I classici del cinema – L’Orgoglio degli Amberson

The magnificent Ambersons (USA 1942)

Milano, 19.7.202

Regia: Orson Welles – Soggetto: Booth Tarkington (romanzo) – Sceneggiatura: Orson Welles, Jack Moss, Joseph Cotten – Fotografia: Stanley Cortez, Nicholas Musuraca, Russell Metty, Orson Welles, Russell A. Cully, Jack MacKenzie, Harry J. Wild – Musiche: Roy Webb, Bernard Herrmann – Montaggio: Robert Wise, Mark Robson, Jack Moss – Scenografia: Albert S. D’Agostino, Darrell Silvera – Interpreti: Tim Holt, Joseph Cotten, Dolores Costello, Agnes Moorehead, Anne Baxter, Ray Collins, Richard Bennett, Don Dillaway, Erskine Sanford, Gus Schilling – Produzione: Mercury Theatre e RKO Radio Pictures – Distribuzione: RKO -Durata: 88′.

La famiglia Amberson, importante famiglia di Indianapolis alla fine del XIX secolo, è ricca e benestante. Il film descrive, attraverso le vicende di alcuni suoi componenti, la sua ascesa e caduta alla vigilia della massiccia industrializzazione americana. Isabel Amberson sposa il ricco e aristocratico Wilbur Minafer, rifiutando per un capriccio di orgoglio la corte di un giovane che eppure ama: Eugene Morgan, intraprendente inventore di automobili di estrazione piccolo-borghese. Venti anni più tardi, dopo la morte del marito a cui è sempre stata fedele, Isabel si ritrova a vivere nella vecchia tenuta di famiglia col figlio George, il proprio padre, il fratello Jack e la cognata Fanny (segretamente innamorata di Eugene da sempre). Ironicamente il giovane George si innamora proprio della figlia di Eugene, Lucy, e allo stesso tempo cerca di impedire che sua madre si riavvicini ad Eugene, ora lanciatosi con successo nell’industria automobilistica e anch’egli vedovo. L’orgoglio del figlio sembra ripetere quello della madre venti anni prima: ora è lui a non poter sposare Lucy, figlia dell’uomo che insidia l’onore di sua madre Isabel. La vedova, osteggiata nel coronamento del vero amore, ma troppo devota al figlio per opporglisi, muore di consunzione, seguita subito dopo dall’anziano padre. In questa circostanza, emerge che la situazione patrimoniale degli Amberson è gravemente compromessa e quella che era un tempo una casata magnificente, ora versa in miseria. George e la zia sono quindi costretti a lasciare la casa di famiglia. Poco dopo il giovane ha un incidente stradale, nel quale si rompe ambedue le gambe. Visitato in ospedale dai Morgan, George chiede perdono a Eugene, riconciliandosi con l’amante della madre.

Film massacrato ma interessante per la vicenda che vede le difficoltà di adattamento di una ricca famiglia alla industrializzazione della società.

Appunti sulla vicenda produttiva
Il film si basava sull’omonimo romanzo di Booth Tarkington, vincitore del Premio Pulitzer. La carriera di Welles venne stroncata dall’insuccesso del film, che lui disconobbe per il rimontaggio da parte dei produttori della Rko Pictures, durante la sua assenza (si trovava in Brasile per girare il documentario It’s All True per rafforzare le relazioni interamericane e scongiurare l’alleanza del paese sudamericano con l’Asse). Essi, preoccupati dall’esito disastroso delle proiezioni-test, massacrarono la pellicola arrivando a tagliarne 43 minuti ed a far girare a Robert Wise un finale più rassicurante, adatto ai tempi di guerra.
Anche l’assenza di Welles come attore diminuì l’appetibilità del film (tanto più che vi aveva recitato nella versione radiofonica). Eppure negli anni il film verrà apprezzato e addirittura preferito, rispetto al precedente, da critici come André Bazin. Il suo stile, ricco di dissolvenze e in qualche modo in antitesi a Citizen Kane, più duro e realistico, per quanto entrambi abbastanza vicini al “barocco” nell’uso del grandangolo e nella scelta del piano sequenza, è tuttavia in questo film più calibrato e sobrio, ma di eccellente servizio al lavoro degli attori e al loro inserimento (anche con riprese dal basso) nella scenografia.

LA CRITICA

Persino in questa forma troncata è stupefacente e memorabile” (P. Kael ).

Fu realizzato in evidente antitesi a Citizen Kane come se fosse l’opera di un altro regista che, detestando il primo, volesse dargli una lezione di modestia (F. Truffaut).

