Cinema e lavoro – Da quando Otar è partito

Milano, 18.1.2018

Regia: Julie Bertucelli Soggetto: Roger Bohbot, Bernard Renucci, Julie Bertucelli Sceneggiatura: Julie Bertucelli, Roger Bohbot, Bernard Renucci Fotografia: Christophe Pollock Musiche: Antoine Duhamel, Dato Evgenidze, Arvo Pärt Montaggio: Emmanuelle Castro Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Nathalie Raoul Interpreti: Esther Gorintin, Nino Khomasuridze, Dinara Drukarova, Temur Kalandadze, Rusudan Bolqvadze, Sasha Sarishvili, Duta Skhirtladze Produzione: Les films du poisson Distribuzione: Esse&Bi Cinematografica Durata: 102’.

In un grande e fatiscente appartamento di Tbilisi, capitale della Georgia, vivono Ada, studentessa, la madre Marina (il marito è morto in Afghanistan) e la vecchia nonna Eka. Otar, l’altro figlio e fratello di Marina, da qualche tempo è andato a Parigi in cerca di fortuna, con la laurea in medicina. Sue notizie, molto attese dalla nonna, arrivano per posta (insieme a piccole somme) e talvolta per telefono. Ma un giorno Marina viene informata che Otar è morto a Parigi, caduto dall’impalcatura di un cantiere dove lavorava in nero. Non avendo il coraggio di dirlo a Eka, Marina fa finta di niente, mentre Ada si incarica di continuare a scrivere lettere inventate. Ripresasi da un malessere al cuore dopo qualche giorno d’ospedale, Eka torna a casa ed è presente quando alla porta arriva Micou, che riporta da Parigi gli effetti personali di Otar. Nascosta in tempo la valigia, Eka chiede notizie del figlio all’amico, incerto e impacciato. Quando, trascorso qualche giorno nella dacia in campagna, Marina e Ada fanno ritorno a casa, si accorgono che tutti i libri della ricca biblioteca sono stati venduti: Eka ha comprato tre biglietti d’aereo per andare a Parigi, ben decisa ad incontrare il figlio. Figlia e nipote la seguono ma, arrivate nella capitale francese, succede che Eka, rimasta sola, raggiunge l’indirizzo conosciuto e, dopo alcune ricerche, viene a scoprire la verità. Tornata in albergo, dice alle altre due che Otar non era in casa: é partito per gli Stati Uniti. Ora tutte sono all’aeroporto per il ritorno. Ma qui Ada inventa una scusa e non sale sull’aereo: sceglie a sua volta di restare a Parigi. La madre piange, la nonna le invia un bacio.

Vincitore del Gran Premio della Settimana della Critica a Cannes nel 2003 il film della Bertucelli (già assistente di Kieslowski) è un film sulla emigrazione ed i suoi problemi ( sfruttamento, lavoro nero, lontananza ) e sul rapporto tra generazioni nella realtà georgiana del post-comunismo.

LA CRITICA

Vincitore della Semaine de la Critique a Cannes -edizione 2003 – questo è un film da citare come esempio per come un tema triste e duro, quale la perdita di un proprio caro, possa essere trattato in maniera lieve ed originale. Protagonista della vicenda una madre georgiana ulraottantenne (Esther Gorintin di cui va ricordata l’interpretazione in “Voyages” di Emmanuel Finkiel film ingiustamente ignorato dalla distribuzione italiana) la quale non vive che in attesa di sentire il proprio figlio, Otar, emigrato a Parigi. Alla figlia, invece, con cui la donna convive, non resta che sopravvivere in uno scenario post-comunista a cui è difficile abituarsi. Una cattiva notizia indurrà entrambe le donne, seppure in tempi e con modalità differenti, a mentire vicendevolmente.Un finale a sorpresa, denso di lirismo, chiude questo piccolo gioiello firmato da una regista che esordisce nel lungometraggio.(Luisa Ceretto – MyMovies)

