certo senso loro stessi ci “ritornano” dopo essere passati dalla televisione e dal quell’ideologia della tipicità e del “locale” che la tv commerciale veicola. Così come Gelsomina e Marinella guardano la televisione, cantano le canzoni di Ambra, vorrebbero una vita più simile alla televisione perché a quel mondo, in un certo senso, già appartengono (come dice la canzone di Ambra che continuano a cantare). Da dove viene dunque quest’estraneità? O meglio, c’è forse ancora un’estraneità all’universalità capitalistica di cui la televisione è un espressione? Non è forse la pretesa di essere estranei e di ricominciare a vivere in campagna un atteggiamento da anima bella, di chi pensa che basti tagliare i ponti con il mondo delle merci per non farne più parte? (ma esiste un mondo che non sia delle merci?) E allora perché il padre si sente così fuori posto, quando viene intervistato in tv da Monica Bellucci alla fine del film? Non si capisce se Alice Rohrwacher voglia dirci che nessuna estraneità a quel mondo è ormai più possibile, o se invece voglia dirci che, nonostante tutto, una qualche autenticità possa ancora essere ritrovata. Forse nemmeno lei saprebbe rispondere a questa domanda, perché quell’esperienza rurale di cui ci parla Le meraviglie di queste contraddizioni ne è semplicemente parte, senza essere in grado di scioglierle. (Pietro Bianchi – Doppiozero)

Dalle note di regia

La meraviglia è qualcosa che ci toglie la parola, ci rende impossibile l’espressione, la cerniera tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Ma esattamente come la parola “tradizione”, anche la meraviglia negli ultimi tempi è divenuta una parola di facile scambio, associata spesso a promesse di grandi emozioni, meravigliose appunto. In questo film ci sono piccole meraviglie, fatte di luci, ombre, animali e segreti di bambine, e poi ci sono le grandi meraviglie, quelle legate all’apparizione di Milly Catena, la presentatrice di un concorso a premi che promette di fare rivivere come c’era una volta. Abbiamo provato a raccontare una televisione al tempo stesso reale e fiabesca, innocente, una televisione pre-analitica. Abbiamo deciso di ignorare tutta la storia degli ultimi vent’anni, tutto quello che abbiamo visto, letto, e cercato di raccontare la trasmissione televisiva come se fosse un’astronave senza passato che arriva nelle campagne dell’Etruria. Perché violento è il mezzo televisivo quasi più della sua storia. C’è una presentatrice donna, una dea bianca, e una troupe di uomini vestiti di nero. Li incontriamo nel bosco, e Gelsomina ne è incantata. Appena si entra nella scatola televisiva, la lente trasforma le persone, le abbrutisce e le esalta: vero è ciò che è efficace, ciò che può essere sintetizzato in uno slogan di poche battute. Il contadino Portarena che partecipa al concorso televisivo dice poche frasi, che abbiamo già sentito milioni di volte, ma funziona. E’ un animale da palcoscenico. Wolfgang invece vorrebbe dire troppo, e si confonde. Non c’è contenitore per lui, lui non funziona. Ma forse non funzionare vuol dire anche essere liberi, non poter essere chiusi in quella scatola dove le prime vittime sono quelli che l’hanno inventata. Le meraviglie camminano su questo filo, tra un paesaggio che cambia, un concorso televisivo e una famiglia senza luogo. E’ un film che racconta probabilmente un grande fallimento. Le persone non cambiano, non migliorano, se non hanno posto all’inizio non lo troveranno alla fine. Non ci sono buoni e cattivi. Ci sono solo persone più esposte e persone che scavano tane. Spesso quelli che si espongono, falliscono. Ma riuscire a provare tenerezza per se stessi e per il proprio fallimento è una via di felicità. “Ci sono cose che esistono ma si trasformano in nulla se si studiano, se vengono estrapolate dalla loro materia, le meduse, i sogni.” In un’epoca dove tutto è analizzabile, dove i brutti sogni diventano malattie, dove le molecole si dividono all’infinito e la politica si trasforma in una specie di psicoterapia di massa, io credo ci sia bisogno di sintesi, di meduse. E i film possono esserlo. Possono, ma è un percorso difficile perché è pieno di trabocchetti – come per esempio perdersi alla ricerca di una storia che funzioni meglio di altre, o ricattare il pubblico cavalcando le sue sciagure, o rincitrullirlo tempestandolo di forti emozioni – e c’è bisogno di tanta attenzione. Nella nostra storia la famiglia di Gelsomina fa il miele, e siamo sicuri che sia un miele buonissimo, ma il loro laboratorio, il modo in cui lavorano è completamente illegale: le mura non sono disinfettabili, manca un tombino sifonato, il bagno con l’antibagno. E che dire poi della manodopera minorile? Insomma, quello che loro fanno è buono, ma se andiamo a vedere da vicino non rispettano nessuna legge e potremmo davvero sbatterli in prigione. Una cosa simile accade anche nel nostro lavoro, e spesso i buoni film non possono rispettare tutte le leggi narrative e produttive. Certo, c’è il rischio che gli spettatori, un po’ come i NAS, ti facciano chiudere. Ma io credo che prima di pensare a quanto miele vendere, bisogna chiedersi se è buono, soprattutto se lo possiamo dare da mangiare ai nostri bambini. (Alice Rohrwacher)