Heimat

Milano, 2.9.2014
 
 
Forse il più vasto progetto di saga cinematografica girato in trent’anni da Edgar Reitz, regista del Nuovo cinema tedesco. Il progetto voleva ricostruire la storia del Novecento tedesco attraverso le vicende di una famiglia in un piccolo paese. Partito  nel gennaio 1979, con l’inizio della stesura del soggetto da parte del regista,  è proseguito fino al 2013, con l’uscita del prequel Die Andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht, raggiungendo così la durata complessiva di circa 59 ore.
 
Questi i film del progetto con relative schede critiche:
 
HEIMAT 1 (1984)
 
Regia e Soggetto: Edgar Reitz; sceneggiatura: Edgar Reitz, Peter Steinbach; fotografia: Gernot Roll; musica: Nikos Mamangakis; mont.: Heidi Handorf; scenografia: Franz Bauer; costumi: Reinhild Paul, Ute Schwippert, Regine Baetz; suono: Gerhard Birkholz; interpreti e Personaggi: Willi Burger (Mathias Simon), Gertrud Bredel (Katharina Simon), Rüediger Weingang (Eduard Simon), Karin Rasenack (Lucie Simon), Michael Lesch (Paul giovane), Dieter Schaad (Paul Simon), Gudrun Landgrebe (KlŠrchen Sisse), Marita Breuer (Maria Simon), Eva-Maria Bayerwaltes (Pauline Kroeber), Arno Lang (Robert Kroeber), Markus Reiter (Anton ragazzo), Rolf Roth (Anton bambino), Mathias Kniesbeck (Anton Simon), Sabine Wagner (Martha Simon), Roland Bongard (Ernst ragazzo), Ingo Hoffman (Ernst bambino), Michael Kausch (Ernst Simon), Jšrg Richter (Hermann adolescente), Peter Harting (Hermann Simon), Joahannes Lobewein (Alois Wiegand), Gertrud Scherer (Martha Wiegand), Hans Juergen Schatz (Wilfried Wiegand), Wolfram Wagner (MŠthes-Pat), Eva-Maria Schneider (Marie-Goot), Kurt Wagner (Glasisch-Karl), Gabriele Blum (Lotti Schirmer), Joerg Hube (Otto Wholleben), Alexander Scholz (HŠnschen Betz), Marlies Assmann (Apollonia), Johannes Metzdorf (Fritz Pieritz), Helga Bender (Martina), Joachim Bernhard (Pollak), Hans-Günter Kylau (Zielke), Gerd Riegauer (Gschrey), Otto Helm (Glochzieh), Virginie Moreno (la cavallerizza), Rudolf Wessely (l’emigrante), Kurt Wolfinger (Gauleiter Simon), Alexandra Katins (Ursel), Andreas Mertens (Horstchen), Roswitha Werkheiser (Erica I), Heike Macht (Erica II); prod.: Edgar Reitz, per Edgar Reitz Filmproduktions/WDR/SFB; distr.: Italnoleggio – Istituto Luce; durata: 15h 40min.
 
Ambientato a Schabbach, villaggio immaginario dell’Hunsrück (Germania sudoccidentale), terra natale del regista, questo sceneggiato per la TV _ prodotto, scritto (con Peter Steinbach) e diretto da Reitz _ traccia, attraverso le vicende di tre famiglie (Simon, Wiegand, Glasich), un affresco di storia contemporanea tedesca dal 1919 ai primi anni ’80. È diviso in 11 parti: 1) Nostalgia di terre lontane (1919-28); 2) Il centro del mondo (1929-33); 3) Natale come mai fino allora (1935); 4) Reichshohenstrasse-Via delle Alture del Reich (1938); 5) Scappato via e ritornato (1938-39); 6) Fronte interno (1943); 7) L’amore dei soldati (1944); 8) L’americano (1945-47); 9) Hermännchen (1955-56); 10) Gli anni ruggenti (1967-69); 11) La festa dei vivi e dei morti (1982). In tedesco Heimat sta per luogo natale e di residenza, paese d’origine e casa paterna. Tra gli intenti di Reitz in questa “cronaca” fluviale profonda, complessa eppure semplice c’è quello di fare di Schabbach una sineddoche della Germania e di mettere a fuoco un'”anima” tedesca da riscoprire nelle sue regioni rurali dove, secondo il regista, la separazione tra Pubblico e Privato è più marcata che altrove. Con Berlin Alexanderplatz (1980) di Fassbinder, Heimat è stato uno dei due grandi eventi cinetelevisivi del decennio 1980-89, e non soltanto in ambito germanico. Nella sua affascinante semplicità, frutto di una decantata e controllata combinazione di molti elementi, è un’opera in cui i valori simbolici e le tensioni metaforiche sono concretamente calati in una epica del quotidiano di puntiglioso realismo. Poco più della metà del materiale montato è a colori e nella 1ª parte la preponderanza è del bianconero (fotografia di Gernot Roll), ma anche per altri aspetti stilistici il linguaggio di Reitz s’impone con autorevolezza nella sua varietà. Nel personaggio di Hermann, l’artista che prende coscienza della propria diversità e si allontana dalla Heimat, si può vedere un alter ego dell’autore. Non a caso sarà uno dei personaggi principali di Heimat 2. (M. Morandini)
 