Parlando de L’orgoglio degli Amberson in realtà si vorrebbe parlare di un altro film. Di quel film che Orson Welles aveva in mente e che mai potremo vedere sullo schermo. Le vicende che hanno portato al taglio di 33 minuti finali sono abbastanza note. Welles è al suo secondo film, all’apice della sua popolarità. Terminate le riprese, è costretto (gli scriverà Roosevelt di persona) ad andare a girare il carnevale di Rio, per quello che l’amministrazione americana concepiva come un documentario volto alla distensione delle relazioni panamericane. Il montaggio rimane in mano agli studi della Rko, la casa produttrice con la quale Welles inizia la sua avventura nel mondo del cinema, che, dopo una proiezione esplorativa dai riscontri non esaltanti, decide di mettere mano pesantemente al film, considerato troppo lungo e farraginoso. Finiranno dunque nel cestino 33 minuti di film, che Welles dal sudamerica proverà, senza successo, a salvare almeno in parte con un fitto carteggio di minuziose istruzioni. Inizierà da qui, appena dal secondo film, la “leggenda nera” su Welles, sui suoi modi e sui suoi capricci, leggenda ampiamente infondata che segnerà, solo un anno dopo Quarto potere (anch’esso un flop di incassi negli Stati Uniti) l’inizio della sua parabola discendente. Ci piacerebbe qui affrontare quel film che è esistito per un brevissimo periodo nel 1942, ma che non ci è più possibile ricostruire. Il dato per certi versi eccezionale è che la pellicola, nella sua interezza, non ha smarrito affatto quella potenza (e prepotenza, per certi versi) visiva che faceva pensare a Welles che “sarebbe stato molto meglio di Quarto potere”. L’intento di fondo è sempre lo stesso. Far trasparire un’umanità profonda e complessa dietro la cortina fumogena dell’alta società, della ricchezza economica. Negli Amberson, in modo più larvato e, per questo, probabilmente più incisivo che in Citizen Kane, la sfera d’azione in cui i personaggi si muovono è quella del potere. Potere inteso come possibilità di prevalere, non necessariamente come imposizione obbligata. Welles parte da questa sovrastruttura sociale per introdurre i suoi personaggi (si pensi alla descrizione, finanche fisica, del piccolo Gorge Amberson sul carrettino). La ricerca di senso per i suoi personaggi va ben al di là di questo approccio iniziale. Ogni Amberson ha una sua “Rosebud”, una sottotraccia che scardina la patina di invincibile borghesismo della quale sono ammantati. Welles da subito descrive un mondo con precise scelte registiche. La macchina da presa è posta nella maggior parte dei casi più in basso di quella che potrebbe essere un’ipotetica soggettiva degli attori. Doppia la valenza, una etica e una funzionale. Quest’ultima è quella di ampliare gli spazi, di rendere “magnificent” le scenografia in cui gli attori si muovono, allo scopo di presentare in tutta la sua grandezza la cornice in cui gli Amberson vengono dipinti. Ma anche un fondamento etico, si diceva. Quello di una posizione di prenne sottomissione, in cui si è quasi costretti ad alzare la testa se si vuol cogliere espressioni e movimentii dei protagonisti. E così, a dispetto della sovrastruttura scenica nei quali li si vuol collocare, gli Amberson sono intimamente umani, con tutti i difetti ei pregi che ciò può comportare. “Lo odiavano tutti, ma nessuno riusciva a sostituirlo in mezzo alla comunità”. Questo il giudizio netto, conciso, che Welles ci offre su Gorge Amberson, come anche sull’intera famiglia. _Una storia, come praticamente tutte quelle del Welles regista, che dipinge con agili plan e inquietanti campi lunghi la parabola discendente di un grand’uomo, di una grande famiglia, che cade in rovina per non essere riuscita ad adattarsi ad un mondo che cambiava. In fondo Welles ci indica chiaramente tutto nel serrato incipit (che nella versione originale vedeva lo stesso Welles come narratore). Un mondo che cambiava in fretta, nel quale una seconda possibilità era dura da ottenere. Le occasioni sprecate saranno la tara della potente famiglia, che nei modi e nei tempi cinematografici tenderà a ribadire costantemente lo sprezzante distacco tra “un Amberson” e il resto del mondo. Ma nelle ultime sequenze la macchina da presa si eleva ad altezza volto. Segno che George Amberson ha iniziato a dare del tu alla vita. Segno che noi possiamo iniziare a dar del tu a George Amberson. (Pietro Salvatori – Movieplayer)

Il tema del tempo è uno dei – anzi, uno dei possibili – metodi di approccio alla narrazione adottati da Welles: si esplicita tramite il massiccio ricorso al piano sequenza, per la verità notevolmente ridimensionato in questa pellicola – 200 contro i 562 di Citizen Kane.
Quel che è certo è la riconoscibilità del genio tecnico/estetico/narrativo del giovane regista, qui appena ventiseienne, che ben si realizza nell’elegante e bilanciata composizione del quadro; possiamo dire, senza timore di esagerare, che ogni singolo fotogramma sia una splendida fotografia. La narrazione del denaro, della sua potenza e della conseguente corruttibilità dell’estro artistico espressivo, che su tutto domina, trova concreto riconoscimento negli scellerati tagli che i produttori apportarono contro la volontà del celebre regista (la durata della pellicola, dopo la macellazione, passò da centotrentuno minuti ad appena ottantotto…). L’episodio costituisce una dolorosa e inevitabile rievocazione di come l’arte cinematografica, probabilmente più delle altre, dipenda dal denaro, di come la sua massima esplicazione concettuale sia direttamente proporzionale alla massiccia presenza di quest’ultimo. L’argomento principale dell’opera, come in Quarto potere, è la perdita della purezza, dell’infanzia, sacrificata all’età adulta e all’appiattimento della profondità rurale che si concretizza nella tecnologia, nella modernità dell’automobile e della velocità superficiale che ne consegue. Nonostante il budget limitato (Welles non ebbe a disposizione gli ingenti capitali della sua pellicola precedente, Citizen Kane) restano straordinari e indimenticabili i piani sequenza, i grandangoli più che mai funzionali alla narrazione, la profondità di campo mai scontata, anche grazie alla preziosa collaborazione del direttore della fotografia Stanley Cortez. Contatto visivo puro e avvolgente, che non resta in superficie e racconta, oltre la capacità delle parole, ciò che si cela tra gli spazi bianchi della narrazione. (Francesco Ippolito – Cinemaniaci)