La dissoluzione dell’impero sovietico ha lasciato fratture sociali, civili, culturali che avranno bisogno di lungo tempo per ricomporsi. Lo dice a chiare lettere questa intensa e commossa opera prima, nella quale l’esordiente Bertuccelli riesce a comporre un racconto di lucida semplicità e di profonda riflessione. Merito della regista é sopratutto quello di inquadrare la vicenda su uno sfondo di un netto, vivido realismo e di far passare anche non pochi, significativi richiami simbolici. Da un lato allora ecco la vita quotidiana, autentica di una Tbilisi dove tutto appare antico, vecchio, escluso dalla modernità (e anche le chiese sono tagliate fuori) a dipingere una povertà che non è solo privazione ma ‘forma’ esistenziale; e dall’altro, ancora una volta, ma con precisa identificazione, “tre donne”, tre generazioni, ossia tre modi diversi di guardare la realtà, il passato, il presente (la nonna ricorda con affetto Stalin, la nipote non sa chi sia). Simboli dunque di uno sradicamento forte, in direzioni magari opposte: tutte insieme però a costituire una famiglia compatta, che non vuole abdicare al rispetto e all’amore. Lontano poi Otar: la sua scomparsa innesca il meccanismo della bugia, e, come rinvio, il dualismo verità/menzogna, che pesa sulla storia, sulla società ex sovietica (e non solo, ma qui interessa questo). Critica sfaccettata della dittatura, del salto nel vuoto che può essere il viaggio in occidente, del senso della morte e della voglia di vita che prende la più giovane. C’è dunque la Storia grande, e c’è la storia piccola, forse la più importante. E c’è la rabbia e la volontà di non arrendersi al peggio, di guardare avanti con coraggio. (Commissione Nazionale Valutazione Film – CEI)

(….)Otar è l’unico uomo importante del film, attorno a cui ruota tutta la vicenda e che determina le scelte di vita delle tre donne ma, paradossalmente, è assente dall’azione. Egli esiste inizialmente sotto forma di voce e poi di lettere. E’ il figlio di Eka ed il fratello di Marina, emigrato in Francia per cercare un lavoro e quindi dei soldi da mandare a casa, che non tornerà mai più, perché morirà in un incidente di lavoro. La nonna Eka lo considera l’eroe di famiglia, l’unico uomo fondamentale nella sua vita e per questo manda quasi tutti i giorni sua nipote Ada alla posta per vedere se è arrivata una lettera dal figlio, possibilmente con dei soldi. La vita delle donne è in funzione della lettura di queste lettere che provengono dall’Europa “capitalista” e da chi ha saputo approfittare di un’antica tradizione di famiglia, ovvero la passione per la lingua e la cultura francese (in casa infatti c’è un’ampia collezione di libri d’epoca francesi e le tre donne spesso parlano in francese fra di loro) (…..) Si riconosce nell’attenzione che la regista ha per le espressioni anche minime e apparentemente insignificanti nei visi delle tre protagoniste, il suo passato di documentarista e attenta osservatrice dell’animo umano, che è anche il punto di forza di questo film estremamente sincero, perché si sente una particolare sensibilità nel cogliere gli stati d’animo di chi inevitabilmente soffre e ha sofferto, senza per questo scadere nel pietismo o nella lacrima facile ma, anzi, proponendo dei personaggi incredibilmente forti e orgogliosi, che ci stupiscono per la loro ostinazione, come accade per il bellissimo finale.
Da quando Otar é partito è dunque un film in cui non si può non riconoscere uno sguardo sensibile tutto al femminile che, proprio per questo, riesce a descrivere con convinzione la vita di tre donne di un paese in grandi difficoltà e lasciare lo spettatore alla fine di 102 minuti passati in compagnia di tre grandi personaggi, rapito da tanta delicatezza e sincerità impressa sulla pellicola. (Elena Mortellini – Movieplayer)

Opera prima della documentarista Julie Bertuccelli, la pellicola racconta una storia dolorosa attraverso le vicende di tre donne, ma si apre di fatto a una riflessione su un intero paese e le sue contraddizioni. Mettendo in scena una storia di finzione, la regista gioca sulle aspirazioni e i desideri delle protagoniste della vicenda, trasformandole in linguaggio epistolare e consegnandole con coinvolgente e dedita sincerità al destinatario/spettatore. Il risultato è una pellicola totalmente (al) femminile, in cui gli uomini sono simulacro di un passato da superare, che rimane fatalmente sullo sfondo, caricandosi di un dolente simbolismo storico. Non vediamo mai Otar, ma lo conosciamo per deduzione: privilegiando un taglio psicologico e dinamiche narrative diluite e allungate a buon diritto, la mano registica rappresenta più uno stato d’animo che una realtà concreta, vale a dire quello di tre donne costrette a farsi forza da sole e a imparare l’arte di sostituirsi agli uominiLa perdita di qualcuno si fa metafora di eventi luttuosi, così come l’elaborazione del lutto attraverso l’invenzione di un mondo migliore diventa l’artificio narrativo attraverso il quale la regia ci parla di opportunità e speranze per le nuove generazioni. Il paesaggio e le immagini evocative rafforzano il tono malinconico e lontano con cui il film ci parla di un tempo in via d’estinzione, preparandoci ad accettare una nuova stagione, in cui il passato è un ricordo che sbiadisce e il futuro è accettare il cambiamento. Un film emozionante, assolutamente da vedere. (Long Take)