Girato in parte in bianco e nero, in parte a colori, fu presentato in anteprima alla 41ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nell’agosto 1984, ottenendo un grandissimo successo di critica. Dopo poche settimane è stato mandato in onda per la prima volta dalla televisione tedesca, a partire dal 16 settembre, fino al 14 novembre 1984.
 
Heimat è la storia del ‘900 tedesco vissuta in un piccolo paese e intrecciantesi con le piccole storie quotidiane della gente comune. Tre generazioni si avvicendano su quel palcoscenico dal 1919 al 1982 mentre Reitz, filmando wendersianamente la vita, abilmente evita ogni sviluppo prevedibile e ad effetto: sembra non accadere nulla di eccezionale in queste 16 ore di film, ma in realtà noi spettatori finiamo per immergerci totalmente in quel microcosmo dal quale le grandi tragedie della Storia appaiono ad un tempo vicine ed estremamente remote. L’eccezionale cinema tedesco degli anni ’70 trova in questo gigantesco e folle lavoro un adeguato compimento: il mito americano di Wenders, il barocchismo di Fassbinder, il senso panico della natura di Herzog e della pittura di Friedrich sono tra le componenti di una per altro unica e irripetibile esperienza artistica e umana. (Cineforum) 
 
Come sei riuscito a realizzare un progetto tanto impegnativo come Heimat?
Dopo che lo Schneider… venne fatto a pezzi dalla critica e praticamente non uscì mai nelle sale, ero talmente ferito che non volevo mai più fare cinema. Mi sentivo profondamente umiliato e non vedevo più alcuna possibilità di proseguire il mio lavoro. Passai un inverno terribile a Sylt, sul Mare del Nord, telefonando la sera agli amici perché mi aiutassero a cambiar vita. Il colpo finale mi venne dalla trasmissione in Germania di Holocaust, che riuscì con i mezzi più bassi e detestabili del cinema commerciale a fare quello che noi avevamo tentato per vent’anni: toccare profondamente la coscienza dei tedeschi. Completamente demoralizzato, decisi di scrivere un libro, la mia autobiografia, per capire meglio me stesso, e così arrivai al tema centrale dell’andar via. Mi tornò in mente un vecchio soggetto del periodo di Ulm, la storia di uno zio di mia madre che un bel giorno era sparito ed era tornato molti anni dopo, ormai un ricco americano con una grande macchina e un autista negro. Scrissi questo racconto perché sentivo sempre piacere a raccontare storie, anche se avevo chiuso con il cinema. Proseguii così nella stesura, che conteneva già tutti i personaggi di Heimat. Il manoscritto venne letto da Joachim von Mengershausen, che convinse la televisione a interessarsi a tale progetto: a questo punto mi fermai nell’Hunsrück con Peter Steinbach per un anno a scrivere la sceneggiatura. In questo modo potevo anche sottrarmi ai creditori che continuavano a cercarmi dopo il disastro di Der Schneider von Ulm. In questa situazione ho girato Geschichten aus den Hunsrückdšrfern, perché non credevo che si sarebbe mai fatto Heimat; viceversa, del tutto inaspettatamente la WDR mi offerse un contratto per un film di sei ore. Il mio progetto restava però un’opera di sedici ore e decisi di rischiare la catastrofe e di preparare a loro insaputa il film come lo volevo io. In questo modo pensavo di costringere la televisione a finanziarlo sino in fondo.
Ma l’avevi pensato come uno sceneggiato televisivo a puntate?
No, l’ho sempre considerato un unico film; il motivo che mi ha dato la forza di scrivere la sceneggiatura era l’idea che questo fosse un film impossibile, senza limiti, una pura utopia. Volevo mandare al diavolo Oberhausen, Ulm, il Nuovo Cinema Tedesco, tutti i nostri progetti, programmi, sistemi. La mia strategia consisteva nel prendermi i soldi della televisione e infischiarmene delle loro richieste, delle loro esigenze, delle loro paure.
Come in Cardillac, uno dei dati stilistici che caratterizzano Heimat è l’alternanza tra b/n e colore.
Tale scelta fa parte della mia protesta contro le forme tradizionali, non volevo ricadere in una drammaturgia classica. Ma c’è anche un altro motivo: un film trasmesso in tv continua a far parte del palinsesto televisivo; Heimat, invece, doveva come contrastarlo, essere immediatamente riconoscibile, oltre alle altre sue particolarità, come un corpo estraneo. (dall’intervista a Reitz a cura di Giovanni Spagnoletti)
 
 
Heimat è stato un grande, meraviglioso sogno, una lunga fantasticheria, un viaggio attraverso ciò che un tempo era essenziale e determinava il prender forma della coscienza: le sensazioni, i colori, i paesaggi, le illusioni, gli sguardi, le attrazioni. Tutto questo esiste “dietro la storia”, nei tentativi dell’io di interpretare le condizioni dell’esistenza. Perciò ogni fatto, ogni personaggio, ogni evento sono stati scelti solo in quanto oggetti effettivamente di senso, esclusivi nella loro particolarità di elementi fondamentali. Ciò spiega in Heimat la negligenza del tempo, non solo come decorso oggettivo coerente e continuo, ma anche come riferimento narrativo, svolgimento affine all’accadere degli avvenimenti. Nel film ci sono situazioni che durano “eccessivamente”, quasi a voler fermare la densità del vissuto. Heimat vuol salvare l’esperienza e la temporalità, e non importa che esse rivivano nell’artificio, se la loro durata (metaforica, visiva, compositiva) ne materializza il carattere di necessarietà. Si potrebbe leggere il film come una fenomenologia dello spirito, una sequenza pulsionale, una volontà continua di manomettere il principio di realtà; non opera epica, ma lirica. Che si conclude e quasi si esaurisce conformemente ai tempi, in un’allucinazione che proietta i fantasmi del passato, figure lontane, lontanissime, che nulla possono ormai contro le ragioni del reale. Alla fine di Heimat ci si trova ad essere come Glasich, l’essere ai margini, che, ubriaco, non riesce più a distinguere tra l’ombra e l’oggetto. (Angelo Signorelli)
 
Il terreno di cultura del grande affresco sul villaggio di Schabbach è in tutta evidenza disforme dallo scialo di banalità delle telenovelas e affini. Le immagini di Reitz fanno al contrario compattamente gruppo, al fine di inseguire e ricomporre la possibilità di rinominare il senso della terra e del luogo natale, dopo le lordure del nazismo e la non richiesta americanizzazione del dopoguerra. Heimat sta infatti a designare il posto dove si è nati e cresciuti, ma da cui si rimane lontani: si parla di Heimat soltanto se la separazione garantisce, attraverso il ricordo e la nostalgia, i caratteri di una individuazione già di per sé problematica, molto immane all’anima tedesca e per nulla asservibile ai modelli stranieri (Gualtiero De Santi)
 
Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza (1992)
 
Regia, sceneggiatura: Edgar Reitz Fotografia: Gernot Roll (1-5) Gerard Vanderberg (6-9) Christian Reitz (10-13) Montaggio: Susanne Hartmann Scenografia: Franz Bauer Costumi: Bille Brassers, Nikola Hoeltz Casting: Robert Busch Suono: Heiko Hinderks, Manfred Banach, Reiner Wehr, Heymo Heyder, Reinhard Gloge Musica: Nikos Mamangakis Interpreti e Personaggi: Henry Arnold (Hermann Simon), Salome Kammer (Clarissa Lichtblau), Daniel Smith (Juan Ramon Fernadez Subercaseaux),Franziska Traub (Renate), Hanna Kolher (sig.ra Moretti), Michael Stephan (Clemens), Edith Behleit (madre di Clarissa), Alfred Edel (signor Edel), Gisela Müller (Evelyne Cerphal), Frank Roth (Stefan), Michael Seyfried (Ansgar), Lena Lessing (Olga Müller), Hannelore Hoger (Elizabeth Cerphal), Manfred Andrae (Gattinger), Ute Cremer (madre di Tommy), Dieter Steinbrink (padre di Tommy), Daniel Muck (Tommy), Noemi Steuer (Helga),Veronika Ferles (Dorri), Tana Schanzara (nonna di Helga), Hannes Demming  (padre di Helga), Renate Schmidt ((madre di Helga), Irene Kugler (Marianne), Armin Fuchs (Volker), Michael Schönborn (Alex), Martin Maria Blau (Jean Marie), Anke Sevench (Schnüssen), ), Franziska Stommer (sig.ra Reis), Kurt Weinzierl (dott.Bretschneider), Eva Maria Schneider (Marie Goot), Eva Maria Bayerwaltes (Pauline Simon), LazloI.Kish (Reinhard), Esther (Susanne Lothar),Anna Thalbach (Trixi), Peter Weiß (Rob), Wookie Mayer (Dagmar), Alexander May (Handschuh), Michael Stephan (Clemens), Carolin Fink (Kathrin), Marinus Georg Brand (signor Gross), Thomas Kylau (Zielke),Michael Stephan (Clemens), Carolin Fink (Kathrin), Guendolyn von Ambesser (moglie del console) Hanna Kolher (sig.ra Moretti) Produzione:Edgar Reitz Filmproduktion (Monaco), WDR (Colonia),BR (Monaco), HR (Francoforte),NDR (Amburgo),SFB (Berlino),SWF (Baden Baden), BBC (Londra),TVE (Madrid),TV1(Stoccolma) YLE (Helsinki), DR (Copenhagen) NRK (Oslo) ORF (Vienna). Distribuzione Mikado Durata 25 ore e 32 minuti
 
Saga composta di 13 film che attraversano l’intero arco degli anni ’60 e che, tolte poche escursioni, hanno come teatro dell’azione Monaco di Baviera: 1) L’epoca delle prime canzoni (Hermann, 1960); 2) Due occhi da straniero (Juan, 1960/61); 3) Gelosia e orgoglio (Evelyne, 1961); 4) La morte di Ansgar (Ansgar, 1961/62); 5) Il gioco con la libertà (Helga, 1962); 6) Noi figli di Kennedy (Alex, 1963); 7) I lupi di Natale (Clarissa, 1963); 8) Il matrimonio (Schnüsschen, 1964); 9) L’eterna figlia (La signora Cerphal, 1965); 10) La fine del futuro (Reinhard, 1966); 11) L’epoca del silenzio (Rob, 1967/68); 12) L’epoca delle molte parole (Stefan, 1968/69); 13) L’arte o la vita (Hermann e Clarissa, 1970). Come nella Recherche di Proust, il tempo di questa cronaca è sottoposto a continui cambi di velocità: accelerazioni, dilatazioni, ellissi, salti. S’impiegano 5 film, quasi 10 ore, per passare dal 1960 al 1962; l’azione del film n° 6 è chiusa nel giro del 21 novembre 1963, il giorno in cui a Dallas fu assassinato Kennedy; negli ultimi 3 si va dal 1968 al 1970 quando il giovane compositore Hermann Simon, punto focale di questa saga corale, torna al punto di partenza, il paese di Schabbach nell’Unsrück dal quale s’era staccato più di 10 anni prima. Die zweite Heimat _ la seconda patria, meglio: “matria” _ è la città, Monaco, patria di elezione per i personaggi, quasi tutti giovani, tutti figli, teatro della loro febbre di vivere, luogo di amicizie, studi, lavoro: musica soprattutto, ma anche letteratura, filosofia, cinema. Non è il seguito di Heimat, ma la sua filiazione: storia di una generazione e Bildungsroman, romanzo di formazione sotto il segno della morte. La contraddizione tra provincia e grande città è quasi ossessiva. Nei dialoghi s’insiste sull’equivalenza tra seconda patria e seconda nascita, sul ripudio della famiglia d’origine, sulla nozione di essere soltanto figli di sé stessi, quasi un’orgogliosa rivendicazione dei valori della cultura contro quelli della natura. Se la prima Heimat _ la provincia, l’Unsrück, tra il Reno e il Lussemburgo _ include il bisogno di stabilità e di radici, la seconda _ la città _ esprime la tensione verso la libertà che, però, è lacerante e ha qualcosa di provvisorio e d’incerto. Come lo stesso Reitz suggerisce, la riconciliazione tra bisogno di stabilità e desiderio utopico è un sogno utopico, e questo sogno è l’architrave tematico di Heimat 2. Dire che ciascuno dei 13 film ha una propria autonomia espressiva, e si può vedere e trarne emozioni e piaceri a prescindere dagli altri, è una mezza verità. Non è l’intrigo a far da traino, ma i personaggi e i loro conflitti: è la storia di personaggi che cambiano e crescono in un decennio. Pur avendo come destino il piccolo schermo, gli Heimat di Reitz sono 2 grandi eventi di cinema. Come il Kieslowski di Dekalog, il tedesco Reitz sa coniugare l’intensità con la semplicità, una puntigliosa progettazione e una grande libertà di esecuzione. Reinventa la funzione del primo piano (il volto come specchio dell’anima) e del materiale plastico, carica la sua scrittura di una forza inventiva. La sua vicinanza ai personaggi si alterna col distacco, frutto della lucidità di sguardo (talora impietosa, da entomologo) e di una distanza etica. La sua arte ha i movimenti del pudore: sa fermarsi davanti all’irrappresentabile, allontanarsi dall’impudicizia sentimentale, rifiutarsi alla pornografia estetizzante. In questa commedia umana alla Balzac dove la quotidianità assume cadenze ora epiche ora liriche c’è anche la presenza della Storia che salda il soggettivo al collettivo, la narrazione alla riflessione attraverso il filtro della memoria. Davanti a un film (un romanzo, un quadro) che amiamo bisognerebbe porsi, per prima o per ultima, la domanda di Hoffmanstahl: ma sta nella vita? Die zweite Heimat ci sta per intero. (M. Morandini)
 
 
HEIMAT 3 . Cronaca di una svolta epocale ( 2004)
 
Regia Edgar Reitz Soggetto Edgar Reitz Sceneggiatura Edgar Reitz, Thomas Brussig Fotografia Thomas Mauch, Christian Reitz Montaggio Helga Beyer, Magda Habernickel, Susanne Hartmann, Friederike Treitz Effetti speciali Jens Döldissen Musiche Michael Riessler Scenografia Franz Bauer, Michael Fechner Costumi Rosemarie Hettmann, Anja Richter, Evelyn Straulino Trucco Paul Schmidt, Ariane Wisniewski Interpreti e Personaggi Henry Arnold: Hermann Simon; Salome Kammer: Clarissa Lichtblau; Peter Schneider: Tillmann Becker; Antje Brauner: Jana; Larissa Iwlewa: Galina; Michael Kausch: Ernst Simon; Mathias Kniesbeck: Anton Simon; Christian Leonard: Hartmut Simon; Tom Quaas: Udo; Nicola Schössler: Lulu Simon; Uwe Steimle: Gunnar Brehme; Constanze Wetzel: Mara; Caspar Arnhold: Roland Produzione: Edgar Reitz  Distribuzione: Mikado  Durata 11h 39 min
 
La storia inizia il 9 novembre 1989, la sera della caduta del Muro. Due musicisti, il direttore d’orchestra Hermann Simon e la cantante Clarissa Lichtblau, sopraffatti dallo stress del loro lavoro e senza sapere dove andare, si ritrovano nel foyer di un grande albergo a Berlino Ovest. Un tempo erano stati amanti ma si erano persi di vista per diciassette anni in giro alla ricerca del successo. Contagiati dall’euforia dei tedeschi e dall’eccitazione per la riunificazione, partono per l’Hunsrück. Affascinati dalle romantiche case circondate da alberi nellla valle del Reno, decidono che d’ora in poi questo sarà il centro delle loro vite. Inizia così una storia d’amore che viene seguita per un intero decennio. Sei gli  episodi: Il popolo più felice della terra (1989)  Campioni del mondo (1990)  Arrivano i russi (1992 – 1993) Stanno tutti bene (1995)  Gli eredi (1997)  Congedo da Schabbach (1999 – 2000)
 
Reitz saluta i personaggi: li accompagna nel nuovo millennio, ma sembra non vedere più in loro i segni del futuro. Affresco storico, romanzo di formazione, saga familiare e storia collettiva, film fluviale dove ognuno può trovare momenti straordinari. Fino a quella piccola sonata di Mozart che il nipotino di Hermann suona, una notte, al pianoforte. Il futuro è suo. (FilmTv)
 
Edgar Reitz, dopo quasi dieci anni di lavoro e di superamento di ostacoli è riuscito a regalarci il terzo “Heimat”. Un film, questo dal decollo difficile (forse perché questi nostri tempi non sono facili da raccontare se si vuole evitare la facile retorica) ma che si espande, di episodio in episodio, come un pallone aerostatico che ci porta in volo su quel luogo geografico che grazie a Reitz è divenuto un luogo dell’anima europea che risponde al villaggio di Schabbach. E’ lì che torna Hermann portando con sé Clarissa. E’ da lì che si dipartono storie mai prestestuose e personaggi sempre seguiti con amore dall’occhio del regista-sceneggiatore. Lasciatevi portare dal flusso di questa saga che non si conclude qui. L’ultima inquadratura (segno della forza e della profonda consapevolezza umana e politica di Reitz) ce lo lascia sperare. (Giancarlo Zappoli)
 
Die Andere Heimat (L’altra patria – Cronaca di un desiderio) (2013)
 
Regia Edgar Reitz Soggetto Edgar Reitz, Peter F. Steinbach  Sceneggiatura Edgar Reitz, Gert Heidenreich Fotografia Gernot Roll Montaggio Uwe Klimmeck Musiche Michael Riessler Scenografia Toni Gerg, Hucky Hornberger Costumi Esther Amuser  Interpreti e personaggi Jan Dieter Schneider: Jakob Simon;  Antonia Bill: Jettchen Niem; Maximilian Scheidt: Gustav Simon; Marita Breuer:; Margarethe Simon; Rüdiger Kriese: Johann Simon; Philine Lembeck: Florinchen; Mélanie Fouché: Lena Zeitz; Eva Zeidler: Großmutter; Reinhard Paulus: Unkel; Martin Haberscheidt: Fürchtegott Niem
Produzione: Christian Reitz, Margaret Ménégoz Durata: 230’
 
 
1840, la famiglia Simon, come molte altre della Prussia rurale fatica a tirare avanti con la bottega da fabbro come unico sostentamento e due figli maschi sotto il tetto (l’unica femmina è stata cacciata per aver sposato un cattolico) di cui uno, Jakob, poco incline al lavoro e molto stimolato dallo studio. Nella mente di Jakob Simon c’è solo il Brasile, all’epoca meta di molti emigrati sfiancati dalla povertà che vivevano in patria, ne studia tutti gli idiomi e gli usi, sognando di partire anch’egli un giorno. A legarlo all’Hunsrück è però la passione per Henriette, giovane contadina, che ammira le sue inclinazioni fuori dal comune. Tuttavia la catena di eventi innescata da un fallito tentativo di ribellione alle angherie del barone che domina la regione, causeranno un improvviso e passionale incontro di Herriette con Gustav, fratello di Jakob, e la prigionia di quest’ultimo. Al suo ritorno Henriette si sarà dovuta sposare con Gustav suo malgrado. 
È un quarto capitolo in edizione ridotta (rispetto ai suoi standard) quello che Reitz porta alla 70. Mostra di Venezia a 7 anni dal terzo, un prequel che non molla la famiglia Simon ma nemmeno cerca a tutti i costi il ponte con il resto della storia (non è chiaro quale sia il membro della famiglia Simon da cui nascerà il Paul che troviamo nella prima serie). Eppure nonostante la brevità, il grande racconto di Reitz è splendido, al l’avvicendarsi di emozioni differenti e il consueto ripetersi delle più elementari dinamiche sentimentali.
Infatti nonostante una trama come sempre costellata dalle ordinarie tragedie del vivere umano (quelle familiari e quelle personali), lo stesso il regista è capace di infondere ad ogni momento del suo racconto una gioia di vivere e un’onesta emotiva che commuovonolivello dei primi due capitoli, animato da quel medesimo piacere nell’ammirare lo svolgersi delle esistenze altrui,.

 

Dal punto di vista formale e narrativo invece non mancano le allegorie e gli stilemi che hanno contraddistinto il resto della serie. Il rapporto tra colore e bianco e nero stavolta non si misura nell’alternarsi di scene, nel film il colore compare solo ogni tanto e solo in alcuni elementi dell’inquadratura. Una contaminazione che colpisce gli elementi vitali: le piante, i fiori (anche se disegnati sul muro), il calore del sole, le fiamme, il sangue e, a sorpresa, il denaro. Tutto in armonia con il discorso di Jakob sulla maniera in cui i colori, nella lingua di una tribù di indiani del Brasile, indicano anche stati dell’animo. (Gabriele Niola)